In alcune culture le pratiche magiche erano guardate con estremo sospetto. È il caso della Roma antica, dove i praticanti di magia oscura erano puniti con la pena capitale. Un processo per magia come quello in cui fu coinvolto Apuleio era dunque una cosa serissima. Ma cosa si celava dietro le accuse rivoltegli? Ecco la storia del processo allo scrittore latino e la brillante auto apologia.
Il duro lavoro del mago tra antichità e diritto romano
Ormai da qualche secolo i maghi non hanno vita semplice. Nemmeno nelle migliori campagne a D&D.
Certo, ce ne sono alcuni entrati nell’immaginario collettivo al pari degli influencer – da Gandalf a Harry Potter; dal Mago di Oz a Mr Norrell – ma avere la fama di mago può anche dare qualche grattacapo.
Il termine mago, almeno dal IV secolo a.C., si diffuse a partire dalla Persia per mano di Erodoto, che così definiva i sapienti, i sacerdoti dedicati allo Zoroastrismo dell’antico Impero Persiano. Come in molti, probabilmente, hanno appreso già a catechismo, mago designava proprio il sapiente, qualcuno con delle risorse in più rispetto ad altri esseri umani.
Il latino MAGUS venne infatti importato dall’antico greco μάγος, dall’antico persiano magush, derivante con ogni probabilità dalla radice Proto Indo Europea *magh-, “avere il potere di” fare, creare, distruggere qualcosa. È una magia tecnica prima che psichica: gli antichi erano senz’altro più pratici di noi.
I maghi, quindi, iniziarono a diventare dei mascalzoni agli occhi del diritto romano perché potevano portare scompiglio dove esso poneva ordine.
Già definita una scienza temibile e perversa da Plinio il Vecchio, la magia, il malum carmen, era condannata come illecito nelle Leges XII Tabularum, con particolare attenzione per chi ne faceva uso per propiziarsi il raccolto di altri.
Insomma, i tempi in cui praticare le arti magiche poteva anche aprire le porte per un impiego al fianco dei rappresentanti del potere erano ormai lontani. Anzi, nel I secolo a.C., con la Lex Cornelia de sicariis et veneficiis, i praticanti di magia oscura, cioè la magia tesa a causare effetti negativi verso il prossimo, erano condannati a morte.
Tuttavia, quella di magia era un’accusa di difficile gestione, sia per l’imputato che per l’accusa stessa, ma probabilmente anche qui entravano in gioco magheggi ed effetti speciali di sorta per riuscire a incassare l’esito sperato.
Apuleio e il fascino del filosofo
Quando si parla di magia nella Roma antica, le memorie degli studi classici faranno riaffiorare il nome di Apuleio, autore latino nato a Madaura, nell’odierna Algeria, nel 125 d.C.
Tra le sue opere, poche hanno superato la prova del tempo, arrivando fino a noi. Tra esse spicca senz’altro quella più celebre, il Metamorphoseon libri XI, detta Metamorfosi o L’Asino d’Oro. Si tratta di un viaggio allegorico in cui il protagonista, Lucio, viene trasformato in asino e deve proseguire imperterrito tra tante peripezie per riacquistare la forma umana. Un percorso quasi escatologico, derivato e ispirato con ogni probabilità dall’esperienza che vi narreremo a breve.
Dalle poche notizie frammentarie giunte a noi, sappiamo come egli avesse concluso i propri studi in retorica e grammatica a Cartagine, trasferendosi poi ad Atene, dove apprese, tra le altre cose, anche nozioni di filosofia platonica. Imbastì quindi un lungo viaggio che lo portò dall’Asia a Roma, per fare poi ritorno in Africa. In questo periodo senz’altro entrò anche in contatto con i culti misterici dell’area Mediterranea Orientale, che segnarono un ruolo fondamentale per la propria arte scrittoria e non solo.
Nei pressi dell’odierna Tripoli fu ospite di un caro vecchio compagno di studi, Ponziano. Si dà il caso che la madre di questa vecchia conoscenza fosse vedova da 15 anni e, conosciuto il giovane filosofo, vide in lui un possibile candidato come secondo marito, poiché fidato amico del figlio. Ponziano convinse Apuleio ad accettare, con ogni probabilità soprattutto per tutelare i beni e l’eredità della madre.
Il fato volle che il vecchio compagno di studi morisse a poca distanza dalle nozze con la madre. Apuleio quindi si trovò a gestire una situazione improvvisamente cambiata: marito di una benestante e facoltosa signora, perso l’unico membro della famiglia che aveva lavorato a favore di quella unione, vedeva già affilare le lame da parte di tutti i parenti e pretendenti di un’eredità che avrebbero voluto poter gestire e spartirsi in autonomia.
Apuleio era un guastafeste. Come potevano disfarsene?
Retorica ex machina: quando saper parlare ti salva
L’idea fu senz’altro brillante quanto irreale: accusarlo di magia e di aver stregato con filtri d’amore e pozioni ancestrali la povera Pudentilla, al fine di farsi sposare, accaparrarsi la dote tramite legale testamento e poi salpare per nuovi lidi.
