Presentiamo innanzitutto i luoghi dello svolgimento di questa storia: Roma, Fiume e Milano. Poi, introduciamo le dramatis personae: Giolitti, d’Annunzio e Mussolini.
Nella Capitale la “grana” fiumana era transitata dalla scrivania di Nitti, il dannunziano “Cagoja”[1], a quella di Giolitti, che presiedeva il suo ultimo ministero. Coadiuvato dal ministro degli esteri Sforza, lo Statista piemontese aveva sottoscritto, il 12 novembre 1920, il Trattato di Rapallo con il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
Nel trattato si era riusciti a disegnare, con un discreto successo poi ideologicamente misconosciuto, la frontiera orientale facendola coincidere con quella geografica: l’Italia si chiudeva allo spartiacque alpino, da Tarvisio al Monte Nevoso, costituendo Fiume in Stato libero, pur collegato territorialmente all’Italia. Inoltre veniva giuridicamente riconosciuta la riunione alla Patria della città di Zara, con le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa. Un protocollo segreto, però, si sanciva la divisione della città quarnerina dal fiume Eneo, con Porto Baross e Sussak che sarebbero rimaste in territorio jugoslavo.
Il Governo rinunciava così alla Dalmazia del Patto di Londra e a Fiume, che nel patto del 1915 non era compresa, ma allo stesso tempo veniva definita in termini soddisfacenti una controversia spinosa ottenendo quasi il massimo, data anche l’ostilità fin lì manifestata alle pretese italiane da parte degli Stati Uniti (pur rientrati nel loro emisfero dopo l’internamento di Wilson in una clinica psichiatrica) e soprattutto della Francia. Clemanceau aveva infatti detto alla conferenza di Pace: “Fiume è la luna”, con l’evidente scopo di farsi amica la nuova artificiale creazione versagliese, tenuta come lama al fianco di un’Italia che mostrasse ambizioni mediterranee e affricane.
Ciò premesso, possiamo scendere per un momento sulle sponde del Quarnaro, dove lo Stato libero, recentemente dotatosi di un proprio ordinamento costituzionale[2], andava esaurendo la propria spinta rivoluzionaria, degradando lentamente a fenomeno topico: il 15 di novembre, a pochi giorni dalla firma del trattato, il Comandante aveva incontrato l’ammiraglio Millo, governatore della Dalmazia e delle Isole curzolane, senza che però venisse concordata alcuna strategia organica[3].
In realtà la sorte dell’esperienza era segnata già dal suo principio, quando solo alcuni reparti sparsi avevano aderito al moto dannunziano, rimanendo l’esercito schierato in Istria, nella massima parte fedele agli ordini dello stato maggiore e del governo di Roma.
D’altro canto, nonostante un primo sostegno partito dalla pubblica sottoscrizione in favore di Fiume lanciata da “Il Popolo d’Italia” il 19 settembre 1919, i rapporti con il movimento fascista erano andati allentandosi, tanto che le federazioni fasciste della Venezia Giulia non avevano aderito alle continue sollecitazioni del Comandante volte a tentare di scatenare un moto insurrezionale che, partito da Fiume, andasse a estendersi all’intera Nazione. Con senso della realtà Francesco Giunta, capo del fascio triestino, aveva infatti rilevato come il Governo di Roma avrebbe potuto contare non solo sull’esercito lealista ma, soprattutto, su decine di migliaia di slavi che avrebbero approfittato della situazione incerta per un colpo di mano filo-jugoslavo.
Dal “covo” di via Paolo da Cannobbio a Milano Mussolini si rendeva ben conto di ciò e cercava di plasmare un partito politico dal complesso coacervo di tendenze che il 23 marzo 1919 si erano riunite in piazza San Sepolcro per dar vita ai Fasci di Combattimento.
La prima prova elettorale (16 novembre 1919) si era infatti rivelata una vera e propria debacle, tanto che lo stesso Capo era rimasto escluso dal parlamento ed era stato costretto, anziché inviare uomini a d’Annunzio, a domandarne, perché facessero da scorta ai candidati fascisti nelle piazze ostili; lo stesso “deputato di Fiume italiana”, Luigi Rizzo, il celebre comandante di MAS che si era visto ovviamente annullare l’elezione, era stato sconfitto nel collegio “legale” di Messina da un esponente di quel partito socialista che era divenuto grazie alla legge elettorale proporzionale la prima forza politica del paese.
