Il famoso detto “verum ipsum factum” di Giambattista Vico ha origine nel profondo del suo pensiero ed è la radice su cui si sviluppa la filosofia del diritto in Italia: scopriamone il motivo e le implicazioni vis-à-vis con Aristotele.
La famosa formula vichiana “verum ipsum factum“, ormai divenuta gergale, ha un’interpretazione molto controversa. Cercheremo di spiegarla attraverso il pensiero di Giambattista Vico e di cogliere come sia il punto di partenza per lo sviluppo storico della filosofia del diritto in Italia dal VIII secolo.
Il testo di riferimento è l’Antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda (1710), in cui compare per la prima volta il “detto” verum ipsum factum, inserito in un discorso metafisico più ampio intorno alla scienza, o meglio intorno alla condizione di possibilità di fare scienza da parte dell’uomo.
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Secondo Vico, solo a Dio spetta l’intelligenza e la vera scienza, mentre all’uomo spetta solo il cogitare e la coscienza del suo pensare. Il Vero è in Dio e solo Egli può avere piena scienza delle cose poiché ne è l’autore, cioè Egli sa in quanto causa del reale. Dall’altra parte all’uomo è dato solo quello che Vico chiama il Certo.
Si comprende questa impostazione alla luce del fatto che la scienza umana è imitatrice di quella divina e, come dice Vico, ‹‹il Certo nel Vero nell’uomo è nell’aver fatto ciò che conosce››. Vico ne fornisce una prova evocando la teologia cristiana, affermando che in Dio ‹‹il Vero si confonde ad intra col generato ad extra col fatto››, proprio perché Dio si è fatto carne, cioè il Vero si è fatto uomo-factum che all’uomo a sua volta è possibile l’accesso al Vero per mezzo del Certo-factum. In questo senso Vico afferma: ‹‹in Dio è tutta la ragione, l’uomo ne ha soltanto una parte››.
In questo modo il filosofo imposta la struttura teologico-metafisica che regge il suo pensiero, una struttura come si evince del tutto cattolica e cristiana che dichiara esplicitamente a più riprese: ‹‹la civiltà esiste in Dio, è retta da Dio, torna a Dio. Senza Dio non vi sono leggi, repubbliche e società››.
Ma per comprendere cosa intende Vico per Certo e per Vero è utile fare riferimento alla sua opera più sistematica, la Scienza Nuova, in cui determina meglio il concetto di Certo e di Vero riguardo alle leggi. Il Certo, dice Vico, ‹‹è un’oscuratezza della ragione, e vi corrisponde l’equità civile››, determinata dagli uomini, intesi come il Vero individuato e particolarizzato, essendo imitatori del Vero divino. Il Vero delle leggi, invece, ‹‹è lume e splendore dato dalla Ragione naturale. Verum est vale aequum est››, dunque il Vero è identico all’aequum.
Da ciò segue il principio cardine della Scienza Nuova: l’equità naturale della ragione umana tutta dispiegata è una pratica della sapienza umana nelle “faccende” dell’utilità. Viene così a delinearsi il concetto di utilità, intesa come la ‹‹scienza di far uso delle cose quali esse sono in natura››.
Riassumiamo ciò che abbiamo detto fin qui cercando di chiarire alcuni snodi: abbiamo detto che del mondo naturale solo Dio ha scienza, proprio in quanto ne è il creatore, mentre ‹‹del mondo del civile o del mondo delle nazioni›› che è stato fatto dagli uomini l’uomo può averne scienza. E, aggiunge Vico, ‹‹i principi si debbono ritrovare entro le modificazioni della mente umana››. Questa concezione però va completata con ciò che il filosofo dice riguardo all’utilitas nel testo De Uno Juris Principio et Fine Uno: ‹‹la giustizia dirige le utilità e le agguaglia: questo è l’unico principio e il fine ultimo del diritto››.
Tornando ora alla conversione del Verum nel Factum, anche dunque l’utilitas, nel senso appena indicato, ovvero come parte della giustizia, contiene a sua volta parte del Verum e quindi si converte in Factum.
Una prospettiva del tutto opposta la ritroviamo in Aristotele, per cui il verum non potrebbe mai essere identificato né con l’equo, né con il factum. Infatti in Etica Nicomachea, V: ‹‹l’equo è sì giusto non secondo la legge bensì è un correttivo del giusto legale››. Questo significa che il giusto in sé non è giusto tutte le volte, ma è un correttivo che rende conto della situazione particolare di volta in volta. Dice ancora Aristotele: ‹‹ne è causa che ogni legge si dice in universale mentre su alcuni casi non è possibile dire correttamente l’universale››. E poche righe dopo afferma: ‹‹la legge non è per niente meno retta a causa di questa correzione (del giusto legale). L’errore infatti non è né nella legge e né nel legislatore ma sta nella natura del fatto, poiché tale infatti è la materia delle cose che gravitano nell’ordine dell’agire››.
L’errore, denuncia Aristotele, è nel factum: ciò significa che nell’ordine dell’agire in società non c’è quella perfezione che è tipica dell’ordine universale, del “sopra lunare”, di conseguenza la legge, avendo a che fare con il “sub-lunare”, opera nel mondo del per lo più, dell’accidentalità e non può essere governato secondo l’universalità del concetto.
Vico, invece, ricordando per certi versi il De Civitate Dei di Sant’Agostino, concepisce una civitas magna, una comunanza di Dio e degli uomini, sottoposta all’autorità di Dio, compiendosi così il divino circolo per il quale la società umana partendo dalla teocrazia ritorna e consiste nell’ordinamento divino e umano dello Stato.
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