Negli anni ’30 in un paesino dell’Abruzzo vengono arrestati una fattucchiera e il suo complice per fatti che la cronaca di allora definisce “un groviglio di delinquenza e superstizione”. Il processo rivela una vera e propria storia dell’orrore.
Se siete appassionati di film horror o non avete mai avuto problemi nel leggere sui giornali i peggiori casi di cronaca nera allora proseguite pure con la lettura. Quella che stiamo per raccontarvi è una storia da far accapponare la pelle come poche: siete avvisati.
Tutto comincia nel settembre del 1937 a Ortona, in provincia di Chieti. Il piccolo Nicolino Maggi, di cinque anni, viene ricoverato in ospedale per un’infezione all’ombelico. Nel medicare la piaga i medici notano due strani puntini neri in quella zona che, esaminati meglio, appaiono come due punte di aghi.
Estratti dal corpo, si rivelano due aghi per cucire di 8 cm. Il bambino, interrogato, dice gli erano rimasti dentro dopo le “siringhe” che gli facevano di frequente in casa.
A questo punto i medici, cominciando a nutrire qualche sospetto, esaminano con più scrupolo il corpo del bambino e trovano dappertutto arrossamenti e tracce di punture. Decidono quindi di far fare a Nicolino una radiografia. Il risultato è sconcertante: si ritrovano ben ottanta aghi conficcati in varie parti del corpo della povera vittima.
Viene arrestata subito la nonna del bambino, tale Maria Bracciale, indicata dal piccolo stesso come la responsabile. Lei ovviamente protesta, nega, si dichiara innocente e rivela di conoscere il vero colpevole: suo genero (e zio del bimbo) Francesco Iannini. Costui, calzolaio, con lei convivente, appena venuto a sapere dall’ospedale cosa era avvenuto al bambino, era scoppiato a piangere chiedendo di essere perdonato.
Così viene arrestato anche Iannini, ma anche lui protesta, nega, si dichiara innocente, sottoposto a interrogatorio finisce per ammettere che al delitto avevano concorso entrambi, lui e la suocera, ma poi nel prosieguo dell’istruttoria ritira tutto e insiste che era stato frainteso e non si era mai dichiarato colpevole.
A quel punto viene raccolta un’altra dichiarazione da parte di una tale Maria Tommasa Marchigiani, paralitica, padrona di casa, che afferma di aver visto con i suoi stessi occhi Iannini che teneva fermo il bambino e la Bracciale gli conficcava gli aghi nel corpo.
Lo stesso Nicola Maggi conferma questa versione: lo zio lo tratteneva durante queste sessioni atroci che si ripetevano spesso e la nonna introduceva gli aghi. Una volta, lo zio gli aveva persino conficcato con il martello dei chiodi da calzolaio nella pianta dei piedi. E in effetti la radiografia confermava la presenza di questi chiodi, che purtroppo era impossibile estrarre senza lacerare dei vasi sanguigni vitali.
Viene sentita anche la mamma del bambino, Ada Mincone, figlia di Maria Bracciale e moglie di Francesco Iannini. Alle accuse contro i due imputati aggiunge pure che questi erano invischiati tra loro in una relazione che perdurava da parecchi anni.
Si comincia a capire che cosa è successo. Maria Bracciale, nota non solo in paese ma anche in tribunale per le sue attività di fattucchiera, era ferocemente convinta che torturando e diminuendo la vitalità di una creatura innocente migliorasse la salute dell’individuo a beneficio di cui si praticava il maleficio. Una superstizione molto diffusa tra la gente di Ortona, che la fattucchiera aveva preso alla lettera senza scrupoli per rinvigorire le forze virili del suo giovane amante. Il quale, tra l’altro, si viene a scoprire nel corso delle indagini, doveva soddisfare le voglie di ben due donne mature: la Bracciale e la Marchigiani, la padrona di casa “paralitica”.
Iannini era già stato ricoverato nel Sanatorio di Chieti per un sospetto di tubercolosi, ma le due megere, non convinte dal referto dell’ospedale che lo rilasciava come sano, avevano pensato di ricorrere alla magia nera ai danni dell’infelice Nicolino Maggi.
Il 3 marzo 1938 cominciava il processo alla Corte d’Assise di Chieti. Maria Bracciale si presentava a giudizio con numerosi precedenti penali legati alla sua attività di fattucchiera, Francesco Iannini era incensurato. L’aula è pienissima di spettatori, ripugnati dal crimine ma, come sempre avviene in questi casi, morbosamente curiosi.
Viene chiesta la condanna a 30 anni per tentato omicidio. Il difensore prova a sostenere la mancanza di volontà omicida, che si tratta di maltrattamenti seguiti da lesioni gravissime, tenta di connettere la superstizione con l’incapacità di intendere e di volere.
Ma la Corte, di fronte a ogni argomento di diritto, anche il più persuasivo, è come soffocata dalla crudeltà immane del fatto. E allora appena due giorni dopo, il 5 marzo, emette la sua condanna: a 30 anni, perché non si poteva condannare di più.
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