Netflix ci ha regalato nell’anno della pandemia da Covid-19 un prodotto per cui varrebbe la pena rimanere a casa: Il processo ai Chicago 7. Una produzione molto travagliata e immersa nel teso clima delle Presidenziali 2020 e che si è affidata all’estro di un cast eccellente: dal sempre vulcanico ma anche ironico e drammatico Sacha Baron Cohen (l’istrionico “Borat”) ad attori già premiati come Eddie Redmayne, Frank Langella e Joseph Gordon-Levitt.
La storia narra della farsesca e tragicomica vicenda processuale di sette leader dello YIP (Youth International Party) e di vari movimenti pacifisti di protesta contro la guerra del Vietnam (tra cui la Democratic Society), più il capo delle allora Black Panthers, il movimento afroamericano di matrice comunista per la rivolta armata contro la segregazione razziale, Bobby Seale. Costoro ricevettero dal gran jury federale di Chicago capi di imputazione per conspiracy (associazione a delinquere) e per istigazione alla sommossa, per la violazione del cd. “Anti-Riot Act” a causa dei disordini ai margini della Convention dell’agosto 1968 a Chicago del Partito Democratico statunitense. Quest’ultima accusa, che poi porterà alla condanna di cinque attivisti, sarà il vero petitum della saga, portando a una discussione molto approfondita negli anni a venire sui limiti costituzionali della libertà di parola nel particolare consesso della protesta e della propaganda politica.
Discussione oggi più che mai aperta: l’Anti-Riot Act, promulgato nello stesso 1968 a seguito dei disordini susseguenti all’assassinio di Martin Luther King, si trova proprio in questi giorni nel mirino delle critiche vista la recente stagione di tensione sociale negli USA.
Le accuse per i sette originarono a seguito dei violenti scontri tra polizia di Chicago, Guardia nazionale e manifestanti durante i giorni della Convention nei pressi dell’International Amphitheatre di Chicago: importante momento politico in vista della corsa alle Presidenziali di quell’anno, poi vinte da Richard Nixon. Venne imposto dalla municipalità di Chicago il coprifuoco nella zona adiacente alla Convention e fu imponente il dispiegamento delle forze dell’ordine: morì il diciassettenne Dean Johnson il 22 agosto durante una provocazione verso le forze di polizia. Ma il fatto più grave si registrò nella notte del 28 agosto, quando la polizia e la Guardia Nazionale intervennero con lacrimogeni e manganelli nei confronti di 10mila manifestanti accampati presso il vicino Grant Park. Il ripiegamento dei manifestanti al di fuori dal parco spostò il conflitto nei pressi della centralissima Michigan Avenue e dell’Hotel Hilton, dove soggiornavano molti delegati. La macelleria messicana che ne susseguì si concluse con l’accusa verso i sette leader più Bobby Seale (che in realtà non partecipò ai disordini) per i due reati citati e l’inizio del processo presso la U.S. District Court for the Northern District of Illinois di Chicago nel marzo 1969.
La pellicola diretta da Aaron Sorkin rende bene i veri protagonisti dell’agone giudiziario, che non sono rappresentati né dall’accusa e né dagli imputati (che si renderanno protagonisti, comunque, di importanti momenti di ironia e di drammaticità), ma dal Giudice del processo, Julius Hoffman (omonimo dell’imputato Abbie Hoffman, interpretato da Baron Cohen e la cui omonimia porterà a molte situazioni comiche nella pellicola), e dall’avvocato dei sette, William Kunstler. La dialettica tra l’avvocato della difesa e il giudice del processo è uno scontro titanico tra una visione di “politica del diritto” fortemente conservatrice (Hoffman) e un’idea progressista in linea con le contestazioni studentesche, le idee pacifiste e le rivendicazioni razziali del tempo (Kunstler). Il film evidenzia lo scontro incentrando molto la vicenda sui continui battibecchi tra i due, fomentati dagli imputati e dall’accusa.
