Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione il Local Essay Competition, una competizione accademica organizzata da ELSA Perugia in cui i partecipanti sono stati invitati a concorre con un contributo scientifico sullo stato di diritto e sul rispetto dei diritti umani in Polonia. Angelica Polmonari è la vincitrice della competizione con questo contributo sulla crisi dello Stato di diritto e il costituzionalismo in Polonia tra diritti umani negati e abusi di potere.
LO STATO DI DIRITTO
Lo stato di diritto non informa un atarassico, immoto complesso di principi e paradigmi contraddistinti da generalizzabile e aprioristicamente stereotipabile validità, soggetto a fissità istituzionale e ideologica. Difatti, lo stato di diritto veicola un orizzonte valoriale per l’organizzazione statuale e dell’ordine giuridico dei singoli Paesi.
Una enucleazione e una definizione internazionali, uniformi, di stato di diritto non sono pervenute. Lo Stato di diritto è strettamente interconnesso con il macroconcetto socio-giuridico e istituzionale di stato moderno, incardinato sugli interessi della collettività intesa come popolazione complessiva occupante il territorio dei singoli stati.
Per l’assetto di cui sopra, nonostante la riconoscibile, trasversale reperibilità di elementi tipici dello stato di diritto, elementi formali e materiali esemplificati da disposizioni ed istituti caratteristici, contenuti e priorità concettualmente intrinseche sono imprescindibilmente soggetti ai cambiamenti determinati dall’evoluzione storico-culturale e normativa delle storie politiche nazionali, intrise di peculiarità individuali e attraversate dall’emersione di interessi sociali divergenti o potenzialmente confliggenti. Le condizioni-quadro, come enucleate e verbalizzate dal diritto pubblico e, contestualmente, dalle determinazioni politiche in fieri, problematizzano, in termini autoevidenti, come la realizzazione dei principi dello stato di diritto, in seno alla prassi nazionale dei singoli stati, non risulti integralmente compiuta e ineccepibile in alcun paese del mondo conosciuto.
Lo Stato di diritto materializza un archetipo di istituzione di carattere politico, sociale e culturale improntata a vicendevoli controlli interorganici, “inter corpora” dello Stato, e alla funzionale preordinazione del potere alla tutela della persona umana e dei suoi diritti fondamentali. La parità giuridica e il divieto di discriminazione informano simultaneamente una componente autonoma del concetto di stato di diritto e rappresentano elementi centrali della tutela dei diritti dell’uomo.
IL COSTITUZIONALISMO POLACCO
In seno allo stato polacco, i baluardi valoriali e pilastri operativi di cui sopra congiuntamente alla regolamentata tripartizione delle funzioni fondamentali dello Stato (legislativa, esecutiva, giudiziaria), quale principio cardine del costituzionalismo liberale, e al principio di legalità, crisma essenziale dello stato di diritto in quanto direzionato a tutelare il cittadino dagli abusi del potere esecutivo e del potere giudiziario, sono impattati dalla corrente involuzione storico-politica autoritaria ordita dal partito Diritto e Giustizia, fondato, nel 2000, dai fratelli gemelli Kaczyński, i cui primordi risalgono al 2015.
Alla base dell’attuale situazione politica nazionale, vi è un saldo rifiuto del sistema consensuale mutuato in seguito alla transizione democratica avvenuta nei primi anni Novanta del XX secolo.
La costituzione del 1997 ha consentito alla Polonia di recepire “legittimazione democratica” da parte della Comunità internazionale, conditio sine qua non per effettuare il proprio ingresso all’interno della NATO nel 1999 e nell’Unione Europea nel 2004 e strumentale all’adozione, sul piano interno, di nuovi dettami democratici, idealmente tesi a munire lo Stato polacco di strumenti normativi in grado di deterrere potenziali involuzioni autoritarie ex post facto. Il primario fine di salvaguardia continuativa del contemporaneo impianto istituzionale democratico è stato, a oggi, solo parzialmente raggiunto.
Dall’avvio del processo di transizione post-comunista, con avvento della c.d. “Terza Repubblica” , la Polonia ha esperito una forte instabilità di governo e un’alternanza al potere tra coalizioni di centro-destra e di centro-sinistra. Le difficoltà nella formazione di governi stabili derivavano dall’estremo frazionamento della società civile. L’alternanza di governo è venuta meno, per la prima volta, con le elezioni parlamentari del 2011, svoltesi tramite sistema elettorale, proporzionale corretto per il Sejm (la Camera bassa del Parlamento polacco) e maggioritario per il Senato (la Camera alta del Parlamento polacco), sistema introdotto nel 2001, anno di nascita di Diritto e Giustizia e di Piattaforma civica e di trasformazione sistemica e strutturale del sistema politico polacco da post-comunista a post-Solidarność (Solidarietà), con emersione di un partito liberale e di un partito conservatore, entrambi formalmente appartenenti al centro-destra.
