Uno dei modi migliori per attirare l’attenzione verso un argomento è quello di introdurlo attraverso aspetti divertenti, accattivanti, se non addirittura bizzarri. E il diritto non fa eccezione.
Nel caso del sistema giuridico giapponese, tuttavia, per procedere con questo approccio occorre adoperare particolare cautela, per le ragioni che seguono: il Giappone soffre da sempre di una rappresentazione stereotipata, non soltanto sui mass media – dove il paese spesso appare solo per stranezze tecnologiche o catastrofi naturali – ma anche nella letteratura scientifica. La maggior parte dei manuali di diritto comparato in uso negli atenei italiani ancora insiste sulle peculiarità dei giapponesi come popolo che non ama il diritto e del Giappone come un Paese in cui rivolgersi al tribunale è considerato addirittura disdicevole. Nonostante gli studi più recenti abbiano cercato di demistificare questa immagine basata su uno stereotipo culturale piuttosto vetusto, e abbiano iniziato a presentare il Giappone come un paese molto meno esotico, la narrazione è profonda e diffusa e, come tale, difficile da estirpare.
Agli occhi del giurista italiano il diritto giapponese appare sorprendentemente comprensibile: del resto il Giappone è radicato nella tradizione del civil law europeo-continentale a base codicistica (in particolare tedesca, ma con una grande influenza francese), e ha subito delle ibridazioni basate sul modello statunitense nel secondo dopoguerra (ad esempio, una migrazione del diritto processuale penale verso il sistema accusatorio): nulla che uno studioso, o un professionista, formatosi in un ateneo italiano non possa comprendere con relativa semplicità.
Vi sono senza dubbio residui della tradizione – come del resto ovunque – ma, al di là della indubbia fascinazione che può suscitare sull’antropologo del diritto l’art. 897 relativamente alle regole per la successione negli oggetti relativi al culto degli antenati, ben poco è rimasto di “esotico” nel sistema giuridico dell’Arcipelago.
Perché dunque presentare alcuni casi singolari del diritto giapponese? Per svariati motivi.
La prima ragione è che una paludata trattazione del sistema giuridico del Giappone sarebbe piuttosto noiosa e distonica rispetto agli accattivanti contributi che animano questo sito. Ritengo dunque molto più piacevole – sia per il lettore, sia per me! – presentare una serie di vicende magari un po’ bizzarre, ma senza dubbio interessanti.
Il secondo motivo è forse ancora più importante: alcuni casi che in apparenza si focalizzano su aspetti marginali del diritto giapponese consentono in realtà di effettuare “carotaggi” molto più profondi, che possono servire a spiegare caratteristiche strutturali del sistema giuridico del Giappone.
Un esempio su tutti chiarirà la questione (a titolo di disclaimer e in prevenzione di accuse di autoplagio, tengo a precisare che ho già trattato di alcuni di questi argomenti sull’ottimo blog del collega e amico Andrea Ortolani “Il diritto c’è ma non si vede”, dedicato al sistema giuridico giapponese).
Rispetto per le scimmie
Circa dieci anni fa, a Kyoto, un gruppo di giovani, durante una notte brava di bevute, decise di introdursi nello zoo cittadino e di infastidire le scimmie che riposavano tranquillamente all’interno delle loro gabbie, lanciando loro oggetti. L’efficiente sistema di telecamere a circuito chiuso del giardino zoologico permise alla polizia di identificare in brevissimo tempo i colpevoli, i quali furono convocati dal pubblico ministero. Essi si scusarono sentitamente, e chiesero clemenza: un’eventuale condanna avrebbe precluso loro una proficua carriera lavorativa, e avrebbe avuto un grande impatto sul loro futuro. Il P.M. acconsentì a sospendere l’azione penale: i giovani però avrebbero dovuto rimborsare lo zoo per i danni subiti, svolgere lavori socialmente utili… e chiedere scusa alle scimmie! L’immagine dei ragazzi che si inchinano davanti alla gabbia dei primati (non è chiaro se questi ultimi abbiano apprezzato il gesto) ebbe una certa visibilità sulla stampa locale. Al di là della evidente comicità della scena, questa vicenda permette di comprendere immediatamente due aspetti essenziali del diritto processuale penale giapponese: la discrezionalità dell’azione penale in capo al pubblico ministero, e l’importanza delle scuse nell’intero sistema. La stragrande maggioranza dei crimini non socialmente pericolosi in Giappone infatti si conclude con una decisione di non perseguire l’illecito presa a seguito del risarcimento del danno e – forse soprattutto – delle scuse del soggetto in questione al danneggiato. Che quest’ultimo abbia o meno il pollice opponibile poco importa.