Si trattava quindi, nel pensiero di Mussolini, di affrontare con spregiudicatezza una situazione complessa, tra le avvisaglie di quel “biennio rosso” che avrebbe insanguinato le strade dell’intera Nazione. Non si possono condividere invece le conclusioni di una certa storiografia più pettegola che accurata[4] secondo cui l’uomo di Predappio avrebbe sostanzialmente tradito d’Annunzio per il timore di vedersi costretto nel ruolo di suo secondo. In realtà, tra i due, il solo vero politico era Mussolini, che non avrebbe avuto alcuna difficoltà a ottenere una posizione egemone nel momento in cui si fosse dovuta gestire, appunto politicamente, una crisi di tipo rivoluzionario.
Era tuttavia ancora troppo presto per questo: gli Arditi erano stati smobilitati, il partito socialista, soprattutto nella sua corrente massimalista filo-sovietica, spadroneggiava, i Fasci latitavano in quasi due terzi del territorio nazionale. Ne derivava la necessità, per non essere sopraffatti dalle sinistre, di prendere atto della soluzione equa trovata a Rapallo. L’editoriale de “Il Popolo d’Italia, dichiarava infatti che “Con l’Italia allo Judrio, la Dalmazia era in pericolo di vita. Con l’Italia a Zara, gli italiani da Sebenico a Cattaro vedono spuntare l’alba di giorni migliori. Non è ancora l’ideale, ma nessuno può contestare che un passo prodigioso – a malgrado di tante avverse circostanze, alcune superiori alla volontà degli uomini – è stato compiuto.”[5]
Con queste parole chiare si approvava pertanto il trattato di Rapallo, seppur iuxta modum, dato che “i diritti dei popoli non si prescrivono”[6]. Si chiariva inoltre “con fascistica mentalità” che l’essenziale era non aggravare la crisi nazionale, dando “un minuto di respiro e di tregua a questo titano italico che ha dimostrato di non essere ignaro e che dal ‘15 al ‘18 ha compiuto gesta mirabili” e rinviando a tempi migliori “quando il tempestoso mare della politica nazionale sarà tornato in bonaccia, il problema della Dalmazia italiana da Zara a Cattaro”[7].
Così, tirando le fila e riportando a unità l’intreccio, per l’epilogo non rimane che tornare a Fiume, dove d’Annunzio aveva rigettato i consigli di Marconi e Giulietti, che avevano suggerito di accettare il trattato, così come la lettera di De Ambris del 15 novembre, con cui l’ideatore della Carta del Carnaro aveva tentato di aprire gli occhi al Poeta sul fatto che un accanita resistenza non avrebbe trovato consenso nell’opinione pubblica italiana così come nella stessa cittadinanza fiumana, che gli aveva sostanzialmente voltato le spalle[8].
Il Vate cercava di non apparire preoccupato: il 20 novembre ricevette Toscanini che, in omaggio al culto musicale costituzionalizzato dalla Carta quarnerina, avrebbe diretto a Fiume un grande concerto in favore dei poveri della città. Un sostegno che non compensava la defezione dell’ammiraglio Millo, il quale aveva ai primi di novembre dichiarato che non si sarebbe opposto agli ordini del governo, imbarcando per l’altra sponda dell’Adriatico un primo contingente di uomini, pur tra le proteste della cittadinanza zaratina. Così come insufficiente sarebbe stato il nobile ammutinamento dei cacciatorpediniere Espero e Bronzetti e della Torpediniera 68 PN che da Pola fecero rotta per il porto di Fiume.
Il 5 dicembre D’Annunzio avrebbe contestato la condotta del suo ex alleato con la celebre massima “Un uomo è perduto. Un uomo resta”, contenuta in un discorso che sarebbe stato stampato e lanciato su Zara.
Restavano però inascoltate le invocazioni ai fascisti triestini, che si mantennero fedeli alle direttive di Mussolini, secondo cui non ci sarebbe dovuti opporre con la forza agli ordini del generale Caviglia, vincitore di Vittorio Veneto.
La legge 19 dicembre 1920 n. 1778 aveva infatti ratificato il Trattato di Rapallo, approvato dal Senato il 17 precedente. Questi fatti, nella speranza di una soluzione concordata, furono personalmente comunicati con una lettera dal Caviglia al Poeta. Quest’ultimo, anziché prendere atto della completa compromissione della propria posizione, rispose con una sequela di ingiurie contro il governo, che furono pubblicate sulla “Vedetta d’Italia”, esplicitando urbi et orbi la propria intenzione di resistere con le armi.
Il 21 dicembre Fiume fu così assoggettata a un severo blocco militare sia per terra che per mare. Nel vuoto cadde l’estremo appello a Mussolini, affidato da d’Annunzio ad Arturo Marpicati, con cui domandava enfaticamente: “Sei tu pronto coi tuoi ad invadere le prefetture? Ad assaltare le questure?”. Richieste palesemente irrealizzabili, dato che lo stesso Mussolini era pedinato dalla polizia ventiquattro ore al giorno e temeva di essere arrestato in qualsiasi momento[9].
