Seconda metà dell’800: l’Italia appena riunita fa i conti con la razionalizzazione del sistema giuridico. Tra codici civili, penali e di procedura penale, fioriscono anche i Codici Cavallereschi, antesignani dei “Testi Unici”. I due principali sono il Gelli e l’Agostini: costituiscono il vademecum del gentiluomo che tiene al proprio onore. Obbedendo alle norme ivi raccolte parrà la sua nobilitate con pistole e sciabole.
Prendiamo un mappamondo e facciamo scorrere l’indice fin sulla nostra Penisola. Ha una storia complessa questo lembo di terra messo lì a dividere il Mediterraneo, ma compendiarne la storia non è compito nostro. Limitiamoci a dire che, deposto Romolo Augustolo, quel che fu l’Impero Romano d’Occidente finisce per sfibrarsi. Preda di un sistema di forze centrifughe, si arriva a una frammentazione spaventosa dei poteri politici che – almeno solo in minima parte – riescono a essere imbrigliati dai due poteri universali per eccellenza: Impero e Papato.
Stiamo lavorando su materiale assai instabile, che va trattato con la stessa cautela con cui si maneggiano gli isotopi: è la storia d’Italia, bellezza, e dei suoi particolarismi politici e dunque giuridici.
Comuni come città stato, Ducati, Marchesati, Repubbliche: questo mosaico fatto di tessere impegnate a dimostrare la correttezza teorica del principio dell’entropia si trascina almeno fino alla seconda metà dell’800. Poi, un Conte dal faccione piacioso e rubicondo, patito del whist, che di nome fa Camillo, di cognome Benso, ma per gli amici è solo Cavour, decide di fare del “Giardino dell’Impero” un’unica nazione.
Non è chiaro quanto quest’idea abbia potuto suscitare i motteggi degli amici del nostro Camillo. Sta di fatto che – raccolto l’invito formulato da Michele Novaro nel canto degli Italiani (“di fonderci insieme già l’ora suonò”) – il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II viene incoronato Re d’Italia e Camillo Benso Conte di Cavour corse subito a scrivere un dispaccio ai suoi amici (“chi ride adesso, eh?”).
Fatta l’Italia, adesso occorreva fare gli Italiani. Fatti gli Italiani, abbisognava dunque avvincerli a uno stesso diritto.
Tra tutti i diritti, quel che a noi oggi interessa è senz’altro il più romantico: parliamo del diritto cavalleresco.
Tutte le questioni d’onore sorte tra gentiluomini al tavolo da gioco, nei café o al teatro venivano risolte applicando un corpus di norme contenute in quello che sembra essere il primo vero “testo unico” della storia legislativa nostrana, cioè: il Codice Cavalleresco.
Di codici cavallereschi, in Italia, ve ne furono essenzialmente due: uno scritto dal Colonnello Jacopo Gelli, l’altro dal Tenente Generale Achille Angelini. Non è un caso che la dottrina fosse di formazione militare. Se nell’immaginario collettivo dell’epoca l’Esercito era – per così dire – il biglietto da visita della Nazione, l’Ufficiale (cardine di ogni Forza marziale) costituiva il prototipo del Gentiluomo par excellence: del resto ancora oggi nelle accademie, sotto la voce “Attitudine Militare”, viene espressa la valutazione di tutto quel che è “allure”. Non potevano, dunque, che essere militari – depositari dell’eleganza, della classe e delle capacità marziali – a dire cos’è onorevole, cosa non lo è, e quand’è che va messa la mano all’elsa.
Tuttavia, per quanto possa sembrare strano, i due compilatori scrissero questi codici non per propagandare la pratica duellistica, ma anzi – al contrario – per far sì che a questa pratica potenzialmente mortale (erano tempi che ti beccavi una setticemia anche sbattendo il mignolino del piede contro il comò) si facesse ricorso solo quando non se ne poteva fare a meno. Scriveva infatti Gelli:
L’onore nel senso cavalleresco è un mito; è un falso apprezzamento della dignità umana. L’onore vero viene determinato dalla stima e dalla considerazione che una persona onesta ha saputo acquistarsi con le sue azioni, sempre conformi ai dettami delle leggi, naturali e di quelle civili. E perciò l’onore non si valuta dal numero dei duelli; tale opinione si fonda esclusivamente sulla confusione che gli imbecilli fanno di un pregiudizio con uno fra i più nobili sentimenti della umanità: il coraggio! Nel duello il coraggio è un prodotto artificiale, che permette ai paurosi di far credere che posseggono una virtù che non hanno.
Fa eco Angelini:
Il duello non è che un avanzo di barbarie … non riabilita il colpevole … non cancella un’offesa … non punisce sempre l’offensore.
