Nato ad Udine, avvocato penalista (iscritto all’Albo fino alla morte), Vincenzo Manzini è stato professore universitario di Diritto e Procedura penale nelle Università di Ferrara, Sassari, Siena, Napoli, Torino, Pavia, Padova (1920-1938), Roma (1938-1939), e ancora Padova (1939-1943), quando gli fu conferito il titolo di professore emerito.
Si iscrisse il 3 gennaio 1925 al Partito nazionale fascista (PNF). Ma fu anche massone, iniziato il 19 febbraio 1904 nella Loggia Giovanni Maria Angioy di Sassari.
Manzini fu membro del Consiglio superiore forense, nel 1929, e della commissione centrale per gli avvocati e i procuratori, nel 1934 e nel 1939; fu, inoltre, socio corrispondente del R. Istituto lombardo di scienze e lettere e socio residente del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti; membro dell’Accademia dei Fisiocritici di Siena e, dal 15 luglio 1935, accademico dei Lincei.
Sposato con Maria Nadigh, da lei ebbe due figli, Lucio e Teresa.
Morì a Venezia il 16 aprile 1957.
Figura di primo piano della scienza criminalista italiana con la sua ampia produzione scientifica fu il “sommo sacerdote” dell’indirizzo dottrinale tecnico-giuridico, proposto quale superamento della dicotomia fra scuola “Classica” e scuola “Positiva“.
L’indirizzo tecnico-giuridico di Manzini si caratterizza per l’esclusione dall’orizzonte degli interessi del giurista di qualsivoglia elemento di valutazione estraneo al sistema positivo dei precetti e delle sanzioni. Manzini accusa le scuole positiva e classica rispettivamente di esasperazione del materialismo la prima e di eccesso di spiritualismo la seconda; con l’effetto sostanziale, in entrambi i casi, di determinare una fatale distrazione del giurista dal tema teorico di suo primario interesse, vale a dire la giustizia dell’ordinamento delle norme positive. Tuttavia, nonostante il percorso di consolidamento dell’indirizzo tecnico-giuridico proceda attraverso una chiara attenzione teoretica per i limiti e le potenzialità del retroterra concettuale delle scelte dell’ordinamento positivo, Manzini si prodiga allo stesso tempo in un categorico e sprezzante rifiuto per ogni forma di riflessione filosofica attorno al diritto.
Tale percorso di ricusazione di ogni riflessione filosofica attorno allo studio del diritto, ha condotto, talvolta, ad approdi dottrinali mortificanti: come l’involuzione del pensiero di Manzini, per esempio, attorno al tema della pena di morte, fieramente avversata in gioventù e poi invece sostenuta con decisione, in nome della legge positiva e delle necessità pratiche. Oppure a quello della presunzione d’innocenza dell’imputato fino a condanna definitiva, anch’essa originariamente difesa, e successivamente attaccata e derisa.
Questa evoluzione della dogmatica penalistica è ovviamente influenzata dal contesto storico: Manzini è stato giurista “di regime” e “del regime” e come tale inevitabilmente sensibile alle esigenze di controllo sociale che la scienza giuridica doveva esprimere, rispetto a una struttura desiderata comunque tendenzialmente autoritaria dell’ordinamento giuridico.
Soprattutto dev’essere ricordato il contributo di Manzini all’opera di codificazione, sia sostanziale sia processuale. Nella redazione del codice penale del 1930, a cui Manzini partecipò al fianco di Rocco, il principio di legalità, caposaldo del diritto penale liberale, non è mai stato messo in discussione, e con esso il canone dell’imputabilità penale e dei suoi presupposti psichici; lo stesso vale per la fondazione retributiva della pena e per l’imprescindibilità del rapporto di proporzione sanzionatoria rispetto alla gravità del reato, nell’alveo del modello teorico del diritto penale del fatto.
Ugualmente, il codice di procedura penale del 1930, del quale Manzini fu l’unico artefice intellettuale, pur nella sua adesione al sistema inquisitorio, appariva certamente pregevole sotto il profilo tecnico. Curiosamente tra i suoi allievi si annovera Giandomenico Pisapia, successivamente presidente del comitato che tra il 1987 e il 1988 allestì il vigente Codice di procedura penale, che sostituì il Manziniano.