Una delle mie più grandi passioni sono, tuttora, le figurine dei calciatori. Mi piacciono più di tutte quelle degli scudetti delle squadre, con lo sfondo argentato e un po’ luccicante. Ogni squadra ha uno stemma, un simbolo, a volte un animale, e il più bello è quello con il lupo. Forse così è nata la mia passione per i marchi.
Ma se c’è una cosa ancora più bella delle figurine dei calciatori e degli scudetti, è l’albo d’oro. L’albo d’oro è fantastico: una lista verticale stretta stretta di annate e nomi di squadre che racconta chi è stata quella più forte per ciascun anno. Non era stato per niente difficile imparare a memoria le vincitrici dei campionati dal 1898 al 1994 (beh poi quelli seguiti dopo sono ancora più facili).
Mi erano molto comodi i filotti, più agili da ricordare. Cinque della Juve consecutivi tra il 1930 e il 1935. E cinque ne aveva messi in fila anche il Torino tra il 1942 e il 1949, che non fosse stato per la guerra (anzi per l’armistizio, o meglio per i tedeschi) sarebbero stati molti di più.

albo d’oro 42-49
In corrispondenza dell’ultimo dei cinque, quello del ’49, c’è però spesso un asterisco con una didascalia assai curiosa: “titolo assegnato a tavolino”. Sull’Almanacco avevo scoperto che erano state Inter e Milan a chiedere l’assegnazione di quel campionato al Torino. Sorprendente: normalmente accade il contrario, ed era già successo (anche ai danni al Torino, nel ’27 quando le era stato revocato il primo titolo per una combine nel derby con la Juve) che gli avversari chiedessero la revoca di un titolo, non l’assegnazione a una squadra avversaria.
Fu così che scoprii la storia del Grande Torino.

Il Grande Torino
5 scudetti in 5 stagioni (quello assegnato a tavolino, l’avrebbe vinto comunque)
121 vittorie su 172 incontri (ed erano incontri veri, mazzate di morte)
440 gol (nel ’47-’48 addirittura più di 3 gol a partite di media: 125 in un solo campionato)
88 partite in casa senza sconfitte
record di vittoria con handicap (10-0 all’Alessandria)
10 giocatori titolari in nazionale in una unica partita (Italia-Ungheria 3-2, 11 maggio 1947, l’unico “straniero” era Sentimenti IV, portiere della Juventus)
Questa immensa e travolgente storia sportiva, che si alimentava giornata dopo giornata nel secondo dopo guerra, negli anni della faticosa e speranzosa ricostruzione, si interruppe fatalmente il 4 maggio 1949.
Tutti conoscono la storia della tragedia di Superga, l’ora dello schianto (le 17:03), le parole grevi in televisione (scusate: il cinegiornale), i titoli sui giornali, i drappi neri, i cinquecentomila accorsi ai funerali dei Campioni. In un paese con tre generazioni segnate da lutti e dolore, quella apparve come una tremenda, infame e ingiustificabile punizione del destino. Perché la guerra la puoi spiegare, ché l’avevano fatta tutti in famiglia. Ma una sciagura del genere dovette certamente risultare inaccettabile.
Un crepuscolo durato tutto il giorno, una malinconia da morire. Il cielo si sfaldava in nebbia e la nebbia cancellava Superga
E come di solito succede nel nostro misero mondo terreno, alle tragedie umane fanno seguito i ricorsi e le carte bollate. Oltre alle famiglie degli scomparsi, che persero figli, mariti, fratelli, a pagare caro fu l’Associazione Calcio Torino che vide improvvisamente sterminato il suo parco giocatori (ma ci pensate che da allora il Torino avrebbe vinto appena un solo altro scudetto, nel 1976?).
La società fece dunque causa alla compagnia aerea chiedendo un risarcimento dei danni subiti per l’errore del pilota.
Il Tribunale di Torino, la Corte d’Appello e la Cassazione si ritrovarono a che fare con una questione di una portata mai vista prima, mai prima nemmeno immaginata. E se negli anni ’50 si ammetteva con fatica un risarcimento ai parenti delle vittime, figurarsi al “datore di lavoro”, nonostante si riconoscesse la sussistenza di un innegabile danno. Di seguito trovate la – lunga ma davvero interessante – sentenza di primo grado, che sarà confermata poi anche nei gradi successivi.