La Vigilia di Natale le truppe della 45a divisione, in ossequio agli ordini ricevuti, si attestarono sulla linea di demarcazione, ignorando gli inviti a una diserzione patriottica lanciati dagli aeroplani della Reggenza. Le truppe si mossero tanto rapidamente, senza dimostrare indecisione alcuna, da catturare alcuni presidi periferici e da provocare, come conseguenza non voluta, il fallimento dell’infiltrazione dietro le linee dell’autonomista fiumano Riccardo Zanella, che aveva intenzione di sobillare una rivolta contro il Poeta, definito da questi “il più grande delinquente dell’epoca”.
Sebbene durante la Vigilia vi fossero stati i primi caduti, un vero “Natale di Sangue” non ci fu. Per quel giorno Caviglia aveva infatti saggiamente ordinato una tregua momentanea. Già a Santo Stefano, infatti, la corazzata Doria fece fuoco contro il palazzo del Governo. Il sindaco Gigante e il delegato apostolico domandarono allora al Poeta di rassegnare le dimissioni per evitare una strage, il che fu messo per iscritto. Cinquantotto morti tra i due schieramenti furono il prezzo di questa resistenza.
Pur “dimissionato”, il Comandante sarebbe rimasto in città fino al 18 gennaio, pronunciando discorsi e levando il 31 dicembre un triste “alalà funebre” all’impresa[10]. Tramontava quindi l’astro del Vate abruzzese, prossimo ormai al ritiro gardesano. Sorgeva quello del Tribuno romagnolo, che vedrà le file delle proprie forze rinforzate e galvanizzate da molti di quei legionari che il 5 gennaio 1921 avevano iniziato ad abbandonare Fiume[11].
[1] La Realpolitik del lucano era stata spregiativamente liquidata dal d’Annunzio che aveva lui attribuito il nomignolo di “un basso crapulone senza patria, né sloveno né croato, né italianizzante, né austriacante che condotto dinanzi al Tribunale, interrogato dal Giudice […] giurò di non sapere nulla di nulla fuorché mangiare e trincare, sino all’ultimo boccone, sino all’ultimo sorso; e concluse con questa immortale definizione della sua vigliaccheria congenita: «mi non penso che per la paura.» Nitti era Cagoia, “dominedio rotondo, incoronato di carabinieri e di poliziotti […] foggiato di paura come certi idoli di tribù selvagge sono foggiati di sterco risecco […] Sia questo il suo nome da stasera e per sempre.” Rauti-Sermonti, Storia del Fascismo, 2, Verso il Governo, Roma, 1976, 45.
[2] Cfr., su questa stessa rivista, il contributo dell’A., Un governo schietto di popolo. A cento anni dalla Carta del Carnaro.
[3] V. Chiara, Vita di Gabriele D’Annunzio, Milano, 1978, 351.
[4] Lo scrive netto De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino-Milano, 2015, 545: “Il ruolo di Mussolini nell’impresa di Fiume è stato molto sopravalutato, sia dagli apologeti sia dagli avversari.”
[5] Mussolini, Ciò che rimane e ciò che verrà, in Il Popolo d’Italia, 272, 13 novembre 1920, VII, ora in Susmel (cur.), Opera omnia di Benito Mussolini, XVI, Firenze, 1955, 9.
[6] Ibidem.
[7] Id. Suprema grandezza, in Il Popolo d’Italia, 277, 19 novembre 1920,VII, ora in Susmel (cur.), op et loc. cit., 7. Al netto dei giudizi finali, che qui non interessano, va resa testimonianza al fatto che terrà fede a questa promessa quando nel 1924 otterrà l’annessione di Fiume con il trattato di Roma (che gli varrà il collare dell’Annunziata) e nel 1941 quando, dopo la campagna jugoslava costituirà le nuove provincie di Spalato e Cattaro.
[8] Uno spaccato della situazione interna di Fiume nel periodo dannunziano, con documentazione d’archivio inedita, è offerta dall’interessante scritto di Sforzin, La chiesa cattolica a Fiume durante l’occupazione dannunziana, Tesi di laurea in scienze politiche, Padova, A.A. 2013-2014.
[9] Chiara, Vita, cit., 354. Mussolini “disse chiaramente al capitano Marpicati che il suo poeta era grande ma pazzo”.
[10] Nitti commenterà acidamente che aveva lasciato la città come tutte le proprie donne: in miseria.
[11] Rinviamo, in merito al contributo ideologico dato dall’impresa fiumana al fascismo a quanto citato in n. 1
© Riproduzione Riservata