Le elezioni parlamentari del 2011, che hanno confermato la coalizione guidata da Piattaforma civica, hanno suggellato una peculiare congiuntura politica che, simultaneamente ad avere negativamente impattato sul pluralismo dell’intero sistema istituzionale e rappresentativo polacco, ha posto l’accento su carenze nei meccanismi di controllo e di bilanciamento nei rapporti tra i poteri dello Stato, che sono alla base dell’attuale situazione di crisi che coinvolge il Tribunale costituzionale.
La Polonia, adottando, nel maggio 1791, la prima Costituzione scritta in Europa e la seconda, al mondo, dopo quella degli Stati Uniti di America, entrata in vigore nel 1789, si è prefigurata come una nazione in grado di mutuare storicamente e di serbare formalmente una composita tradizione parlamentare, orientandone, a più riprese, nel corso del XX secolo, l’impetuoso riaffioramento. Cionondimeno, per dirimente effetto di una politica riformatrice che, nel 2015, in mancanza dei requisiti tecnico-formali e numerici di avvio dell’iter di revisione costituzionale ad hoc, a mezzo adozione di leggi ordinarie, ha esautorato il testo costituzionale, la Polonia dell’oggi è soggetta a una massiva ingerenza del potere esecutivo sul potere giudiziario, fulcro della progressiva demolizione, ab imis fundamentis, dello Stato di diritto. La degenerazione illiberale polacca in itinere ha coinvolto, in primis, il Tribunale costituzionale.
IL TRIBUNALE COSTITUZIONALE
La crisi costituzionale polacca, contrassegnata dall’adozione di una sequenza di riforme, promosse dal partito di governo, ha investito il principio di separazione dei poteri e ha continuativamente assoggettato, nell’arco dell’ultimo quinquennio, l’indipendenza del potere giudiziario polacco a influenze esogene e progressivo indebolimento. Secondo quanto previsto dalla Costituzione polacca, all’articolo 194, il Tribunale costituzionale, la cui prima pronuncia risale al 28 maggio 1986, si compone di quindici giudici, eletti per un mandato della durata di nove anni. Agli albori della crisi costituzionale, il mandato di tre giudici, un quinto della compagine decisoria del Tribunale costituzionale, sarebbe scaduto il 6 novembre 2015, nell’arco della VII legislatura, mentre i mandati di altri due giudici sarebbero rispettivamente terminati il 2 e l’8 dicembre 2015, nel corso dell’VIII legislatura. Cionondimeno, l’8 ottobre 2015, il Sejm ha anzitempo provveduto all’elezione di tutti e cinque i giudici del Tribunale Costituzionale succitati, ignorando le proteste dell’opposizione ipso facto. Gli accadimenti di cui sopra hanno catalizzato l’attenzione del Parlamento europeo che ha provveduto a porre in evidenza, a mezzo risoluzione, che il Tribunale costituzionale, de iure, incarna un fondamentale elemento istituzionalmente preordinato a salvaguardare il bilanciamento dei poteri e delle funzioni statali che ineriscono, ideologicamente e strutturalmente, alla democrazia costituzionale e allo Stato di diritto in Polonia. La Commissione Europea, con Raccomandazione relativa allo Stato di diritto in Polonia, risalente al 27 luglio 2016, ha problematizzato la revisione della legge sul Tribunale costituzionale e la conseguente mancata pubblicazione delle sentenze pronunciate dal Tribunale stesso. La commissione di Venezia, nel suo parere sulle modifiche alla legge sul Tribunale costituzionale, ha sottolineato come tale lacuna avrebbe reso il Tribunale inefficace in qualità di custode della Costituzione.
