Io proprio non me la sento di aggiungere nulla ai racconti, le storie e gli aneddoti sulla incommensurabile vita di Giacomo Girolamo Casanova.
E non mi riferisco naturalmente solo a quanto raccontato da lui medesimo nelle sue celebri memorie, pubblicate in centinaia di edizioniin quasi tutto il mondo, ma parlo anche di tutti i romanzi, film e opere che nei secoli ne hanno omaggiato gli amori, e soprattutto e le peripezie e le avventure che hanno portato il celebre veneziano ad essere uno dei personaggi che più di ogni altro ha animato le corti del ‘700.
Dovrei forse raccontarvi della sua prigionia nel carcere del Palazzo dei Dogi, i Piombi a Venezia, dove era stato rinchiuso per blasfemia. libertinaggio e detenzione di libri proibiti? E di come vi fuggì dopo aver praticato un foro nel soffitto della cella, uscendovi indisturbato .
Cos’altro mi resterebbe da dire sul suo errare avventuriero da Parigi a Madrid, dalla Russia alla Polonia, dai Paesi Bassi alla Svizzera dove vive di espedienti e truffe. Oppure sui suoi incontri con i personaggi più in vista della sua epoca, da Rousseau (che detestava) a Caterina II, Federico II e persino Benjamin Franklin, e addirittura Mozart, per il quale collaborò per la stesura del libretto del Don Giovanni (di cui a lungo si discusse se fosse un suo alter-ego).
O di quella volta che si innamorò di un cantante castrato, di quelli con la voce bianca, che solo lui aveva riconosciuto essere in realtà una donna, di quelle vere, sotto mentite spoglie?

Casanova di profilo. Siamo onesti: era bruttissimo. Per tutti c’è speranza?
E della sua passione per la matematica? E l’invidia per Voltaire (al quale non si sentiva affatto inferiore)? La voce a lui dedicata su wikipedia lo definisce anche alchimista, diplomatico e agente segreto. Essì perché tornato a Venezia dopo quasi venti anni di esilio, passa al soldo degli Inquisitori di Stato quale confidente ordinario. Gira per i locali e salotti della Serenissima a caccia di cospiratori, riferendo di scandali, corruzione, e dei reati a cui spesso gli capitava di assistere.
Le cronache riportano di una “riferita” su alcuni libri peccaminosi di successo tra i nobili, dal Casanova definiti “pessimi, poiché sfacciatissimi nel libertinaggio e atti a eccitare con voluttuose storie, lubricamente scritte, le assopite e languenti nemiche passioni” (l’ho letto qui).
Ma come!?
Casanova faceva la spia perché altri leggevano libri licenziosi? Proprio lui che è la figura più classicamente accostata alla narrativa erotica!?
Quella stessa narrativa autobiografica che quando fu pubblicata in Italia fu osteggiata perché ritenuta offensiva della pubblica pudicizia.
Si trattava dell’edizione della Nerbini, editore di Firenze, che nel 1921 aveva fatto corredare la traduzione dell’opera (il Casanova scriveva in francese) con alcune illustrazioni che potevano apparire spinte. Vi fu quindi un processo, ma sia il Tribunale, sia la Corte d’Appello di Firenze (con la sentenza sotto riportata) negarono il carattere di oscenità dell’opera del Casanova (e delle relative illustrazioni), ritenendola invece dotata di “valore letterario e storico ormai indiscusso” e nella quale proprio il valore storico aveva “sopraffatto l’elemento osceno“.
Anche in un’altra massima dal passato, in un caso molto simile, mi aveva stupito favorevolmente l’approccio di questi giudici dei primi del ‘900, che apprezzavano l’arte, l’ironia, e si fidavano della letteratua e delle storie ben narrate, e senza avere tra i piedi nè il Minculpop nè la DC, e che sapevano benissimo che “se da una parte la eccessiva libertà lasciata al diffondersi della stampa oscena è nociva alla pubblica moralità, d’altra parte un eccessivo rigore riesce non soltanto dannoso per la libertà della stampa, ma porta a confondere la missione del giudice con quella del moralista, e vien sovente ad allargare lo scandalo che si voleva impedire“.
Ben altra sorte ebbe infatti negli anni ’50 la riduzione cinematografica dell’opera diretta da Steno, uno dei padri (metaforicamente parlando) della commedia all’italiana e padre (anagraficamente parlando) dei fratelli Vanzina. Il suo film del 1954, a seguito delle proteste dell’Azione Cattolica di Treviso, non superò il vaglio della commissione di censura presieduta da Oscar Luigi Scalfaro, giovane rampante sottosegretario alla presidenza del consiglio del governo Scelba, già magistrato e futuro sappiamo cosa.

massima
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La Corte : — … Contro la sentenza di primo grado interpose appello nei modi e termini di legge il P. M. presso il Tribunale di Firenze adducendo a motivo che erroneamente quel Collegio non riscontrò nei disegni od illustrazioni, per lo meno in una gran parte di esse, delle Memorie di Giacomo Casanova, ristampate dall’editore Nerbini nel 1921 e distribuite al pubblico fino al febbraio 1922, il carattere di oscenità offensiva della pubblica pudicizia che, mediante la distribuzione o esposizione al pubblico o la offerta in vendita, integra il delitto previsto e punito dall’art. 339 cod. penale.
Che il carattere di oscenità risulta ognor più quando si tenga conto degli episodi ai quali quelle illustrazioni si riferiscono, come si rileva dalle frasi che sono scritte a commento delle illustrazioni stesse.
La Corte però osserva che nessuno può disconoscere la verità dell’affermazione che i primi giudici hanno posto a fondamento della sentenza di assoluzione, e cioè che le Memorie di Giacomo Casanova hanno un valore letterario e storico ormai indiscusso.
Pubblicate per la prima volta dal Brockhaus in una traduzione tedesca tra il 1822 ed il 1828, ebbero poi altre edizioni a Parigi, a Bruxelles ed anche in Italia a cura del Ferino tra il 1882 ed il 1888, e finalmente quella pubblicata dal Nerbini in Firenze, a dispense, e di che trattasi.
Tutta una vasta fioritura critica si è ormai andata diffondendo, in tutto il mondo, intorno alla opera Casanoviana; e fin dal 1827 uscivano nella Westminster-Reviex due articoli di Ugo Foscolo a proposito dei primi volumi delle memorie pubblicate appunto in quel torno di tempo, come si è accennato sopra, dal Brockhaus di Lipsia.