Hoffman venne aspramente criticato dall’opinione pubblica e dalla dottrina a commento della sentenza di primo grado per la sua condotta processuale nella direzione delle cross examinations e per il trattamento riservato a Bobby Seale. In generale, di Hoffman venne poi diffusa l’immagine dell’uomo conservatore e bigotto con sentimenti di disprezzo verso la componente afroamericana. Infatti, nei confronti del leader delle Pantere Nere, Hoffman ordinò che fosse imbavagliato e legato durante le udienze come risposta alle continue e accese richieste (condite anche da insulti rivolti al giudice) di Seale di rinviare le udienze per far sì che venisse rappresentato dal suo legale di fiducia (assente per motivi di salute). Nei confronti degli imputati mantenne un atteggiamento di aperta ostilità e nel dialogo con la giuria popolare proibì alle parti (in particolare alla difesa) di intervistare i papabili giurati con domande sulla guerra in Vietnam e sul tema della segregazione razziale in modo da testarne il grado di imparzialità di giudizio (le cd. Voir dire questions o esame preliminare dei giurati): un errore che gli si rivelerà fatale contravvenendo a uno dei canoni fondamentali del diritto alla difesa dei cittadini in un processo con giuria popolare.
D’altro canto, Kunstler si rese protagonista di una condotta difensiva volta sia a smontare le accuse processuali e a resistere agli ostruzionismi di Hoffman, sia a mettere in luce la condotta bigotta e razzista del giudice di fronte all’opinione pubblica, in modo da poter promuovere la protesta non-violenta e denunciare il persistere dei pregiudizi razziali. Kunstler ai tempi del processo aveva già acquistato la fama del cd. “radical lawyer”, l’avvocato sostenitore dei movimenti di protesta non violenti. Era conosciuto come il legale dei leader di lotta per i diritti umani del Paese, avendo difeso personalità come Martin Luther King, associazioni dei nativi Americani e Jim Morrison (accusato di atti osceni in luogo pubblico durante un noto concerto a Miami nel 1969).
Le continue frecciate a tratti ironiche e a tratti diffamatorie scambiate tra gli imputati e Kunstler e il giudice Hoffman contribuirono a dare un colore più disteso alla vicenda che rimase una delle pagine più nere della storia giudiziaria americana. Infatti, le stesse condanne inflitte a cinque dei sette furono parecchio emblematiche: cinque anni di carcere ciascuno per l’accusa di violato l’“Anti-Riot Act”. In più, Kunstler ricevette ben 24 incriminazioni per oltraggio alla Corte durante il processo.
Le responsabilità nell’impropria conduzione processuale di Hoffman vennero accertate dal settimo distretto della Corte di Appello federale degli Stati Uniti che annullò la sentenza di primo grado di condanna per i cinque leader. In particolare, il giudice d’appello contestò al collega di primo grado le improprie restrizioni fatte alla difesa durante la scelta dei giurati e le irregolarità nelle parole di biasimo verso Kunstler e gli imputati, visto anche lo sproporzionato numero di addebiti di oltraggio alla Corte verso il radical lawyer. Molto diretto il giudizio dei magistrati d’appello sull’operato del collega: “[…] deprecatory and often antagonistic attitude toward the defense.”
Nel 1982 la United States District Court espresse parole di biasimo verso l’operato di Julius Hoffman durante il processo ai Chicago 7 e fece sì, sulla base della motivazione ufficiale dei sopraggiunti limiti d’età, che non venisse più assegnato nessun caso al giudice.
L’Anti-Riot Act è tornato prepotentemente alla ribalta dopo il recentissimo assalto all’U.S. Capitol Hill di Washington durante la seduta del Congresso per la certificazione dei risultati delle Presidenziali 2020, vinte da Joe Biden. Saranno interessanti gli sviluppi, proprio perché, al di là della gravità dell’evento in sé, il Presidente uscente Donald J. Trump potrebbe ritrovarsi tra i responsabili principali della violazione della legge in questione e coinvolto nella procedura di impeachment ai sensi del 25esimo emendamento della Costituzione americana.
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