Vi proponiamo un assaggio della concezione del diritto naturale, padre fondatore di tutta la teoria del diritto, esposta magistralmente dal prototipo dell’avvocato moderno: Cicerone.
«Questa della legittima difesa è una legge non scritta, ma innata nell’uomo, da noi non appresa sui banchi di scuola, né ereditata dai nostri padri, bensì attinta e ricavata dalla natura stessa. Una legge alla quale non siamo giunti per via dell’insegnamento, ma alla quale siamo intimamente predisposti per istinto. Se la nostra vita è in pericolo per qualche insidia o si imbatte in violenza di ladroni o nemici, ogni ragionevole tentativo per noi di salvezza è praticabile».
[«Est haec non scripta, sed nata lex, quam non didicimus, accepimus, legimus, verum ex natura ipsa arripuimus, hausimus, expressimus, ad quam non docti, sed facti; non instituti, sed imbuti sumus; ut si vita nostra in aliquas insidias, si in vim et tela aut latronum aut inimicorum incidisset, omnis honesta ratio esset expediendae salutis».]
Cicerone, Pro Milone 10
Il Pro Milone, l’importante discorso giudiziario che avrebbe dovuto essere pronunciato da Cicerone in difesa di Tito Annio Milone, esprime un profondo elogio della legittima difesa conforme alla concezione del diritto naturale.
Il concetto della legittima difesa è quello per cui la violenza, la forza, la passione erompente è conforme all’esigenza della natura; e per questa conformità alla natura la ragione costringe a darvi riconoscimento e consacrazione giuridica-legale. Legittima difesa significa difesa senza autorizzazione legale esplicita, né implicita (prima della formulazione nel Codice penale del concetto in discussione), ma tale che si deve ritenere non difforme dalla volontà del Legislatore, tale anzi che il Legislatore la contemplerebbe e la formulerebbe subito, appena il fatto, non ancora sperimentato, gliene rivelasse la necessità, imponendosi comunque alla sua riflessione (ex facto oritur ius).
Le circostanze sono tali infatti che, dovendo provvedere alla “propria salvezza” messa in pericolo da altri, l’unica ratio di difendere la propria vita resta quella di usare la violenza; che, genericamente viene proibita dalla legge, nel caso concreto invece è tacitamente consentita. È il caso questo in cui la natura sembra affaticarsi e fremere come per convertirsi in razionalità e in legalità: la natura è l’esigenza della vita di chi si deve a ogni costo salvare, ma è anche la passionalità immediata, irrompente. La legge viene a custodire questa volontà, questo interesse dell’individuo, conforme a rerum natura, ma esplodente, come una forza della natura, senza disciplina, senza norma.
È il caso in cui passione e legge si toccano, senza saper l’una dell’altra, e coincidono; in cui la natura rerum (razionalità implicita) provoca ipso facto la legge a difenderla e a coprirla. La natura (impulsività) rimane coperta ipso jure nascente dalla volontà della legge. La difesa è, nel risultato, offesa; la sua legittimità non è tale perché sia consacrata da uno stato di cose precedente, alla quale si voglia adeguare il soggetto che si difende, come per esempio chi fa testamento o celebra un matrimonio: atti ai quali la legge prescrive le debite forme. Ciò che rende legittima la violenta difesa di sé, che riesce in offesa altrui, è il pericolo che incombe sul soggetto. Il principio semplicissimo, intuitivo, della necessità di conservare la vita, valorizzato dalla sanità dell’istinto di chi offende per difendersi, di chi intuisce la necessità di tal impulso come unica ratio per il suo salvamento fisico, fa sì che quell’istinto appaia l’attuazione palpitante, fremente, inconsapevole di quel principio, scolpito nella coscienza umana.
