69. Cara Maestra (1906)
Siamo nel 1906. Un gruppo di dieci maestre di scuola tentano di vedersi riconosciute “per via giudiziaria” un diritto negato alle donne: quello di votare.
L’Unità d’Italia si era già compiuta da quasi cinquant’anni ma nessuna delle forze politiche mostrava interesse alla questione. La richiesta si animò infatti “dal basso”, a partire proprio dal mondo della scuola, andato rapidamente femminilizzatosi dopo l’istituzione delle scuole “normali” (cioè le vecchie magistrali) nel 1859.
Il 26 Febbraio 1906 niente meno che la stessa nota pedagogista Maria Montessori (una delle prima affermatrici in Italia dell’emancipazione femminile, tanto da essere una delle prime donne a conseguire la laurea, nel 1886), aveva lanciato sulla stampa un proclama in cui esortava le donne a iscriversi alle liste elettorali delle elezioni politiche. Le numerose richieste pervenute vennero accolte da solo undici Commissioni Elettorali (Mantova, Caltanissetta, Imola, Palermo, Venezia, Cagliari, Ancona Firenze, Brescia, Napoli, Torino), ma queste decisioni vennero tutte ribaltate in secondo grado dalle competenti Corti di Appello.
Vi fu però una eccezione, data dall’incontro di dieci maestre coraggiose con quelle che è stato probabilmente il più grande giurista italiano fra otto e novecento.
- 69. Cara Maestra (1906)
- 67. La tosatura di una donna fascista (1947)
- 65. L’Otto Settembre (1943)
- 70. L’oro di Dongo (1947)
- 58. Altiero Spinelli, Ventotene e l’Europa (1928)
Guardiamo alle maestre, ricordiamole una ad una: Carola Bacchi, Palmira Bagaglioli, Giulia Berna, Adele Capobianchi, Giuseppina Graziola, Iginia Matteucci, Emilia Simoncioni, Enrica Tesei, Dina Tosoni di Senigallia, più Luigia Mandolini-Matteucci di Montemarciano. La loro richiesta venne accolta il 28 Maggio 1906 dalla Commissione Provinciale di Ancona. Di età ed estrazione sociale diversa, chi sposata, chi nubile, tutte condividevano una vita fatta di supplenze e di precariato, di viaggi in località sperdute per insegnare. Non si possono definire attiviste politiche in senso stretto, ma erano di sicuro assai combattive.
Il loro ragionamento giuridico era semplice, quasi banale, ma cristallino: l’art. 24 dello Statuto Albertino riconosceva che “tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo e grado, sono eguali dinnanzi alla legge e tutti godono ugualmente i diritti civili e politici”. Le maestre erano maggiorenni e avevano i titoli di studio richiesti dalla legge elettorale del 1888, erano regnicoli: erano solo donne.
Dopo l’accoglimento della Commissione Provinciale, il Procuratore del Re fece ricorso, come in tutti gli altri casi, alla Corte d’Appello. Qua si trovò di fronte un collegio presieduto da Lodovico Mortara. Meriterebbe un approfondimento da solo. Agnostico ma figlio del rabbino Mordekai di Mantova, appartenete alla Sinistra Storica quando tutta la comunità israelita era per la Destra Storica, massimo esponente delle cattedre di Ordinamento Giudiziario, Diritto Costituzionale e Procedura Civile in Italia, nel 1903 passò dalle aule di università a quelle dei tribunali per mettere in pratica quanto raccomandava. Fece pure una incursione nella politica e da Ministro della Giustizia nel 1917, propose una legge volta ad eliminare l’odiosa autorizzazione maritale per le donne che volessero stipulare negozi giuridici.
Al giudizio si approcciò scevro di pregiudizi, armato solo di interpretazione ed ermeneutica. Nell’intervista resa dopo la sentenza infatti dichiarò la sua personale contrarietà al voto alle donne, ritenute ancora immature per questa delicata funzione. Ed è vero che in relazione alla decisione presa dichiarò che per esaminare il testo della legge si era “dovuto spogliare di ogni prevenzione personale”. Un caso esemplare del difficile dovere del giudicare, ma pure di come ciò debba essere adempiuto.
Contro ogni previsione, Mortara confermò la decisione della Commissione Elettorale. Se nel 1906 fosse improvvisamente caduto il Governo di Giolitti, alle elezioni politiche avrebbero potuto votare milioni di elettori maschi e… dieci donne. Il sogno durò però poco, perché la Procura fece ricorso in Cassazione, che il 20 Maggio annullò la sentenza di Appello. Ne abbiamo già parlato.
Così, solo dal luglio 1906 al maggio 1907, mesi nei quali dieci donne, e solo dieci, rimasero iscritte nelle liste degli aventi diritto al voto in Italia.
Merita guardare ai ragionamenti giuridici dietro le due sentenze: per Mortara:
se vi può essere un dubbio interno l’intenzione del legislatore, questa va risoluto nel senso della libertà, trattandosi appunto di determinare l’estensione di un diritto politico che qualcuno definì pure diritto naturale, e che, sotto questo profilo, quasi nessuno contesta appartenere a tutti i soggetti capaci, senza distinzione di sesso.
Prevale la logica del diritto naturale e dell’inclusione.
Per la Cassazione invece prevale la logica dell’esclusione, con una argomentazione esattamente opposta: data la sua specialità, il diritto di voto richiedeva una espressa previsione, dal momento che la regola generale era pur sempre quella della esclusione delle donne dai diritti politici. La “naturalità” era l’esclusione implicita.
In ogni caso, il primo tratto di strada, intrapreso dalle maestre marchigiane, raggiunse comunque coraggiosamente un traguardo. Il cammino sarebbe stato (e lo è ancora) lungo e difficile. Ma merita oggi, come meritava allora, che ci si impegni, per una ragione di civiltà, e di giustizia.
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