Subentrare nella casa di un morto
Una tipologia di controversie che colpisce sempre l’osservatore non giapponese riguarda i contratti di vendita o locazione di immobili dove sia deceduto qualcuno. Qualora il venditore/locatore non dichiari la circostanza, il contratto è, secondo l’opinione prevalente dei tribunali giapponesi, annullabile per “vizi della cosa”. Il fatto che le corti locali applichino senza troppo approfondimento la normativa che regola normalmente difetti fisici, quali l’insalubrità dei locali, o legali, quali il mancato rilascio di certificazioni, dell’immobile alla circostanza della morte di qualcuno desta non poco scalpore nell’interprete internazionale. E non ci si riferisce soltanto ai casi delle psychologically impacted houses tipiche dell’esperienza statunitense, ossia immobili dove si sia consumato qualche fatto di cronaca nera particolarmente raccapricciante (su questo punto rimando all’ottimo Storie di locazione e di fantasmi di Raffaele Caterina): sebbene la maggior parte del contenzioso anche in Giappone riguardi in effetti casi con rilevanza mediatica, la prassi per cui il venditore (o locatore) è tenuto a dichiarare la circostanza si applica senza distinzione anche ai casi in cui un anziano sia pacificamente deceduto nel proprio futon dopo una vita lunga e felice. Le agenzie immobiliari prevedono la cosa nei loro formulari, e addirittura esistono società specializzate nella locazione di unità abitative dove sia morto qualcuno: i prezzi in questo caso sono inferiori fino a due terzi rispetto a quelli di mercato.
Vi è stato un lungo dibattito se un suicidio avvenuto tramite defenestrazione dovesse essere considerato come avvenuto all’interno dell’immobile, con conseguente obbligo di dichiarazione: l’opinione prevalente è in senso negativo.
Cosa ci consente di apprendere sul Giappone questo tipo di cause? Le religioni giapponesi, sia quella autoctona (lo Shintō), sia quella importata (il Buddhismo, che assieme allo Shintō viene praticata in modo sincretico dalla maggioranza della popolazione) conferiscono entrambe alla morte un potere di corruzione e impurità molto profondo. Nel Giappone premoderno, coloro che esercitavano attività a contatto con creature morte (conciatori, becchini, macellai) erano considerati individui impuri, e come tali il loro status sociale era infimo: i loro discendenti tuttora sono oggetto di discriminazione al punto che vi sono iniziative a loro tutela. Questa potrebbe essere un possibile spiegazione.
Un’altra chiave di lettura è quella della presenza della “religione” (non in senso dogmatico, ma con importanti funzioni apotropaiche) nella vita quotidiana: sul tetto, o a fianco, della sede di molte società di successo si può vedere un altare Shintō presso il quale dirigenti e impiegati pregano per il successo degli affari; nessun giapponese si metterebbe alla guida di un’autovettura che non abbia ricevuto una benedizione rituale. Abitare in un luogo “impuro” porterebbe con sé una sensazione di disagio che ben pochi sono disposti a sopportare. Non è strano, dunque, che l’immobile possa tornare sul mercato a condizioni normali dopo che almeno un inquilino vi abbia soggiornato per un intero periodo contrattuale senza avere problemi: la “vita” consumata da questi nell’alloggio avrebbe la funzione di ripulire lo stesso dalle impurità della morte.
Prima però di additare questo atteggiamento come una bizzarria di un popolo peculiare, riflettiamo sul fatto che negli Stati Uniti c’è chi ha cercato di ottenere l’annullamento di contratti di vendita immobiliare perché il precedente proprietario era affetto da HIV: a livello strettamente scientifico, siamo sullo stesso piano.
La criminalità “tollerata” solo se organizzata
Gli osservatori internazionali sono poi affascinati anche da un altro aspetto: quello del rapporto tra istituzioni e crimine organizzato nel paese. In una nazione percepita – a ragione – come estremamente sicura, dove la giustizia penale ha tutti gli strumenti per assicurare che a ogni reato corrisponda un reo, appare peculiare che le organizzazioni criminali possano prosperare e godere di riconoscimento sociale. Fino alle riforme degli anni ‘90, l’appartenenza a un clan della yakuza (la famigerata mafia giapponese) non era di per sé un illecito, e addirittura i gruppi criminali avevano (e tuttora spesso hanno) un portavoce ufficiale, una sede sociale, una rivista interna a uso dei soci, un marchio o emblema distintivo.