Principio che è a un tempo utilitario, etico e giuridico, perché va alle radici della vita, perché sprigionarsi ex formula naturae. La natura è buona, dunque la norma da essa dettata non può essere sbagliata; non è sbagliato l’istinto di chi offende per difendersi. La razionalità e giustizia della legge tutelante la difesa violenta di sé è repetenda ab naturae formula. La formula naturae è qui la stessa natura juris: le due nature si identificano nella natura hominis; l’uomo appartenente a quell’ordine fisico, istintivo e impulsivo, che la legge ha il compito di disciplinare; l’uomo da cui promana la forza disciplinatrice del diritto e la concezione stessa del diritto: del diritto la mente ha bisogno di formulare, esprimere, concepire la vita: profilarla, sancirla, rilevarla (teoria e prassi inscindibile del diritto), vederla, viverla: una vera e propria forma veggente.
La legge per dimostrare la sua necessità obiettiva, per togliere apparenza di arbitrio, sembra aver bisogno di adeguarsi alla vergine natura, a cui Cicerone la riconduce. Non scrittura, non apprendimento, non accoglimento o recezione accidentale e contingente, non dottrina, non istruzione; ma dalla natura stessa abbiamo colto, assorbito, scolpito in noi la necessità e il pronto intuito della difesa, alla quale siamo fatti, chiamati, portati dalla stessa forza della natura, che ne consacra la liceità, anzi l’articolazione giuridica.
La natura è qui dunque il diritto naturale, il quale vuole informare di sé e conformare a sé la legge e trasferirsi e convertirsi in legge, perché non è un’esigenza deontologica riflessa, frutto di coscienza addottrinata e raffinata, ma è la stessa natura umana, prima della storia, anzi ciò da cui ha origine la storia, col fatto stesso di imporre il riconoscimento della sua necessaria difesa (ossia conservazione della vita) alla legge disciplinante la vita, costituente la civile convivenza. Quella necessità costituisce “l’onestà della difesa”, che è perciò legittima. L’honestum, la ratio honesta è qui l’esigenza della natura fattasi idea morale semplicissima, presupposta dalla lex e dal jus. Esiste dunque diritto in natura, per il semplice fatto della spontanea difesa violenta di sé in chi è onesto (come esiste diritto in natura, senza contraddizione reale, per il fatto che l’uomo tende ad associarsi con altri uomini).
Tra l’iniusta poena luenda della violenza dei latrones o degli inimici e l’impossibilità di repetere a lege la iusta poena, che sarebbe iusta, a rigore, quando la legge invitata a intervenire per far valere la sua autorità e il suo volere, la sua sentenza (nutus et verbum), desse il suo responso e la sua facoltà prima che il soggetto si muova comunque, sta il pericolo che è incolore, neutro.
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Ma l’esigenza, che il soggetto porta con sé sovrana, della sua conservazione, converte la natura (nell’indiscriminato valore di impulso passionale e di esigenza retta) in volontà implicita della legge; la quale si fa custode della vita e alla vita che più vale (dell’uomo onesto) consente tutti i mezzi che sono a sua portata, per salvarsi e difendersi. È questo un esempio del come giurisprudenza e filosofia coincidono, al di sopra delle relative categorie preconcepite, nell’esigenza della giustizia e della verità, ridotte al loro così semplice principio da toccare la natura, anzi da derivare da essa ed esserne informate. Ma arrivare alla natura e al suo concetto non è facile, come non è facile, ma è faticoso, al poeta severo giungere alla sua espressione.
Sembra che qui Cicerone sia giunto alla nettezza concettuale nella mirabile felicità ed efficacia espressiva corrispondente. Al concetto si oppone la consuetudine filosofica, giuridica, sociale, espressiva: la fitta boscaglia di idoli, di abitudini, di pregiudizi, che occorre tergere, radere, divellere. È questo l’officio, la prerogativa eminente dei classici:
I vetusti divini, a cui natura parlò senza svelarsi, onde i riposi Magnanimi allegràr d’Atene e Roma.
come Leopardi (Ad Angelo Mai, 53-55) li chiamò, proprio a proposito di Cicerone.
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