Apuleio nel 158 d.C. aveva circa trent’anni, ma aveva già una buona esperienza di vita alle spalle e, soprattutto, un’ottima retorica. Venne convocato quindi a processo a Sabrata, presentandosi di fronte al proconsole Claudio Massimo. L’accusa di crimen magiae poteva significare la pena capitale, secondo le leggi vigenti (la Lex Cornelia de sicariis et veneficis). A chiamarlo in causa, il figlio minore di Pudentilla e fratello di Ponziano, Sicinio Emiliano, con lo sprone del resto della parentela.
Dicevamo, il nostro era un ottimo retore, e probabilmente si divertì anche un po’ nel preparare da solo la propria difesa.
Questa Apologia o Pro se de Magia è arrivata fino a noi nella forma rimaneggiata e messa per iscritto da Apuleio stesso a seguito del processo, presentandoci un’affilata orazione in cui, tra aneddoti e digressioni, l’autore scala la strada verso la propria assoluzione. È un documento di grande interesse, non solo per la letteratura latina, ma anche per lo studio della retorica giudiziaria coeva.
L’Apologia o Pro se de Magia
Grazie alla tradizione che ci ha fatto giungere la sua orazione, ci è possibile ricostruire alcuni dettagli riguardanti accusa e processo.
Sappiamo che ad Apuleio vennero attribuiti tre capi d’accusa, uno più bello dell’altro.
Primo capo d’accusa
Aver utilizzato tre specie di pesci come coadiuvanti in operazioni di magia.
Sappiamo anche quali pesci: il lepus marinus, il veretillum e il virginal.
Il primo è una velenosa lumaca di mare dal quale si estrae una sostanza mortale; le fonti dicono fosse la stessa utilizzata anche nientemeno da Nerone per sfrondare la schiera dei propri nemici. Trattasi quindi di magia venefica, volta a fare del male a qualcuno.
Il veretillum e il virginal sono introdotti da Apuleio come “frutti di mare dai nomi osceni”, perché recano il nome degli attributi sessuali di ambo i sessi. Facile intuire come, con due nomi così, queste due avessero la nomea di essere un potentissimo afrodisiaco. Trattasi in tal caso di magia erotica, tesa ad ammaliare qualcuno al punto di piegarlo al proprio volere sessuale.
La sua difesa
Apuleio si difende dicendo che certamente aveva pescato e sezionato questi pesci, ma che lo aveva fatto a scopo scientifico, per la sua opera dedicata alle creature marine, come già fecero illustri predecessori quali Arisostele, Platone, Teofrasto.
Secondo capo d’accusa
Il secondo capo d’accusa è di avere utilizzato un fanciullo per esperimenti di idromanzia:
Un ragazzo, da me incantato, senza gente dattorno, in un luogo segreto, con un piccolo altare e una lucerna e in presenza di pochi complici, appena compiuto l’incantesimo, sia caduto a terra, e poi si sia risvegliato senza più memoria dell’accaduto.
Sappiamo che il fanciullo in questione si chiamava Thallo, e che già da molto prima dell’arrivo di Apuleio era affetto da morbus comitalis, epilessia. Questo disturbo veniva spesso associato alle possessioni demoniache: una leccornia per gli accusatori del nostro oratore, che avrebbero potuto facilmente utilizzarla contro di lui con un pizzico di fantasia.
La pratica qui descritta è molto antica, tramandata anche in alcuni papiri greci di Preisendanz, e veniva utilizzata anche in situazioni ufficiali o come pratica divinatoria al fine di ricercare oggetti rubati o persone scomparse. Tramite questa pratica l’anima era indotta al distacco dal corpo fisico, per raggiungere il più alto stato di veggenza, e quindi riportare con sé delle verità altrimenti sconosciute.
La sua difesa
Ma naturalmente, se a codesti fatti bisogna prestar fede, dovrebbe questo non so quale antiveggente fanciullo, per quanto ne sento dire, essere scelto bello e intatto di corpo, ingegnoso e facondo, perché la divina potenza abbia in lui degna dimora, se veramente essa si introduce nel corpo di un ragazzo: oppure perché l’anima, appena desta, ritorni subito alla sua visione delle cose future, che bene impressa in lei e per nessuna dimenticanza offesa e affievolita, si ripresenti di nuovo senza ostacoli.
(Apologia, XLIII)
Apuleio, rifacendosi alle teorie platoniche, spiega come senz’altro potesse essere una pratica di suo interesse, ma se così fosse, non si sarebbe scelto un puer affetto da un male così potente, che avrebbe potuto facilmente compromettere la riuscita dell’incanto.
Non molto politically correct, ma avrà funzionato?
Terzo capo d’accusa
Il perseguire nella pratica della Negromanzia:
Si tratta di una certa statuetta che mi accusano di aver fatto fabbricare clandestinamente, con un legno sceltissimo, per i miei magici malefìci: una brutta e orribile figura di scheletro che io avrei il coraggio di venerare intensamente invocandolo col nome greco di basiléus.
