Nato a Nuoro il 9 agosto 1902 da Salvatore, notaio, e da Valentina Galfrè, di origini piemontesi, fu l’ultimo di sette fratelli. Si laureò a Sassari l’11 ottobre 1924 con il massimo dei voti e la lode, discutendo una tesi sulla revocatoria fallimentare con Lorenzo Mossa.
L’esperienza come avvocato penalista, subito intrapresa a Nuoro sotto la guida del fratello Filippo, si rivelò deludente; scoraggiato, nel 1925 si trasferì a Milano, dove svolse il tirocinio presso lo studio di Marco Tullio Zanzucchi, processualcivilista dell’Università Cattolica. Tramite Mossa, collaborò con la Rivista di diritto commerciale, ma nel 1926 si ammalò di tisi e dovette trascorrere due anni nel sanatorio di Merano. Si ispirò a quell’episodio di vita il romanzo La veranda, il cui manoscritto, presentato al premio Viareggio nel 1928, fu apprezzato da Marino Moretti, ma non dagli altri membri della giuria, che lo considerarono troppo forte e crudo per la sensibilità dei lettori. Ciò indusse l’autore a rinunciare alla pubblicazione del lavoro, che rimase inedito fino al 1981, quando, ritrovato fra le sue carte, vide la luce per i tipi di Adelphi.
La delusione lo riportò agli studi giuridici e riprese a pubblicare con continuità. Dopo aver ottenuto l’incarico di diritto processuale civile a Camerino (1931-32, rinnovato l’anno seguente), nel gennaio del 1933 conseguì la libera docenza (presidente della commissione Giuseppe Chiovenda), per vincere quasi immediatamente il concorso per professore straordinario bandito a Messina.
La commissione, presieduta da Giuseppe Messina, ne sottolineò le capacità di sistemazione, la chiarezza espositiva, la cultura giuridica non ristretta alla procedura, l’indipendenza dei giudizi, salvo rilevare come talvolta le costruzioni fossero «difficilmente conciliabili col diritto positivo»: da subito, dunque, si colse la peculiarità del pensiero del giurista sardo, tutt’altro che disposto a farsi omologare entro il dettato della legge o delle dottrine dei pur autorevoli maestri.
Chiamato a Macerata (decreto del 30 dicembre 1933, con effetto dal 1° gennaio 1934), vi insegnò tre anni e poté incontrare Giuseppe Capograssi. In particolare, il giovane giurista rimase affascinato dalle riflessioni sul concetto di esperienza giuridica su cui insisteva Capograssi: il diritto era forma del vissuto e propriamente conoscere la forma significava conoscere la vita. Applicato al campo processuale quel concetto consentiva sia di rendere dinamica e concreta la costruzione del rapporto tra individuo e Stato e tra legge e interpretazione, sia di ripensare la funzione della giurisdizione (non più intesa come mera attuazione della legge).
Alla fine del 1936 Satta assunse la cattedra padovana in sostituzione di Francesco Carnelutti, con il quale ebbe sempre un rapporto conflittuale.
La polemica non verteva tanto sulla banale contrapposizione tra la direttrice pubblicistica o privatistica del processo, bensì su come intendere il rapporto tra l’azione (la sua autonomia era la novità dottrinale portata all’inizio del secolo da Chiovenda) e il diritto soggettivo sul cui accertamento il processo verteva. Nello sforzo di riaccostare diritto e tessuto sociale, Satta non si avvicinava né al positivismo ottocentesco (il giudizio come rivelazione della legge nel caso concreto attraverso l’interpretazione), né all’astratta teorizzazione chiovendiana. Era l’inizio del travaglio che accompagnò poi il giurista, infaticabile nel suo continuo ripensamento, sempre imperniato sul citato concetto di «esperienza giuridica» e sulla pluralità degli ordinamenti entro un sistema unitario (quest’ultimo punto derivava da Santi Romano).
Nel 1938 ottenne la chiamata nella meno prestigiosa Genova, in modo da esonerarsi dall’insegnamento della materia storia e dottrina del fascismo che gli aveva imposto il rettore patavino.
Sullo scorcio della guerra Satta, abbandonata la Genova bombardata, si mise a disposizione dell’Ateneo triestino, dove tenne in via temporanea l’insegnamento di diritto industriale (presso la facoltà di economia) in qualità di professore aggiunto. Nel luglio del 1945 venne commissario straordinario dell’Università, titolo poi convertito dalle autorità anglo-americane in quello di pro-rettore ad interim. Su nomina del Comitato di liberazione nazionale triestino, fece parte della delegazione deputata a far valere l’italianità di Trieste e dell’Istria nella Conferenza tenutasi a Parigi nell’estate del 1946.
La tragica esperienza della dittatura e della guerra gli ispirò il De profundis, composto tra il giugno del 1944 e l’aprile del 1945: un dolente affresco del dramma che tutti aveva coinvolto e che aveva portato alla situazione da lui definita come «morte della patria».
Satta descriveva un’Italia senza virtù e si scagliava particolarmente contro ‘l’uomo tradizionale’, falso e sempre pronto a giustificare il proprio egoismo persino facendo uso dell’armamentario giuridico nell’immaginario giudizio di fronte a Dio (il libro è intriso di sarcastiche allusioni al formalismo giuridico, alla statolatria, ai «professori e professoruncoli» impegnati a costruire dogmi e ad ammantare con sublimi concetti la politica della forza). Satta rilevava che secondo la moralità imperante l’esame sulle responsabilità (avvento della dittatura e sostegno a essa prestato) era agevole da superare, poiché consisteva in un’autoassoluzione generale.