Una postilla: neppure 20 anni dopo la tragedia di Superga, il Torino calcio fu costretto a misurarsi con una nuova inconsolabile tragedia, la scomparsa di Luigi Meroni, la farfalla granata, che perse la vita in un incidente stradale nel quale fu coinvolto Attilio Romero, all’epoca minorenne, e che sarebbe anni dopo diventato presidente del club (la storia e il destino umano hanno percorsi straordinari e incomprensibili).
Anche allora, dopo un lungo procedimento, al Torino non fu riconosciuto alcun risarcimento. La società aveva provato a sostenere che “il Meroni, per la eccellenza delle sue prestazioni, costituiva l’attrazione della squadra e richiamava spettatori sui campi di gioco, incidendo, quindi sugli incassi; che era praticamente impossibile trovare un giocatore di classe equivalente a quella del Meroni, il quale, appunto per il suo altissimo livello tecnico ed atletico, era stato ripetutamente chiamato a fare parte della rappresentativa italiana di calcio“. Ma la Corte d’Appello di Genova (giudice di rinvio dalla Cassazione) sostenne che il Torino “sostituì immediatamente Meroni con la riserva Facchin, ottenendo risultati agonistici lusinghieri e incassi addirittura superiori a quelli delle stagioni precedenti”, deducendo anche da ciò che in fin dei conti il Torino non aveva subito alcun danno dalla perdita di Meroni.
Io ora lo capisco perché si dice Cuore Granata.

Gigi Meroni
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Per un’altra massima dal passato sul calcio, leggi quella della Cassazione di Torino del 1880
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Il Tribunale — La grave questione da risolvere è se il Torino abbia il diritto di farsi risarcire l’innegabile danno dalla convenuta, per l’uccisione dei diciotto giocatori e dei dirigenti e dei tecnici: in somma per la distruzione, come suggestivamente dice la difesa dell’attrice, di tutto o quasi tutto il suo patrimonio.
Ritiene il Collegio che la questione debba essere risolta in senso negativo.
Sembra innanzitutto che sia da respingere quella che la stessa attrice definisce una tesi estrema, secondo cui ogni pregiudizio economico risentito dal terzo, ogni perturbamento di una data situazione patrimoniale, ogni svanire d’una legittima aspettativa, insomma ogni lesione di un interesse che possa ricollegarsi con nesso causale ad un fatto doloso o colposo, fa sorgere il diritto al risarcimento del danno subito […].
Basti qui ricordare che alla secolare configurazione della colpa aquiliana è stata sempre connaturata la violazione di un diritto: il concetto cioè del damnum injuria datum. E la ragione giustificatrice di questo tradizionale requisito è che, ove se ne prescindesse, sarebbe aperto il varco alle più impensate e insostenibili conseguenze, e l’estensione del risarcimento sarebbe addirittura sconfinata.
Chiunque potesse accampare il pregiudizio sofferto per un fatto colposo altrui, anche remoto, sarebbe legittimato a pretendere il risarcimento sol che potesse dimostrare che, senza quel fatto, il suo pregiudizio non si sarebbe verificato. Così, per restare al caso di lite, sarebbe ipotizzabile una domanda di risarcimento, nei confronti della Società di navigazione aerea (ai cui piloti sarebbe imputabile la morte dei giuocatori), da parte di chi eserciva un posteggio di automobili nelle adiacenze del campo sportivo del Torino, o dai rivenditori di giornali sportivi, bevande e dolciumi sul campo e fuori del campo, i quali tutti hanno patito un danno per la minore affluenza del pubblico in conseguenza del luttuoso evento, che ha stroncato una delle più belle e affascinanti compagini sportive che siano mai esistite.