E allora perché cimentarsi in quest’opera? Per due ragioni: innanzi tutto, perché era un lavoro sporco e qualcuno doveva pur farlo. In secondo luogo – e questo ce lo spiega Angelini – perché
cionondimeno convien riconoscere che il duello, considerato sotto un certo punto di vista, ha il suo lato buono … la tema di poter essere costretti a rendere ragioni colle armi in pugno trattiene talvolta gli spavaldi dalle provocazioni; la possibilità di dover quando che sia cimentare la vita, ritempra la fibra dei gagliardi; infine, quando per certe offese, che sfuggono o si vogliono sottratte alla legge comune, non vi fosse lo sfogo del duello, chi volesse punire l’offensore sarebbe indotto a perpetrare un assassinio.
Del resto, continua il Tenente Generale, “il codice penale non tutela convenientemente l’onore del gentiluomo”, giacché le pene per gli offensori non sono poi così severe, mentre “la pubblica opinione eccede nel senso opposto e pretende che un pacifico gentiluomo si esponga alla sorte di uno scontro per aver ragione di uno sgarbo immeritato fattogli da uno sventato qualsiasi”.
Da qui, la necessità di dare una… regolata alla materia. Regolata che – in maniera assai eccentrica – si connota per tre caratteristiche fondamentali: compilazione, dottrina cioè fonte e moral suasion.
In primo luogo, si chiama “Codice” (Cavalleresco) perché ha come fine quello di uniformare le norme che presidiano la questione d’onore: “Compiutasi felicemente la grande opera della Unificazione politica d’Italia, era naturale che si pensasse a produrre altresì l’unificazione legislativa” dice Angelini, specificando che “questa unificazione non poteva estendersi oltre certi limiti, che al Governo non era concesso di varcare senza porsi in contraddizione colle leggi da lui sancite”. Che vuol dire? Vuol dire che allora (come ora) il duello era fattispecie di reato e che avrebbe costituito paradosso se il Legislatore nazionale avesse legiferato su materia da lui stesso ritenuta illecita. Si stagliano così praterie dinanzi al giurista che si fa demiurgo della norma: in un certo qual modo, legibus solutus, a lui tocca vestire i panni di Triboniano e mettere ordine alle consuetudini locali, tracciando una linea di condotta
mercé la quale le questioni di onore vengano risolte in modo uniforme, insorgano essere sulle sponde del Po, ovvero sulle rive dell’Arno, del Tevere o del Sebeto … Per ottenere questo scopo bisognava compilare un Codice Cavalleresco nel quale, tenendo conto delle consuetudini invalse nelle diverse regioni italiane, e proscrivendo quelle che evidentemente erano ingiuste o erronee, si stabilissero le regole di condotta da osservarsi da gentiluomini nelle diverse fasi di una vertenza cavalleresca, mettendo in pari tempo un freno alla inumana e sconveniente frequenza dei duelli.
Questo, dunque, lo spirito che animò i compilatori: raccogliere, catalogare, coordinare le manifestazioni di un diritto prettamente consuetudinario valorizzandone i tratti comuni. Un po’ codice un po’ testo unico, quale che sia la sua natura una cosa è certa: se il breviario era il vademecum del prelato, il Codice Cavalleresco lo era del Gentiluomo. Di quello un po’ più suscettibile, almeno.
Dottrina cioè Fonte. È una steppa lasciata libera dal Legislatore, quella che attiene all’Onore. Il perché è stato detto: il Legislatore lo ha vietato, il duello, e certo non può poi pretendere di regolarlo. Questo onere, dunque, è affidato alla dottrina. Art. 1, comma III, del Codice Civile Svizzero: “Il Giudice si attiene alla dottrina e alla giurisprudenza più autorevoli”. Eugen Huber, suo redattore, con una regola suppletiva fa transustanziare la dottrina (che da noi agisce sul piano interpretativo) in fonte vera e propria. Nel caso del codice cavalleresco, invece, la dottrina è la fonte. Sia Angelini che Gelli sono – con l’approssimazione della metafora – veri e propri poteri costituenti. In subiecta materia essi non cercano una legittimazione precedente, bensì si limitano a vaghi rinvii a consuetudini delle quali essi sono “sistematori”. E in questo frangente essi – manco fossero il Parlamento stesso – decidono addirittura di abrogare quel che a loro non aggrada. Nel modo romano era l’Imperatore ad attribuire l’attitudine a innovare l’ordinamento ai giureconsulti; questi qui – invece – il diritto se lo creano da soli senza chiedere il permesso a nessuno. Questo aspetto anticipa il tema che segue.