Il crimine organizzato gestisce buona parte dei settori del gioco d’azzardo e dell’intrattenimento notturno; ha legami stretti con alcune imprese di costruzioni; scandali che riguardano i rapporti tra politici di alto profilo e boss sono ricorrenti; in alcune aree delle grandi città giapponesi, l’ordine pubblico è gestito direttamente dai mafiosi, che assicurano che i clienti dei night club e dei bar possano trascorrere serate divertenti e che nessuno crei disturbo.
Rapporti tra politica o altre istituzioni e crimine organizzato non sono certo una peculiarità del Giappone, ma quello che colpiva era la relativa trasparenza con cui questo avveniva. Per usare una formula riassuntiva semplicistica, ma per certi versi assai efficace, quello che la società giapponese non tollera è il crimine disorganizzato: quello organizzato, purché rispetti le regole non scritte di convivenza pacifica con lo Stato, era e per certi versi è ancora largamente tollerato.
Ultimamente però l’attività di contrasto al crimine organizzato si è fatta più intensa, e ha assunto la forma di provvedimenti tesi a recidere i rapporti tra malavitosi e società civile: si tratta perlopiù di ordinanze a livello di ken (prefettura o provincia) in cui si comminano sanzioni a chi faccia affari con i criminali. Tali provvedimenti sono a volte molto pervasivi: un ristorante può vedere la propria licenza revocata qualora serva pasti a mafiosi; allo stesso modo un hotel può dover pagare sanzioni onerose qualora ospiti una riunione di malavitosi. Uno dei miei ristoranti di sushi preferiti a Nagoya ha ora sulla porta un cartello che spiega, in modo che echeggia un tono di scusa, che non può più servire yakuza a causa delle recenti ordinanze locali.
Discoteche e sale giochi
Si potrebbe continuare lungamente, presentando la regola (modificata solo nel 2016) che vietava alla gente di ballare in certi orari, e che ha comportato la chiusura di numerose discoteche nel paese nel periodo attorno al 2010. La norma era originariamente nata durante l’occupazione del Giappone da parte delle forze statunitensi dopo la Seconda guerra mondiale, si riferiva alle sale da ballo come indicazione eufemistica e indiretta ai postriboli. Sostanzialmente inapplicata per decenni, è stata rispolverata dalle forze dell’ordine per poter chiudere quei locali sospettati di essere luogo di riciclaggio di denaro sporco o di spaccio di droga senza dover effettuare indagini complesse: bastava constatare che dopo un’ora prestabilita la gente in discoteca… ballasse!
Anche in questo caso, al di là della surrealtà della scena di un gestore di sala da ballo che si difese dicendo che la gente non ballava, ma “muoveva il corpo al ritmo della musica” (con interessanti risvolti tassonomici!), denota un atteggiamento perfettamente razionale, e non dissimile di quello, adottato dalla polizia di molti paesi, di fare effettuare controlli sanitari in locali in cui si sospetta si svolgano attività illecite.
Oppure si potrebbe menzionare il caso del pachinko, una via di mezzo tra il flipper e la slot machine. In Giappone il gioco d’azzardo è tendenzialmente illegale, e le sale di pachinko non possono erogare premi in denaro. La vincita, costituita dalle palline di metallo che sfrecciano nelle rumorose macchinette, può essere cambiata all’interno della sala da gioco con premi di modico valore, come peluche. E tuttavia, nelle immediate vicinanze, c’è invariabilmente una società – del tutto scollegata da quella proprietaria del pachinko stesso – curiosamente interessata all’acquisto di palline di metallo per il pachinko…
Per evitare di trasformare questo intervento in una semplice elencazione mi fermo qui, con l’auspicio che questa piccola Wunderkammer fatta più di più di minimalia che di mirabilia possa aver attirato l’attenzione dei lettori.
L’esortazione è sempre quella di guardare oltre all’apparenza, di non fidarsi mai delle spiegazioni semplicistiche basate sullo stereotipo culturale, e di cercare di interrogarsi sulla possibile ratio dietro qualcosa che sembra fantasioso o bizzarro.
© Riproduzione Riservata
Se volete leggere di più sul sentimento e il sistema della giustizia in Giappone non perdete il libro di Giorgio Fabio Colombo Fantasmi e guerrieri edito da Le Lucerne!