Così come pure, potrebbero porsi innanzi a chiedere i danni anche e quelle altre società, italiane e straniere, che per avventura avessero prima della tragedia di Superga, stipulato accordi col Torino per futuri incontri, e che indubbiamente non avrebbero più potuto realizzare quegli incassi che, senza quell’evento, si sarebbero verificati. E in questi come altri infiniti casi, proprio in rapporto ai molteplici interessi che, direttamente o indirettamente facevano capo ad una squadra della statura del Torino, si sarebbe dovuto ammettere la responsabilità della Società convenuta: il che appare ictu oculi assurdo
La norma fondamentale dell’art. 2403 cod. civ. («Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto») sembra implicare la necessaria violazione di un diritto subiettivo, cioè di un bene giuridicamente protetto contro quell’atto lesivo, ed avente la consistenza di un diritto.
La difesa dell’attrice, di ciò ben consapevole, non si appiglia difatti alla tesi estrema ora ricordata, se non in via di abbondanza, e fonda il proprio assunto nell’esistenza di un vero e proprio diritto che sarebbe stato violato, vale a dire il diritto ex contractu che il Torino aveva verso i propri giocatori. Essa dichiara di invocare la tesi classica, che pone come presupposto dell’azione riparatoria resistenza verso la persona uccisa di un di ritto dipendente dalla sua vita. E sostiene che l’uccisione dei giocatori e dei tecnici, per colpa dei piloti dell’A.l.i., costituisce una violazione di tale suo diritto.
Ma il problema da esaminare è se l’uccisione (in ipotesi colposa) dei giocatori del Torino costituisca una violazione del diritto, che il Torino aveva verso di loro, e legittimi pertanto il Torino a chiedere alla convenuta il risarcimento del danno subito. Il problema così proposto rientra in quello più vasto, e largamente dibattuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza non solo italiana, ma straniera, su chi abbia diritto di chiedere all’uccisore il risarcimento del danno causato dalla morte di una per sona. La tutt’altro che facile e piana determinazione del criterio distintivo, tra chi abbia diritto a indennizzo e chi no, è quella che ha da tempo affaticato teorici e pratici senza che ancor si sia giunti ad una soluzione concordemente accettata.
Chi è titolare del diritto immediatamente e direttamente violato dalla uccisione di una persona?
In linea puramente teorica, dal principio per cui il danno risarcibile presupporrebbe un vincolo d’immediatezza tra un interasse e la norma che lo protegge, è logico dedurre che la norma che vieta l’omicidio protegge direttamente soltanto l’interesse della persona che non deve essere uccisa. E difatti, non sono mancati, anche di recente, illusori autori, i quali hanno negato il diritto di risarcimento perfino alla vedova e ai figli dell’ucciso.

le figurine
Ma, in linea pratica, si è sentito la necessità di andare al di là di questa troppo rigida e restrittiva applicazione del suddetto principio e, per accennare al caso più frequente si è riconosciuto il diritto di risarcimento a favore dei congiunti dell’ucciso, tenuto per legge alla prestazione di alimenti verso di loro, e si è chiarito che essi agiscono iure proprio e non iure haereditatis. E questo ormai specifico riconoscimento del loro diritto si è ripetutamente avuto anche da parte di leggi speciali (come nel campo infortunistico). A ben guardare, non è difficile scorgere, in armonia ai principi, la ragione giustificatrice del risarcimento in questi casi: perchè i parenti dell’ucciso hanno un diritto proprio agli alimenti, nei confronti del loro congiunto, e questo diritto è condizionato alla vita di lui, sorge anzi per il solo fatto che costui è in vita. È la legge stessa che, da quel legame naturale (indipendentemente da qualsiasi determinazione volitiva del soggetto passivo), fa sorgere quel diritto; per cui l’uccisione dell’alimentante (coniuge, padre, figlio, ecc.) incide direttamente sul diritto degli alimentandi, inscindibilmente collegato alla vita di lui. In tali casi, l’uccisione di una persona costituisce dunque una diretta violazione del diritto che taluno deriva dall’esistenza stessa di una persona.
Ma gravi e dibattute questioni si sono agitate e si agitano nella giurisprudenza, e non soltanto in quella italiana, allorché si voglia passare, sotto l’impulso di sostanziali ragioni di equità, ad altre categorie di titolari dell’azione di risarcimento per la morte di una persona, oltre a quella riconosciuta dalla legge ai parenti aventi diritto agli alimenti.