(Apologia, LIX)
Come terzo punto, i familiari lo avevano accusato di venerare uno scheletro per attività negromantiche, fatto del tutto infondato e facilmente sfatabile.
La sua difesa
Apuleio, durante il processo, mostra al Proconsole la statuetta oggetto di scandalo spiegando che, in realtà, si tratta del dio Mercurio; un artefatto fabbricato da Cornelio Saturnino, presente all’udienza come testimone. Un dono dello stesso Ponziano al patrigno, prima della morte.
L’invettiva finale
Sfatati i tre capi d’accusa, Apuleio prosegue analizzando la causa alla base di tutta la questione che lo ha condotto in tribunale, davanti al Proconsole Claudio Massimo: la gelosia dei parenti, che si hanno visto minacciato il proprio facile accesso all’eredità di Pudentilla.
Nessun altro motivo, infatti, fuor che una vana gelosia, ha potuto suscitare contro di me questo processo e i molti anteriori pericoli di vita.
(Apologia, LXVI)
E spiega poi i fatti che portarono al matrimonio, dal principio. Un matrimonio contratto non per interessi personali ma, semmai, per l’interesse del caro amico Ponziano e della madre Pudentilla.
Poiché tutto nasceva dal testamento di Pudentilla, Apuleio chiede a un segretario presente di prenderlo affinché possa essere reso pubblico. Quello che vuole dimostrare è che la maggior parte dell’eredità è lasciata al figlio e a lui come marito, invece, solo una piccola parte.
Si rivolge così al figlio minore, l’accusante, chiedendo lui di leggerlo per tutti, ma questi si oppone.
Nel testamento, infatti, non v’era traccia della frode per la quale Apuleio venne chiamato alla sbarra: lui non aveva potere sulla dote della moglie, salvo il caso in cui le fosse accaduto qualcosa.
Su questa scia, l’orazione in sua difesa si conclude lasciando infine la parola al Proconsole Massimo Claudio, senza lasciarsi sfuggire la stoccata finale, dal tono ironico, verso lo stesso figliastro:
Perché la condanna del proconsole sarebbe per me cosa meno grave e temibile che il biasimo di un uomo tanto degno e illibato.
(Apologia, CIII)
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L’epilogo: dal non liquei all’eredità letteraria
Apuleio venne prosciolto con ogni probabilità con la formula del non liquei, quindi senza provata colpevolezza.
Sappiamo poco della sua vita privata dopo quel momento, non sappiamo con certezza neanche se dall’unione con Pudentilla egli ebbe dei figli. Certo è che fece ritorno a Cartagine, dove ricoprì importanti cariche sacerdotali rivestendo il ruolo di sacerdos provinciae, soprintendendo ai pubblici spettacoli e amministrando fondi per il culto.
Morì intorno al 180 d.C., ma la nomea di magus gli sopravvisse.
Lo stesso Sant’Agostino, suo conterraneo, ricorda nelle Epistole delle statue erette a Cartagine in onore del filosofo e dei ludi che egli organizzava, il tutto condito con una vena di rispettoso disprezzo sotto diversi profili, pur interessandosi della sua opera: al Santo d’Ippona dobbiamo proprio il ribattezzarsi dei Metamorphoseon libri XI in Asinus aureus.
Nelle lettere parla a lungo a Marcellino di Apuleio e della sua demonologia, definendolo fautore di arti magiche e mago ingannatore.
Sebbene la storia lo abbia poi totalmente prosciolto e mondato dalla fama immeritata di fattucchiere e negromante, sarebbe stata senza dubbio divertente la presenza di Sant’Agostino al processo contro Apuleio: chi l’avrebbe spuntata, a suon di retorica?
Bibliografia e link di riferimento
APULEIO, a c. di Carlo Landi, in Enciclopedia Italiana, 1929.
Apuleio, Apologia. Apulei Platonici pro se de magia, Vita e Pensiero, 2016.
Apuleio, Della magia, a c. di Concetto Marchesi, Sellerio, 1992.
A. Pennacini, P. Donini, T. Alimonti, A. Monteduro Roccavini, Apuleio letterato, filosofo, mago – Bologna, Ed. Pitagora, 1979.
J. Gimazane, La magia in Plinio il Vecchio e il suo confine con la cosmologia, la “religio”, la medicina e le credenze popolari.
U. Agnati, Leges Duodecim Tabularum. Le tradizioni letteraria e giuridica, Cagliari 2002.
XII Tabularum Leges, accessibile online su hs-augsburg.de.
Del Giudice F., Beltrani S., Nuovo dizionario giuridico romano, Napoli, Esselibri-Simone, 1995.
R.Paradisi, M. Mancini, E. Filograna, Saggi sull’argomentazione giuridica, Torino, Giappichelli Editore, 2017.
μάγος in Liddell & Scott, A Greek–English Lexicon, Oxford, Clarendon Press, 1940.
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