A mezzo ordinanza 19 ottobre 2018, resa in causa C-619/18, la Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) ha posto in risalto come le riforme istituzionali interne a ciascuno Stato comunitario, quali quelle polacche, rilevino per l’Unione europea e per i singoli Stati membri, alla luce dell’applicazione diretta della Carta dei diritti fondamentali. L’ordinanza di cui sopra è collegata alla previa procedura ex art. 7 Tue avviata contro la Polonia per le riforme del 2015, aventi a oggetto la giustizia e la libertà di stampa, in quanto tacciate di rappresentare una minaccia per lo Stato di diritto, compromettendo pluralismo, non discriminazione, tolleranza, giustizia, solidarietà e uguaglianza di cui all’art. 2 Tue.
La corrente erosione della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti fondamentali in Polonia è stata corroborata, nel corso dell’ultimo biennio, dall’implementazione di addizionali riforme legislative e politiche che hanno ulteriormente compromesso l’indipendenza della magistratura, come sancita dall’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dall’articolo 6 della CEDU e dall’articolo 10 della Costituzione polacca. Dinanzi alla Corte EDU, il 10 aprile 2019, un giudice polacco, occupatosi di casi penali di rilievo mediatico che hanno coinvolto politici nazionali, a causa dei quali è stato oggetto di sette procedimenti disciplinari, avviati in applicazione delle nuove regole procedimentali che hanno esteso i poteri sanzionatori del Ministro della giustizia a detrimento dei magistrati, ha presentato il ricorso n. 21181/19, TULEYA v. POLAND. Il giudice ha asserito che i procedimenti disciplinari cui è stato sottoposto, potenziati da una campagna mediatica denigratoria, consistente in insulti, diffusione di informazioni recanti discredito alla sua figura, lettere anonime veicolanti messaggi d’odio, hanno leso la sua reputazione professionale, con violazione del congiunto disposto ex articoli 8 e 13 della CEDU, compromettendo il suo diritto alla vita privata e alla reperibilità di un rimedio giurisdizionale a tutela della propria pubblica reputazione e del proprio diritto alla libertà di espressione.
La Commissione europea, nel solco di richieste di audizioni obiettive e trasparenti sul deterioramento dello Stato di diritto nel paese, indirizzate, a gennaio 2020, dal Parlamento Europeo alle autorità nazionali polacche, ha avviato, a fine aprile 2020, un procedimento d’infrazione contro la Polonia, ascrivendo alla nuova legge, cosiddetta legge-bavaglio, sulla magistratura, entrata in vigore a febbraio 2020, incompatibilità con il principio del primato gerarchico del diritto dell’Unione Europea. La legge di cui sopra ha posto ai tribunali polacchi il veto di applicazione diretta di disposizioni del diritto comunitario finalizzate a tutelare l’indipendenza della magistratura e di sottoposizione di inerenti domande pregiudiziali alla Corte di Giustizia.
Simbolo della crisi polacca è divenuto, dunque, l’accostamento della controversia politica avente a oggetto l’esercizio del potere giudiziario e della nuova legge sui media pubblici la quale, secondo le opposizioni, è in contrasto col pluralismo e con la garanzia della libertà di espressione.

COMPROMISSIONE DEI DIRITTI DELLE MINORANZE
Nel 2016, è entrata in vigore la legge nazionale sugli organi d’informazione pubblica che ha potenziato il controllo del governo polacco sulla tv di Stato e sulla radio nazionale, obbligando, inter alia, i media pubblici ad avallare la linea editoriale stabilita dal governo. Nel solco delle riforme normative summenzionate, foriere di polimorfi abusi di potere, come asserito nel rapporto 2019-2020 di Amnesty International sulle violazioni dei diritti umani in Polonia, nell’arco dell’ultimo anno, personalità pubbliche, tra cui esponenti politici e professionisti nazionali dell’informazione, hanno rilasciato dichiarazioni di carattere discriminatorio a detrimento delle minoranze, quali, notoriamente, la comunità LGBTIQ+ e quella ebraica.
I diritti fondamentali minacciati, in Polonia, sono plurimi: la libertà di espressione, il pluralismo, la libertà di stampa congiuntamente a quella di associazione, di manifestazione e accademica. Destano preoccupazione misure e modus operandi istituzionalizzati di natura violenta e discriminatoria nei confronti di minoranze e altri gruppi vulnerabili, esperiti a mezzo incitazione all’odio e discriminazione pubblica nei confronti degli stessi, violenza domestica e generalizzata sulle donne, la criminalizzazione dell’educazione sessuale e la limitazione di pratiche afferenti alla salute sessuale e riproduttiva quali l’aborto e l’uso di metodi contraccettivi.