Le avventure di Giacomo Casanova – locandina –
Ma basterà qui ricordare quel che ne scrive D’Ancona, e che, cioè, se “delle Corti e dei Gabinetti dei Principi e dei Ministri, dei letterati e dei patrizi, degli uomini e delle donne del suo tempo il Casanova svela specialmente l’aspetto vizioso e ridicolo, le vanità e le turpitudini, tutto ciò è utile a sapersi da chi nelle vicissitudini del costume voglia rintracciare le ragioni dei fatti storici, e nelle forme della vita privata, il carattere più generale della vita pubblica ed esteriore”.
Le memorie del Casanova sono un quadro vivissimo dell’età sua, di gran parte della società europea del ‘700, e prima che scoppi il più grande avvenimento della storia contemporanea quella rivoluzione francese che fu manifestazione locale di una grande malattia generale a tutta Europa e a tutta la vecchia società, non è superfluo, insegna il D’Ancona, colla scorta di questo avventuriero di spirito, conoscere il marcio profondo delle istituzioni dei costumi.
Di fronte ad affermazioni di tale autorevolezza e competenza, alla Corte non resta che il rilevare come l’elemento osceno dell’opera rimanga sopraffatto, e per così dire purificato, dall’elemento del suo valore letterario e storico affermatosi ormai da un secolo, attraverso la critica e la diffusione in tutte le lingue e biblioteche.
E poiché l’opera va apprezzata nel suo complesso, perché i singoli episodi assumono una significazione autonoma e diversa se staccati dal tutto purificatore, le memorie del Casanova pubblicate dal Nerbini nel loro testo completo, pur deplorandosi la licenza di certe narrazioni erotiche contenutevi, non possono costituire e non costituiscono il reato di oltraggio al pudore.

frontespizio di una delle edizioni dell’opera
Senonchè l’appello interposto dal P. M. si appunta principalmente contro i disegni che illustrano il testo; ma al riguarda la Corte anzitutto rileva che delle innumerevoli illustrazioni che riempiono i quattro grossi volumi delle memorie lo stesso appellante non ha potuto indicarne che una diecina appena, aventi carattere di oscenità offensiva del pubblico pudore, e principalmente quelle di cui ai fascicoli 13, 53, 54, 55, 57, 58, 60, 65, 73 e 93.
Si tratta in sostanza di nudi femminili riferentisi a scene piccanti e moralmente riprovevoli ma necessarie per porgere, anche nella parte licenziosa, un quadro completo dell’opera del Casanova. D’altronde è risaputo che la semplice riproduzione del nudo non è di per sé stessa oscena, e che secondo la legge nostra, che ha seguito in ciò le legislazioni precedenti, non basta la semplice idoneità dei disegni ad offendere il pudore, ma occorre che essi sieno osceni. Cosi tale aggettivo soppresso nell’art. 338 compare invece nel successivo art. 539 ed acquista anzi uno speciale significato per la mancanza dell’aggettivo impudichi, che nel progetto stava, per l’oltraggio al pudore, a lato dell’aggettivo osceni. Infatti, come si osservò già in seno alla commissione di revisione dai commissari Nocito e Lucchini, il concetto dell’oscenità è più stretto di quello della semplice impudicizia.
L’oscenità sebbene sia, come l’impudicizia, un concetto relativo, soggetto a modificazioni secondo le epoche, le civiltà ed anche in una stessa civiltà secondo i momenti, i luoghi e gli ambienti, richiede però sempre qual che cosa di attivo, come diceva il commissario Costa, la rappresentazione, cioè, viva, sfrontata, fatta in modo da solleticare i sensi, di un fatto o fenomeno che abbia per oggetto lo sfogo del sentimento sessuale.
Soltanto quando i fenomeni della vita sessuale, che devono svolgersi nel mistero, vengono invece rivelati pubblicamente, può dirsi che la rivelazione è oscena.
Nel caso concreto (e solamente in una diecina di disegni, giova ripeterlo, fra tanti che illustrano l’opera) la mostra del nudo è veramente impudica, poiché rivela cosa che ha certo rapporto colla vita sessuale, ma non è per sè stessa oscena perché il nudo non si presenta con tali pose od atteggiamenti che valgano a rivelare fenomeni direttamente attinenti allo sfogo degli appetiti carnali.
Nè si deve dimenticare che se da una parte la eccessiva libertà lasciata al diffondersi della stampa oscena è nociva alla pubblica moralità, d’altra parte un eccessivo rigore riesce non soltanto dannoso per la libertà della stampa, ma porta a confondere la missione del giudice con quella del moralista, e vien sovente ad allargare lo scandalo che si voleva impedire.
Per questi motivi, rigetta l’appello.
Il Foro Italiano, 49, 1924, 91.