Ed è venuto così in considerazione il caso dei fratelli e delle sorelle (sotto l’impero del codice civile del 1865), di coloro che per contratto si erano impegnati, vita loro naturale durante, a corrispondere un assegno alimentare (o sul presupposto di particolari vincoli di sangue o di affetto, o come corrispettivo di una dazione), della matrigna o del figliastro, della concubina, dei lontani parenti di un sacerdote, con lui conviventi e perfino della fidanzata
Sembra al Tribunale che, se ci si vuole appigliare ad un sicuro criterio discriminativo, si dovrebbe distinguere tra i casi in cui taluno ha per legge o per contratto un diritto alla somministrazione di determinate utilità economiche (anche realizzabili esecutivamente), diritto collegato all’esistenza di una certa persona, e derivante dal fatto stesso della sua permanenza in vita, e tutti gli altri svariatissimi casi che non rientrano nella prima categoria. E il diritto al risarcimento dovrebbe essere riconosciuto soltanto agli appartenenti alla prima categoria, perchè soltanto in questi casi l’uccisione di una persona si risolve in una immediata e diretta violazione del diritto, che altre persone traevano dalla sua esistenza, e la stessa persona, finché è in vita e per il fatto stesso che è in vita, non può porre nel nulla quel diritto. E difatti la giurisprudenza prevalente, così quella italiana come quella francese, ha escluso il diritto della matrigna, della concubina, della fidanzata e di tutti coloro che erano verso il defunto, per legami naturali o affettivi, in una posizione continuativa, non di diritto ma di semplice aspettativa, da cui scaturivano determinati vantaggi economici.
Ad ogni modo, in tutti questi casi, così dell’una come dell’altra categoria, è agevole individuare un elemento comune: la pretesa di risarcimento (diritto subiettivo e semplice aspettativa) si fonda pur sempre in modo diretto e immediato, sul fatto stesso dell’esistenza di quella persona, che o per legge o per consorzio affettivo si trova in una posizione stabile e continuativa, e costituisce, per il fatto solo di vivere, un appoggio non solo morale ma anche economico. La permanenza in vita di quella persona è un presupposto essenziale del diritto (o della aspettativa) delle altre persone, condiziona e caratterizza quel diritto, soggetto pertanto solo all’alea della permanenza in vita di quella prima persona.
Ben diverso è il caso del Torino, che non può essere ricondotto nè all’una nè all’altra delle due categorie. Il contratto che legava la Società calcistica ai calciatori (e, naturalmente, anche all’allenatore e al direttore tecnico) era un contratto di prestazione d’opera. Esso può essere assimilato al contratto fra l’impresario teatrale, o in genere di pubblici spettacoli, e gli artisti «scritturati» e rientra nella più vasta categoria dei rapporti contrattuali che implicano, da parte del prestatore d’opera (collaboratore, dipendente, socio, ecc.), l’esercizio continuativo e volontario di una determinata attività personale.

la tragedia di Superga
Il rispetto dell’impegno dei calciatori di prestare l’opera loro a favore esclusivo dell’associazione calcistica non discendeva automaticamente dal contratto, cosicché la sua violazione non potesse derivare che da un fatto lesivo di un terzo, ma era pur sempre condizionato al permanere della volontà dei calciatori di mantenere in vita il rapporto, anche se l’inadempienza potesse dar luogo a conseguenze a carico degli inadempienti.
Sarebbe semplicistico ed antigiuridico fare capo al post hoc, ergo propter hoc, per affermare che, essendo rimasti vittime dell’evento lesivo tutti i giocatori, ed essendo la privazione della loro prestazione a favore del Torino una conseguenza immediata dell’evento, il danno derivante sia da porsi senz’altro in rapporto di causalità immediata e diretta col responsabile dell’evento.
Non si può escludere che uno o più calciatori, ove l’evento non si fosse verificato, avrebbero potuto sottrarsi ai loro obblighi verso la Società, essendo essi pur sempre uomini liberi delle proprie azioni, verso i quali non sarebbe mai stata proponibile un’actio ad faciendum, volta cioè ad ottenere quelle particolari prestazioni di gioco la cui mancanza vorrebbe ora l’attrice addossare alla convenuta.