Nemmeno questo secondo lavoro letterario fu però compreso dalla critica: rifiutato da Einaudi nel 1946 con la motivazione che l’autore, rimasto al di fuori dell’ambiente antifascista, non poteva comprendere le spinte ideali sottese alla Resistenza, fu poi respinto da Sansoni (nonostante i buoni uffici di Ugo Spirito, su richiesta di Capograssi) e da La Nuova Italia (si attivò in questo caso Francesco Calasso). Il libro fu infine edito da Cedam nel 1948, ma rimase pressoché ignoto al largo pubblico e ai giuristi fino al 1980, quando, accolto da Adelphi, ebbe una notevole fortuna sulla scia del successivo romanzo.
Intanto nel 1946 Satta aveva ripreso la vecchia cattedra a Genova, dove svolse anche le funzioni di preside. Era l’inizio di una nuova vita, perché, come egli stesso affermava, chi aveva attraversato la drammatica cesura degli anni Quaranta poteva ritenere d’aver vissuto due volte.
Per interessamento di Antonio Segni, nel 1958 fu chiamato all’Università di Roma sulla cattedra di diritto fallimentare per poi passare su quella di diritto processuale civile (1961). Nel 1958 divenne direttore della sezione di procedura civile dell’Enciclopedia del diritto, mentre nel febbraio del 1965 fu eletto preside ma esercitò la carica per poco tempo, colpito dopo alcuni mesi da una grave forma di peritonite.
Alla ripresa, quella ‘crisi’ che aveva nitidamente avvertito nel dopoguerra come giurista e come intellettuale andò tramutandosi in una solitudine che si alimentava e si traduceva in un attivismo quasi prodigioso. Tra il 1967 e il 1973 apparvero due nuove edizioni del manuale processualcivilistico, con importanti prefazioni che riconsideravano gli itinerari percorsi, denunciavano il conformismo e ponevano interrogativi.
Satta approntò un saggio duramente critico sulla scienza giuridica italiana, dedita al concettualismo astratto, chiusa in steccati disciplinari, dominata da cordate clientelari di potere, petulante nel chiedere diritti senza avvertire la responsabilità dei doveri. Il testo (Considerazioni sullo stato presente della scienza e della scuola giuridica in Italia), rifiutato da varie riviste, fu pubblicato, unico inedito, nei Soliloqui (1968).
Nel 1970 pubblicò nella Enciclopedia del diritto (XIX, pp. 218-329) la voce Giurisdizione (nozioni generali) che si era autoassegnato e che non sembra azzardato definire il suo testamento scientifico. Qui Satta dichiarava mera opera di fantasia la entificazione dello Stato, negava in quanto irreale la tripartizione delle funzioni (legislazione, amministrazione, giurisdizione) e dichiarava che l’ordinamento (anzi, i tanti ordinamenti in cui la societas organizzata si risolveva) coincideva con la giustizia nel caso concreto, rinvenibile attraverso il processo: giurisdizione equivaleva a ‘giustizia’ ed era il formarsi stesso del diritto («il diritto fa la sua apparizione soltanto nel momento del giudizio»). Poteva ben esistere un diritto senza legislazione, mentre esso era impensabile senza giurisdizione.
Avversando quanti criticavano le ideologie sottese al diritto, teorizzava che il giurista dovesse essere necessariamente conservatore, perché chiamato a scoprire il diritto fattualmente esistente e incarnato nei valori dell’ordinamento: valori di origine ideologica, certo, ma giuridicizzati nell’ordinamento e come tali vincolanti.
Ma è sul piano letterario che il suo bisogno di introspezione si espresse più nitidamente.
Il 25 luglio 1970 cominciò così la stesura del suo capolavoro letterario: Il giorno del giudizio. È il racconto autobiografico, incompiuto, incentrato sulla vita della sua famiglia (Sanna nel romanzo) nel primo ventennio del secolo e nel contesto della Nuoro del tempo. I personaggi e l’ambiente erano rappresentati secondo un ordine: ognuno con un ruolo e una caratterizzazione propria in quella societas da cui il futuro cattedratico processualcivilista si era staccato, ma tutti con il problema di vivere. Era un ritorno alle origini, per chiedersi il perché delle cose e per prepararsi al giudizio, da cristiano laico o forse da calvinista, come Satta stesso ha lasciato scritto; per quanto vi sia in essa un ordine, la vita stessa è un mistero al pari di quel processo cui il giurista aveva dedicato la sua riflessione accademica.
Pubblicato postumo da Cedam nel 1977 e ristampato nel 1979 da Adelphi il libro, inizialmente ignorato dalla critica e accolto con imbarazzo nella città natale, divenne presto un caso letterario tradotto in diciassette lingue. Da allora la fama del letterato, peraltro contrastata, oscurò quella del giurista, non meno grande.
Il 20 maggio 1972 Satta aveva tenuto la sua ultima lezione ed era stato collocato fuori ruolo. Morì a Roma il 19 aprile 1975, stroncato da un male incurabile.