Questa è una specie di piccola favola di Natale per avvocati. Una favola che ci culla in un treno a vapore che viaggia all’indietro fino al 1885, quando quello dell’avvocato era un mestiere apprezzato da tutti o quasi, senz’altro dai giudici, non sempre dai clienti.
Nel 1885 non esistevano premi per i migliori avvocati dell’anno, e non esistevano nemmeno le tariffe forensi stabilite per decreto, le trattative erano rimesse alle parti e al buon cuore dei clienti. Esisteva però già al tempo la tattica del “per adesso grazie avvoca’” tipica di certi clienti ancora sopravvissuti al vortice del tempo, sicché farsi pagare poteva essere un dramma. Per fortuna gli avvocati, però, godevano della stima di certi giudici illuminati, come quello della nostra favola, il dott. Borrè del Tribunale di Roma.
C’era una volta un avvocato, Giovanni De Romanis, valente oratore, dotto e sperimentato giureconsulto, vero modello di difensore, di onestà somma nell’esercizio dell’avvocheria. All’epoca era più che ottantenne, e si ergeva tra i più illustri veterani della curia romana.
Il De Romanis aveva per clienti i conuigi Federici, nobiluomini dai nomi altisonanti, lui Romolo, lei Amata Palmira Ronal de Rouville. Per costoro, lL’avvocato De Romanis aveva prestato per ben due anni la sua assistenza ai coniugi per l’acquisto di una tenuta, la tenuta Ripa e Ginestrella del Conte Reginaldo Ansidei, altro nobiluomo, beato lui.
Quando conclusero l’affare “con istrumento registrato a Perugia il 4 dicembre 1884”, i clienti del nostro De Romanis, si erano impegnati a coprire tutte le spese legali della transazione, anche per quella parte che fosse spettata al venditore.
Quando l’avvocato, trascorso un po’ di tempo dall’affare, ricordò ai suoi clienti – bontà loro – del proprio compenso “gli fu risposto nel modo il più sconveniente ed ingiurioso, e – continua la sentenza – come scherno gli venne offerta la somma di lire cento, stentatamente elevata a centoventi in vista delle spese postali, e con la espressa dichiarazione di non volere (il Federici) rimanere l’obbligato di nessuno“.
Deluso dal comportamento dei gentili clienti, il De Romanis fu suo malgrado costretto ad adire le vie giudiziarie onde ottenere la soddisfazione di un adeguato compenso.
Nel corso del giudizio, il Federici si sfogò: non negava che l’affare era versissimo che aveva condotto l’affare, che aveva concordato col conte venditore di accollarsi tutte le spese legali, e che quell’acquisto era stato anche un discreto casino. Aveva necessitato la consultazione di “registri ed instrumenti antichi“, comportare trattative con persone tutte a Perugia – mentre lui era beato a Roma – e che non potendo accudire a tutto ciò di persona si era rivolto all’avvocato De Romanis, che tempo addietro aveva conosciuto a Parigi e di cui era amico.
Ed era proprio in veste di amico che si era rivolto all’avvocato! Era un favore, una cortesia, d’altra parte – continuava il Federici – nemmeno esercitava la professione da molto tempo. Gli aveva insomma fatto anche un favore, facendogli di nuovo respirare un po’ d’aria di lavoro. Peraltro, il De Romanis era anche un po’ anzianotto, e si era dovuto fare aiutare da un domiciliatario prima in persona del Conte Zeffirino Faina, e poi del signor conte avvocato Montesprelli, che terminò l’incarico con il suo sangue bluissimo.
Insomma, l’avvocato aveva fatto appena da mandatario, e qui giù a citare Cicerone, con attività essenzialmente gratuita, e qui giù a citare il digesto “mandatum originem ex officio atque amicitia trahit“.
Quando è il giudice a prendere parola, è tutta un’altra musica. Anche lui – come noi oggi – la prese un po’ alla lontana. Leggete qui: “Si è molto discettato nella giurisprudenza se l’esercizio della professione del giureconsulto costituisca un mandato, o non piuttosto un contratto d’opera; e questo non sarebbe avvenuto se le due scuole si fossero date cura di studiare le origini, i lineamenti e le mansioni dell’istituto: – antichissimo in questa, che è la terra classica del giure, per il quale vinse e sovrastò nel mondo, con una gloria più pura di quella stessa delle sue armi“.
E ancora: “Nei bei tempi del diritto, quando la casa del giureconsulto risultò sempre rigurgitativa di persone dalla mattina alla più tarda sera, senza dargli mai posa, né tregue, nemmanco nel suo letto di dolore la considerazione di venir circondato era eminente quanto quella dei più alti dignitari. Chi allora andava a consultarlo gli si presentava colle mani vuote; ma lo ripagava d’una moneta ben più prestigiosa di quella che non fosse il denaro; e questa era la pubblica riconoscenza“.
Questo nell’iper passato remoto, poi piano piano si passò grazie a Dio dalla riconoscenza al salario, stipendium, mercede, compenso, onorario. Chiamatelo come volete. E questo perché:
L’esercizio dell’avvocatura è un ufficio di valore inestimabile
Trib. Roma, 12 ottobre 1885
Quella del giureconsulto, prosegue il nostro adorato giudice, non costituisce quindi opera servile, non è un mandato che può stabilirsi a titolo gratuito, ma una prestazione d’opera intellettuale che va sempre adeguatamente remunerata.
Per sapere come era poi andata a finire, vi lascio leggere la sentenza che trovate qui sotto (basta premere sul bottone “subito dopo la massima.
Nel frattempo, una considerazione. Questa frase proveniente da un tempo così lontano mi ha molto colpito. Mi chiedo: è ancora così? L’avvocatura è ancora un esercizio di valore inestimabile? Non lo so, ho paura che non sia sempre così. Ma per un pochino d’orgoglio, e in onore a questa sentenza, abbiamo pensato quest’anno di dedicare la copertina e la prima illustrazione del calendario Massime dal Passato 2022 proprio agli avvocati, ritratti qui per l’occasione in buon numero sulla simbolica scalinata del Tribunale di Milano.
E comunque nemmeno Massime dal Passato è opera servile!
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