La permanenza in vita dei giocatori, così come la loro integrità personale, non era stata dedotta in contratto, ma era soltanto un presupposto fisico dell’esercizio di quella particolare attività sportiva, su cui la Società faceva assegnamento, e che costituiva l’unica res volontariamente messa a disposizione dell’Associazione
Sussisteva, insomma, una soluzione giuridica di continuo fra la permanenza in vita dei giocatori e le loro prestazioni di gioco, in quanto, per la loro realizzazione, sarebbe pur sempre occorsa una attività volontaria dei giocatori, senza quel precostituito e per così dire automatico vincolo ex lege oppure ex contractu, che lega l’alimentante all’alimentato e gli impedisce, fin che viva, di sottrarsi ai propri obblighi.
Si è parlato di un diritto alla vita altrui. Ma l’espressione sembra al Tribunale metaforica, e, come tutte le metafore, giuridicamente equivoca e inesatta. In realtà, è appena il caso di dire che non esiste un diritto alla conservazione della vita altrui, diritto che, in quanto tale, possa essere direttamente leso dall’uccisione di una persona. Il diritto all’esistenza è tipicamente personale, e non può essere esteso ad altre persone, a pena di dover prospettare un illecito civile del suicida, determinante il dovere del risarcimento da parte degli eredi, anche in contrasto con la stessa volontà del titolare.
Esiste invece una categoria di diritti dipendenti dalla vita altrui e in questa categoria l’attrice pretende di annoverare il proprio diritto. Ma già si è spiegato che in questa categoria possono essere compresi solo quei diritti che, o per legge o per contratto, sono inscindibilmente e direttamente collegati alla vita stessa di una persona, alla sua esistenza fisica: così come il diritto agli alimenti verso un proprio congiunto o come (per fare un esempio tratto dalla giurisprudenza) il diritto ad una pensione alimentare che, per convenzione, abbia la matrigna verso il figliastro. In tutti questi casi, e negli altri ad essi equi parati od equiparabili, il diritto è veramente e soltanto soggetto alla condizione della permanenza in vita del l’obbligato, ed è caratterizzato dalla preesistenza di un vincolo naturale (familiare o quasi familiare) non modificabile dalla volontà dell’obbligato. E dato questo diretto connaturale collegamento con la vita stessa di una persona, ben si comprende che l’uccisione di questa persona costituisca una diretta lesione di quel diritto.
Ma in questa categoria non possono rientrare i diritti che il Torino aveva verso i propri giocatori, come non possono rientrarvi i diritti degli impresari di spettacoli, dei datori di lavoro verso i loro dipendenti, dei creditori in senso lato di una specifica prestazione personale di carattere continuativo, di una società verso i suoi soci, amministratori e così via. La vita dei giocatori non era un elemento o un presupposto giuridico del rapporto contrattuale fra l’Associazione e i calciatori; era soltanto un presupposto fisico, non dedotto e non deducibile in contratto. Il Torino non aveva alcun diritto alla vita o alla integrità fisica dei giocatori, anche se per la particolare natura del rapporto aveva un diritto di assiduo controllo sul loro modo di vivere e sulla loro salute. Il diritto del Torino, lo si ripete, dipendeva dalla volontà non dalla vita dei giocatori.
Il danno del Torino era dunque una conseguenza mediata e indiretta dalla tragedia di Superga, e per l’art. 1223 non costituiva un danno risarcibile. La ragione essenziale del decidere, in base alla considerazione soprasvolta, è pertanto questa: che il danno del Torino non è risarcibile perchè indiretto.