Il 22 ottobre 2020, la Corte costituzionale della Polonia ha dichiarato incostituzionale l’accesso all’aborto in caso di “gravi e irreversibili malformazioni fetali o malattie incurabili che minaccino la vita del feto”. La Polonia, già antecedentemente, annoverava la presenza di una delle normative sull’aborto più restrittive d’Europa. In seguito alla decisione giudiziaria di cui sopra, l’interruzione di gravidanza è legittimata solo in quanto finalizzata a tutelare la vita o la salute della donna o nel circostanziato frangente in cui la gravidanza sia la conseguenza di una violenza sessuale. Con Risoluzione del 26 novembre 2020 sul divieto di fatto del diritto all’aborto in Polonia (2020/2876(RSP)), il Parlamento Europeo ha evidenziato che, in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, le leggi restrittive sull’aborto ledono i diritti umani delle donne. Nell’arco della scorsa decade, la Corte Europea di Strasburgo ha interpretato i diritti riproduttivi polacchi di cui sopra con sentenze concernenti la pratica dell’aborto e l’accesso a informazioni in materia di salute sessuale e riproduttiva.
Nel caso R.R. VS Polonia del 26.5.2011, la Corte Europea, facendo riferimento alla legge polacca dell’epoca, ha riconosciuto come l’accesso ai test genetici sul feto costituisse parte integrante del diritto alla vita privata e familiare della ricorrente, ponendo, inoltre, l’accento sulla circostanza che gli Stati sono soggetti a obblighi positivi predeterminati al rispetto dei diritti all’integrità fisica e psichica degli individui. L’accesso alle informazioni relative alla salute sessuale e riproduttiva in tempi utili è cruciale per l’esercizio dei suddetti diritti e, nel caso di specie, il ritardo nell’ottenimento delle informazioni mediche relative allo stato di salute del feto ha compromesso l’applicazione della normativa sull’aborto, con accertata violazione dell’articolo 3 CEDU e del divieto di trattamenti inumani e degradanti e dell’articolo 8 CEDU da parte della Polonia.
I deputati europei, nella Risoluzione (2020/2876(RSP), a ridosso della sentenza della Corte Costituzionale dell’ottobre 2020, hanno indirizzato la loro solidarietà ai cittadini polacchi, in particolare alle donne e alla comunità LGBTQ+ che, nonostante i rischi sanitari derivanti dall’attuale emergenza sanitaria da COVID-19, si sono recati in strada per protestare contro le gravi compromissioni dei propri diritti fondamentali a cui sono sottoposti anche nell’attuale frangente emergenziale.

DIRITTI DEI GRUPPI VULNERABILI: DIRITTI DELLE PERSONE LGBTQ+
Nell’ottica del diritto internazionale pubblico, le decisioni democraticamente avallate e legittimate e il discorso pubblico sono sottoposti a limiti, laddove entrano in conflitto con esigenze scaturenti dalla preminente tutela dei diritti dell’uomo e qualora formazioni sociali interne a una una popolazione, quali le donne, le minoranze etniche e altri gruppi vulnerabili, risultino oggetto di discriminazione.
L’esistenza delle persone LGBTQ+ polacche è pervasa da costante paura della violenza, mediatica e fisica, che si concretizza a mezzo condotte pubbliche e private volte a limitarne la libertà di espressione e riunione, corroborate da aggressioni verbali su internet, celeri archiviazioni di denunce per discorsi di incitamento all’odio, isolamento istituzionale. In Polonia, attualmente, non vi è alcuna legge che tuteli le persone LGBTQ+ da hate speech. La lacuna normativa determina che esponenti politici e giornalisti rilascino dichiarazioni offensive nei confronti della comunità e che circolino nelle città polacche furgoni per la propaganda anti-LGBTQ+, gli “homofobus”, finanziati da organizzazioni cattoliche o nazionaliste.
Durante l’ultima campagna elettorale polacca, culminata nelle elezioni presidenziali di luglio 2020, la conclamata posizione dei media pubblici è risultata diffamatoria nei confronti della comunità LGBTQ+ che è stata definita “nemico pubblico” nazionale, come denunciato da López Aguilar, parlamentare europeo e presidente della Commissione LIBE. Duda stesso ha asserito che “LGBT non sono persone, ma un’ideologia peggiore del comunismo”.