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Come poteva, dunque, un Diritto così “privato” (nel senso: creato, di fatto, da privati cittadini) essere cogente? Semplice: moral suasion. Ai due codici veniva riconosciuta un’autorevolezza – derivante dalla statura morale dei loro autori – che comportava ipso facto la loro “vigenza” in un ordinamento (verrebbe da dire) praeter-legislativo. Non finisce qui. Per corroborarne l’autorevolezza, venivano apposte al codice le firme (a mo’ di like su Facebook) di illustri personaggi che ne approvavano il contenuto, tant’è che in appendice a quello dell’Angelini vi si trova un capitolo intitolato “Firme di gentiluomini che coi loro lumi coi loro nomi avvalorarono il presente codice”. Ci sono i nomi di Oreste Baratieri (quello della sconfitta di Adua), Enrico Cialdini Duca di Gaeta, Conti Cav. Emilio presidente della Società di Scherma di Milano, addirittura Carlo Poniatowsky e una serie di Grandi Ufficiali dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. In un certo senso, disconoscere il valore di questo Codice corrispondeva al disconoscimento del valore di chi lo approvava. Incombevano come ombre vendicative i titoli di chi figurava nell’elenco degli apprezzanti: chi si sarebbe permesso di mancare di rispetto a gente che fu aiutante di campo di Sua Maestà? Nessuno, chiaramente.
Ho dato a questo libro il titolo di codice perché tale è la denominazione adottata da coloro che scrissero analoghi trattati … Del resto, se detto titolo non è strettamente rigoroso in apparenza, lo è nella sostanza. Infatti, a rigor di termini, tale titolo si accoppia all’idea di un complesso di leggi sancite da un’autorità legalmente costituita, la quale obbliga all’osservanza di dette leggi mediante la coazione. Or bene: la sanzione di questo Codice non può che venire dalla pubblica opinione, la quale pronunci il suo assenso alle leggi in esso contenute, mediante l’adesione degli uomini autorevoli della società
stabilisce il Nostro Angelini.
Diritto praeter-legislativo, dicevamo. Stiamo operando su campi fluidi, i cui confini coincidono con quello che è il sistema di valori di una società ancora affezionata a categorie letterarie, ove l’Onore conta più di ogni cosa. Gli autori denunciano un disallineamento tra le esigenze di tutela dell’onore e la risposta punitiva della legge:
Mentre l’opinione pubblica afferma che l’onore val più della vita e che uno schiaffo invendicato infligge al gentiluomo la morte morale (peggiore di quella fisica), il Codice Penale condanna lo schiaffeggiatore ad una leggera multa e manda in galera il gentiluomo che avendo subito l’insulto espose la vita per vendicare quell’offesa che doveva e non seppe convenientemente punire la legge
argomenta l’Angelini. Che aggiunge:
L’inefficacia del Codice Penale da una parte e dall’altra l’eccessiva esigenza della Pubblica Opinione pongono in terribile imbarazzo il gentiluomo che abbia sofferto un insulto; ma poiché le leggi cavalleresche hanno erroneamente sancito che il duello cancella un fallo commesso od un’offesa ricevuta, egli è logicamente indotto a questo mezzo, che fra i due mali appare il minore.
È su questo iato, tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, si erge questo corpus di norme – necessario benché letale – perché
l’abolizione del duello è, purtroppo, per ora impossibile, sia perché l’opinione pubblica è troppo severa, sia perché la Legge dello Stato non ha peranco trovato né il modo di rivendicare l’onore offeso del gentiluomo né quello di preservarlo dalle offese … Visto che il gentiluomo so ribella al rigore della legge, e convinti da lunga esperienza che invece egli si piega ciecamente alle prescrizioni di un ben ponderato codice del duello (SIC!), credemmo opportuno di tratte vantaggio da tale favorevole circostanza dettandone uno, nella certezza che questo raggiungerà lo scopo che ci siamo prefissi.
Emerge un quadro – dalle parole di Angelini – drammatico della (alta) società italiana: se Cronaca Vera fosse stato stampato in quegli anni (1883), in prima pagina sarebbero figurate solo scene di cavalleria rusticane tra l’Avvocato X e il Notaio Y, tra il Marchese Caio e il Conte Mevio.
Ma perché la società italiana dell’epoca era così pronta strapparsi la manica della camicia, sguainare la sciabola e menare fendenti a destra e a manca? Erano così conflittuali i rapporti tra i consociati? Qual era la miccia che provocava la deflagrazione del colpo fermo a quindici passi?
“Cherchez la femme!” suggeriscono gli uomini di mondo d’Oltralpe. A quanto pare, la massima d’esperienza risultava… provata anche in Italia. I redattori dei codici si prefissero l’obiettivo di creare un sistema normativo che relegasse il duello ai confini dell’extrema ratio,
ma la cooperazione più efficace al nobile scopo … spettava colei che nella sua debolezza attinge la forza per dominare i caratteri più fieri, che col fascino della voce e dello sguardo s’impone più delle leggi e della spada, a colei che infine può essere l’angelo del bene o del male. Sì, spetta alla donna il far diminuire la frequenza dei duelli, eliminandone le cause; e ciò essa otterrà stigmatizzando col suo disprezzo i malcreati i presuntuosi, i codardi per quanto belli e amabili essi sieno.
Se il povero Angelini avesse avuto modo di vedere i trapper di oggi, probabilmente sarebbe morto di crepacuore.
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