L’attrice invoca a suo favore una sentenza 17 luglio 1940 della Suprema Corte [da cui si ricava] un principio che è l’opposto di quel che l’attrice sostiene: il principio cioè che (sia pure in via generale, come regola che soffre eccezioni, dice la sentenza del Supremo collegio) il danno causato all’imprenditore dalla morte del socio o dal dipendente, è un «danno indiretto, giuridicamente non risarcibile». Senonchè la Cassazione dopo aver affermato quell’esattissimo principio, dichiara (se pure la massima sia stata esattamente desunta dalla motivazione della sentenza) che, eccezionalmente, il danno si trasforma da indiretto in diretto, allorché si tratti di un collaboratore o dipendente non facilmente sostituibile: tanto più diretto il danno, quindi, quanto meno sostituibile la persona. L’insostituibilità delle prestazioni fornite dal socio o dipendente diventerebbe così addirittura una condizione di risarcibilità del danno.

La prima pagina de La Stampa del 5 maggio 1949
Questa tesi non persuade affatto il Tribunale.
Anzitutto, non si comprende come mai, in base a quale ragione giuridica, un fatto doloso o colposo (uccisione di una persona) possa violare direttamente o indirettamente il diritto di un terzo legato contrattualmente con la persona uccisa, e far sorgere o meno la sua responsabilità, a seconda che quella persona sia o meno, per il terzo, sostituibile.
Nell’un caso come nell’altro, il fatto generatore di responsabilità, la violazione della sfera giuridica altrui, c’è 0 non c’è, il danno è sempre diretto o sempre indiretto, il meccanismo della lesione giuridica è identico. La sola questione che possa farsi, a proposito della sostituibilità dell’ucciso, è se esista o meno un danno del terzo, non già se il danno sia diretto o indiretto; è palese l’approssimatività giuridica di un siffatto criterio discriminatore. Anche a non voler considerare l’estrema relatività e quindi l’arbitrarietà del criterio dell’insostituibilità dell’ucciso o della infungibilità delle sue prestazioni, appare logico tribuire, se mai, all’importanza personale del defunto una efficienza nella valutazione quantitativa del danno, ma non mai a creare o a negare il diritto all’azione. In altri termini, l’insostituibilità potrebbe avere rilievo nella ricerca del quantum debeatur non dell’an debeatur. E la riprova di ciò si ha nell’ovvia considerazione che, anche nel caso di sostituibilità della più facile, corrente, banale sostituibilità dell’ucciso, sarebbe pur sempre concepibile, per quanto esiguo, un pregiudizio del terzo, per quella sia pur brevissima soluzione di continuo fra l’uccisione e la sostituzione, che inevitabilmente si produrrebbe. Così come la possibilità immediata di acquisto di un’altra identica automobile, in sostituzione di quella rovinata dall’investimento, non pregiudicherebbe la pur modestissima domanda per i danni determinati dalla privazione, per un periodo di tempo anche brevissimo, dell’uso della macchina.
Non può dunque avere rilievo decisivo, sulla questione dell’an debeatur, l’importanza anche estrema, che, nella fattispecie, rivestiva l’intuitus personae: ma solo sul quantum debeatur. La menzionata pronuncia della Cassazione vale soltanto, in questa causa, per la riaffermazione che in essa è fatta, sia pure in via soltanto generale, di quello stesso principio posto a base della presente sentenza.
[…]
Resta dunque ribadito che il danno del Torino non è risarcibile. Nè potrebbe infine farsi valere, per indurre il giudicante in diverso avviso, l’eccezionale particolarità del caso, vale a dire la specifica natura del rapporto che legava l’Associazione calcistica ai suoi giocatori.
La difesa dell’attrice ha detto che questi giocatori costituivano tutto, o quasi tutto, il «patrimonio » dell’Associazione; ha fatto cenno di quel particolare «mercato calcistico» a tutti noto, ove si quotano, si «acquistano» e si cedono al migliore offerente i calciatori; ha infine parlato, all’udienza di spedizione, di un «rapporto di appartenenza» che caratterizzerebbe lo specifico legame fra associazione e giocatori, e che sarebbe distinto dall’altro, parallelo e comune, rapporto di prestazione d’opera
Ma non sembra al Collegio che queste sottili argomentazioni e distinzioni possano approdare ad una concludente diversificazione di concetti giuridici.