A maggio 2020, come descritto nella scheda-paese dedicata alla Polonia dell’Annual Review 2020 sulla situazione dei diritti umani di lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersex in Europa e in Asia Centrale di ILGA Europe, ha avuto luogo l’arresto dell’attivista Elżbieta Podlesna, con conseguente custodia cautelare in carcere, in quanto accusata di avere oltraggiato il sentire religioso a mezzo distribuzione e detenzione di poster che ritraevano la Vergine Maria con l’aureola dipinta nei colori della bandiera arcobaleno, simbolo della comunità LGBTQ+, un’imputazione che, in Polonia, comporta l’irrogazione di pene fino a due anni di carcere.
Venerdì 7 agosto 2020, la polizia polacca, effettuando 48 fermi, ha represso, a Varsavia, una manifestazione di protesta contro l’arresto di Malgorzata Szutowicz, detta Margot, attivista di un collettivo LGBTQ+ polacco. Il 3 agosto Margot era stata accusata, come Elżbieta Podlesna, di avere insultato i sentimenti religiosi dei cittadini per aver collocato bandiere arcobaleno sui monumenti di Varsavia. Quattro giorni più tardi, un tribunale ha avanzato la richiesta di detenzione preventiva di Margot per due mesi, ricorrendo a una misura immoderata se comparata con gli standard polacchi sanzionatori per reati della suddetta tipologia. Persone arrestate durante la manifestazione di protesta per il suo arresto hanno dichiarato di avere subito percosse e violenze da parte della polizia presente, di essere state successivamente sottoposte a interrogatorio di notte, in assenza di un legale.
Comuni, province e regioni polacche approvano risoluzioni volte a ostracizzare le minoranze sessuali del paese. Allo stato attuale delle ricerche sul tema, si riscontra la sussistenza di due tipologie di risoluzioni. Il primo tipo di risoluzione, il cui modello è stato promosso da funzionari del governo locale di Lublino e mutuato, caso per caso, da funzionari di altri enti locali, si oppone all’ “ideologia LGBT”. La tipologia di risoluzione di cui sopra presenta formule quali “istituire guardiani del faro”, “istituire ufficiali di correttezza politica”. Il secondo tipo di risoluzione, che incentiva un modello familiare ristretto, è la Carta regionale dei diritti della famiglia, promossa dall’organizzazione ultra-conservatrice Ordo Iuris. È veicolo di misure non vincolanti di contrasto, a mezzo burocrazia, della realizzazione di lezioni contro la discriminazione nelle scuole o in altre strutture soggette all’egida del governo locale e della concessione di strutture del governo locale per eventi LGBTQ+. Le risoluzioni anti-LGBTQ+, adottate da quasi 100 comuni in Polonia, costituiscono uno strumento formale di pressione nei confronti degli impiegati delle istituzioni pubbliche. La Corte amministrativa provinciale di Gliwice ha annullato una risoluzione della prima tipologia, votata dal consiglio comunale di Istebna il 2 settembre 2019 e portata all’attenzione dei giudici grazie a una denuncia del difensore civico per i diritti dei cittadini Adam Bodnar. Secondo le motivazioni elaborate dalla corte, il termine “ideologia LGBT” non informa un concetto chiaro, preciso e incontrovertibile. Secondo i giudici, l’espressione “ideologia LGBT”, in quanto incarnante un sistema di valori, idee e concetti portato avanti da singoli o da gruppi di individui, inerisce a tutte le persone della comunità di riferimento e la risoluzione in esame ha prodotto effetti discriminatori nei loro confronti, escludendoli dalla vita della propria comunità in ragione del proprio orientamento sessuale e/o della propria identità di genere. La risoluzione di Istebna, come argomentato dal giudice Wujek, ha violato l’articolo 32 della Costituzione polacca, secondo il quale “nessuno può essere discriminato nella vita politica, sociale o economica per alcun motivo”. Un pronunciamento dal simile contenuto è stato emesso dalla Corte di Radom, che si è espressa in merito a una analoga risoluzione, approvata dal comune di Klwow. Anche in questo caso, è stato notato che le discriminazioni perpetrate hanno colpito le persone fisiche, non un’astratta “ideologia”. La corte, nelle proprie motivazioni, ha sottolineato come ogni persona, indipendentemente da orientamento sessuale, punti di vista, colore della pelle, è legittimata a sentirsi al sicuro nel contesto socio-territoriale in cui vive. La corte ha argomentato che la Polonia vanta anche tradizioni di tolleranza e ha sottolineato come le modalità con cui le autorità, direzionate dalla maggioranza, trattano le minoranze veicolano violazioni delle leggi nazionali e internazionali.
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Copertina: polen-heute.de