Moriva nel 1954 Robert H. Jackson. Noto ai più per aver assolto l’incarico di Chief Prosecutor al Processo di Norimberga, Jackson è stato uno dei giuristi più celebri e celebrati negli Stati Uniti: l’unico ad aver occupato la carica di Solicitor General, prima, di Attorney General, poi, e di Associate Justice della Corte suprema, infine (mancando, per un soffio, la promozione a Chief Justice) – il tutto senza aver mai conseguito una laurea in giurisprudenza.
Durante il suo mandato come giudice della Corte suprema (dal 1941, quando fu nominato da Franklin Delano Roosevelt, alla data della sua morte), Jackson si guadagnò una stima trasversale per la sua acuta intelligenza e per la agilità della sua penna, sempre chiara e penetrante, ma mai priva di profondità e sistematicità. Alcune delle sue sentenze sono a tutt’oggi citatissime, tanto per i principi di diritto quanto per le frasi quasi aforistiche che lì si ritrovano. Qualche esempio.
In Brown v. Allen (1953), ironizzando sull’idea che la Corte suprema dovesse (o anche solo potesse) correggere qualsiasi decisione pronunciata da una corte inferiore, Jackson osservò che essa non «è finale perché infallibile, ma è infallibile solo perché finale». In West Virginia State Board of Education v. Barnette (1943), con cui la Corte statuì l’incostituzionalità del saluto obbligatorio alla bandiera americana perché in violazione del Primo Emendamento, egli chiarì, in modo eloquente, il senso di darsi un Bill of Rights, osservando che quest’ultimo serve «a sottrarre certe materie dalle vicissitudini della controversia politica, per porle al di là della portata delle maggioranze […]. Il diritto di ciascuno alla vita, alla libertà e alla proprietà, alla libertà di parola, di stampa, di culto e di riunione, e altri fondamentali diritti non possono essere sottoposti al voto; non dipendono dal risultato di alcuna elezione».
D’altro canto, in Terminiello v. City of Chicago (1949), dissentendo dai suoi colleghi, Jackson rilevò i rischi che derivano da un presidio delle libertà costituzionalmente garantite che non tenga conto di concorrenti e altrettanto rilevanti interessi, quale ad esempio la tutela dell’ordine pubblico: «La scelta non è tra ordine e libertà. È tra libertà nell’ordine e anarchia senza entrambi. Esiste il pericolo che, se la Corte non bilancerà la sua logica dottrinaria con un po’ di pratico buonsenso, essa finirà per trasformare il Bill of Rights in un “patto suicida”». In Youngstown Sheet & Tube Co. v. Sawyer (1952), con cui la Corte ha fissato importanti principi in tema di limitazione degli emergency powers presidenziali, egli chiosò che un simile potere, se esercitabile anche in assenza di espressa previsione di legge, come sostenuto dal Governo, «o non ha principio, o non ha termine. Se esiste, non può essere sottoposto ad alcun vincolo legale. Non sono preoccupato dal fatto che ciò ci farà precipitare direttamente in una dittatura, ma di certo è un passo in quella errata direzione».
E in una delle sue ultime sentenze, Shaughnessy v. United States ex rel Mezei (1953), Jackson intonò uno dei peana più famosi alla legalità procedurale come efficace difesa dei diritti individuali: «soltanto l’uomo comune senza educazione o l’avvocato ciarlatano potrà sostenere che la procedura non è importante. La correttezza e la regolarità procedurali sono parte dell’irrinunciabile essenza della libertà. Rigorose leggi possono essere sopportate, se applicate in modo equo e imparziale. D’altronde, se costretti a scegliere, si potrebbe ben preferire di vivere sotto le leggi sovietiche amministrate in buona fede dalle nostre tradizionali procedure che sotto le nostre leggi applicate secondo le procedure sovietiche».
Nel 1945, il Presidente Truman nominò Jackson, in rappresentanza degli Stati Uniti, come Chief Prosecutor nel cosiddetto Processo di Norimberga. Ritenendo che quella fosse l’occasione per consolidare la propria statura pubblica, Jackson accettò, senza però dimettersi dalla posizione di Associate Justice. La scelta fu severamente criticata, in quanto si ritenne del tutto inopportuno che un giudice in carica si ritagliasse lo spazio per svolgere le funzioni di pubblico ministero, salvo poi ritornare, al termine di quell’incarico, nuovamente alla cattedra giudiziale. Noncurante delle critiche, Jackson si allontanò per più di un anno da Washington, dedicandosi anima e corpo all’accusa dei nazisti: l’esperienza ebbe le sue difficoltà (su tutte, la pessima gestione, che molti gli rimproverarono, dell’interrogatorio di Göring), ma anche le sue soddisfazioni (si pensi al suo apprezzatissimo discorso d’apertura, in cui si affermò che il fatto che le Potenze vincitrici della guerra mondiale avessero scelto la via giudiziaria e non l’esecuzione sommaria dei gerarchi nazisti fosse stato «uno dei più importanti tributi che il Potere abbia mai riconosciuto alla Ragione»).
Il 22 aprile 1946, durante la permanenza del Nostro a Norimberga, morì Harlan Fiske Stone, Chief Justice degli Stati Uniti. Era fatto notorio, tra gli addetti ai lavori, che Roosevelt avesse promesso a Jackson la successione all’ambita poltrona centrale della Corte suprema, nel momento in cui essa si fosse liberata: ma FDR era morto l’anno prima e Truman non era così sicuro di essere vincolato dalle promesse del proprio predecessore. L’indecisione presidenziale fu fatale: sui giornali si pubblicò l’indiscrezione che il giudice Hugo Black (vedi il #giornopergiorno del 25 settembre) avesse minacciato di dimettersi nel caso in cui Jackson fosse stato “promosso” (i due erano avversari irriducibili); in risposta, Jackson rilasciò un messaggio pubblico in cui si metteva in dubbio l’integrità morale di Black. Lo scontro tra i due fu feroce (e lasciò una macchia sulla reputazione istituzionale della Corte) e Truman si tirò fuori dalla contesa nominando alla Chief Justiceship Fred M. Vinson. Ritornato in patria, e assai amareggiato, Jackson nondimeno continuò a servire con grande energia alla Corte fino alla sua morte. L’ultimo servizio compiuto fu votare a favore della declaratoria di incostituzionalità della segregazione razziale in Brown v. Board of Education (1954).