Se è vero che il cospicuo, altissimo valore patrimoniale (oltre che sportivo) delle prestazioni di un Maroso o di un Mazzola, e di tutti i loro indimenticabili compagni, costituiva la preziosa e quasi esclusiva ricchezza dell’Associazione; se è notorio che, per assicurarsi la disponibilità esclusiva dell’opera di questi giocatori, le associazioni calcistiche, che dispongono di maggiori risorse finanziarie, avviano e concludono ogni anno, con le altre società e con i giocatori, trattative laboriosissime a suon di milioni e di molte diecine di milioni; se il giocatore, una volta assunto, si impegna a fornire alla «squadra» di cui fa parte ogni sua energia fisica e nervosa e si assoggetta (o dovrebbe assoggettarsi) alla più rigorosa disciplina di vita, addirittura limitatrice dei più elementari atti della vita quotidiana, non per questo il giocatore diventa una res dell’associazione, nè giuridicamente la sua posizione si diversifica da quella di ogni altro prestatore d’opera
Le particolari imposizioni e restrizioni che caratterizzano questi rapporti dipendono esclusivamente dalle particolari esigenze e caratteristiche delle prestazioni fornite. Le forti somme sborsate per assicurarsi, in antagonismo con le società rivali, l’esclusivo diritto di pretendere dai calciatori la loro attività di gioco, dipendono dell’appetibilità di questi eccezionali prestatori d’opera. Ma altro essi non sono di fronte all’associazione, che prestatori d’opera, che «professionisti»; cioè uomini liberi che per una certa mercede e per un certo tempo si impegnano a svolgere una determinata attività. La loro uccisione, per colpa di un terzo, non costituisce pertanto, come sopra si è detto, una diretta violazione della sfera giuridica dell’assuntore di questa loro attività. Nessun bene dell’attrice è stato leso direttamente dalla convenuta. Soltanto i calciatori, non i piloti dell’A.l.i., potevano violare i diritti patrimoniali del Torino; poiché nessun vincolo, all’in fuori di quello di prestazione d’opera, li legava, e il preteso collaterale rapporto di “appartenenza” non ha la consistenza di un diritto reale, valevole erga omnes, e in quello si confonde e si esaurisce.
Nè pare un fuor d’opera considerare, a suggello delle considerazioni giuridiche sopra svolte, che l’accoglimento della tesi propugnata dall’attrice esporrebbe non solo le compagnie di navigazione aerea, ma qualsiasi privato, alle più sconvolgenti e insopportabili conseguenze, al di là d’ogni limite logico. La nozione del risarcimento dei danni di rimbalzo, par ricochet, esteso cioè alle più remote e indirette ripercussioni, è estranea al nostro ordinamento giuridico, tuttora saldamente ancorato al tradizionale concetto della colpa aquiliana. È bensì vero che un unico atto, doloso o colposo, può determinare contemporanea mente la violazione di diversi ed eterogenei beni giuridici: e, in omaggio al principio del neminem laedere, tutti questi beni meritano di essere egualmente protetti contro l’atto illecito: ma occorre pur sempre, perchè questi danni pos sano essere risarciti, che essi siano la conseguenza immediata e diretta dell’illecito.

La Collina di Superga
La difesa dell’attrice ha infine accennato, all’udienza, alla caratteristica della colpa aquiliana, che è quella di esporre il colpevole alle più impensabili e gravi conseguenze. Lo stesso, identico atto può, in un caso, non dar luogo a una sola lira di danno, e in un altro caso, cagionare un danno smisurato. Con la stessa colposa manovra un maldestro guidatore d’automobile può investire un miserabile straccione solo al mondo, oppure il ricchissimo e preziosissimo dirigente d’una grande azienda: se identica è la responsabilità del colpevole, enorme può essere la diversità del danno. L’osservazione è giusta, ma attiene soltanto a quello che è una caratteristica della colpa aquiliana, che, a differenza di quella contrattuale, espone anche al risarcimento dei danni imprevedibili. Ma non si deve confondere l’imprevedibilità del danno con la possibilità di sconfinate ripercussioni indirette del danno stesso. Il criterio distintivo è pur sempre quello che ha ispirato tutta la motivazione della presente sentenza.
Per questi motivi, ecc.
(Il Foro Italiano, 73, 1950, 1229)