Dopo la Rivoluzione francese le donne ottennero il diritto di lavorare. Ma c’era un ostacolo: per indossare i pantaloni serviva il permesso della Polizia. Una legge più dura a morire di quanto non ci si possa aspettare.
Siamo al tempo di Napoleone. La Rivoluzione ha cambiato molte cose e le donne ambiscono a poter fare qualcosa di più che tenere salotti: magari addirittura votare. Per il momento, però, si sarebbero accontentate di poter lavorare liberamente: d’altronde tutti gli ostacoli in proposito erano stati tolti dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino e dall’abolizione della feudalità.
Ma la situazione faceva arricciare il naso a molti: donne che lavorano? E dove andremo a finire! Gli stipendi sono già bassi, se anche le donne iniziano a fare le operaie o le artigiane si abbasseranno ancora di più!
Dunque, in quello spirito di autoritarismo subdolo che fu il governo di Napoleone, si pensò a una soluzione surrettizia: non si proibiva alle donne di lavorare… ma si impediva loro di farlo praticamente.
Così il 17 novembre dell’anno 1800 venne approvato uno speciale provvedimento, intitolato “Decreto riguardo il travestitismo delle donne”. La disposizione era semplice:
Ogni donna che desidera vestirsi come un uomo o indossare i pantaloni deve andare alla Polizia e ottenere il permesso di farlo.
Chiaramente era impossibile lavorare in una fabbrica o in una officina indossando un vestito o una lunga gonna!
C’era anche un valore simbolico: la rivoluzione aveva reso un fatto politico l’indossare i pantaloni lunghi a dispetto delle culotte a mezza gamba degli aristocratici. Proibendo alle donne di indossare i pantaloni di fatto le si escludeva anche dalle schiere dei rivoluzionari.
Il provvedimento rimase applicato nella società francese per molto più di quanto si possa immaginare, infatti venne emendato nel 1892 e poi nel 1909 per permettere alle donne di indossare i pantaloni “se stanno tenendo i manubri di una bicicletta o le redini di un cavallo”.
Durante il XIX secolo ogni donna che osava indossare i pantaloni era considerata una ribelle. Rosa Bonheur era un’artista anticonformista ma nel 1852 chiese il permesso necessario per indossare i pantaloni per poter andare al mercato dei bovini e degli ovini mentre si specializzava in dipinti di animali. La romanziera George Sand scelse di indossare abiti maschili in pubblico ma senza permesso. Trovava i pantaloni più comodi e scoprì pure che così poteva accedere più facilmente a luoghi in cui le donne non erano autorizzate.
Marie-Rose Astié de Valsayre era un’infermiera e musicista e sosteneva i diritti delle donne. Oltre a fondare la Lega delle Donne nel 1889 e organizzare una campagna per la parità di salario, nel 1887 presentò una petizione ai parlamentari per il diritto delle donne di indossare i pantaloni, cosa che non ebbe seguito. Nel 1895 fece una campagna contro un progetto di vietare alle donne di indossare pantaloni tranne quando erano in bicicletta.
All’inizio del XX secolo era ancora considerato scandaloso che le donne indossassero i pantaloni. Madeleine Pelletier è stata la prima psichiatra donna in Francia e una delle prime femministe a lottare per l’emancipazione delle donne. Portava i capelli corti ed era nota per il suo “travestimento”. Sosteneva che indossava pantaloni e si vestiva da uomo per prendere le distanze dalla femminilità.
Durante le due guerre mondiali, quando le donne iniziarono ad assumere il lavoro degli uomini che combattevano al fronte, iniziarono per necessità ad indossare anche a indossare abiti più pratici. Ma nell’alta società indossare pantaloni era una cosa ancora giudicata oltraggiosa. Fu solo negli anni ’60 che i pantaloni da donna iniziarono a essere accettati e stilisti come Yves Saint Laurent cominciarono a includerli nelle collezioni che sfilavano in passerella. Nondimeno, ancora nel 1978 alla deputata Chantal Leblanc (del Partito Comunista) venne rifiutato l’ingresso all’Assemblea Nazionale per i suoi pantaloni di velluto a coste.
Nel luglio 2012 il senatore della Côte-d’Or, Alain Houpert (I Repubblicani) ha chiesto in Parlamento l’abrogazione del decreto del 1800, che era stato ignorato per anni ma rimaneva ancora ufficialmente in vigore. La sua richiesta è stata debitamente eseguita dal Ministro per i diritti della donna (Najat Vallaud-Belkacem, Partito Socialista) il 31 gennaio 2013, perché il decreto «è incompatibile con i principi di uguaglianza tra donne e uomini».
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