Fino a che livelli possiamo e dobbiamo scomodare la Giustizia? Ma anche, fino a che punto il diritto è in grado di regolare le beghe più infantili? Siamo qui riuniti per scoprirlo.
L’anno è il 1927, il luogo è Bronte. Sì, esatto, quella famosa in Sicilia.
Da tempo esiste una “controversia” fra i vicini di casa Tommaso Spitaleri e Concetta Meli. Questa infatti “da molti anni” aveva piazzato un chiodo sul muro della casa del vicino e lo aveva utilizzato per tendere un fil di ferro. Il fine era presto detto, “sciorinare all’aria e al sole i panni“.
A Tommaso la cosa non andava giù. Un giorno sale sul letto di Concetta e strappa il chiodo affisso sul muro della sua casa.
Non chiedetemi perché non abbia dovuto rispondere di fronte a un giudice per violazione di domicilio, la sentenza in proposito è silente. E non domandatemi neppure qual è la dinamica per cui Tommaso sia dovuto andare a casa di Concetta per strappare un chiodo sul suo muro. Non ipotizzo niente, lascio a voi il tentativo di tappare i buchi.
Com’è come non è, Spitaleri si trova a dover rispondere di fronte al Pretore di Bronte di esercizio abusivo delle proprie ragioni, articolo 235 del Codice Zanardelli allora vigente:
Chiunque, al solo fine di esercitare un preteso diritto, nei casi in cui potrebbe ricorrere all’Autorità, si fa ragione da sé medesimo, usando violenza sulle cose, è punito con la multa sino a Lire 500.
I giudici di ogni ordine e grado si trovano tutti d’accordo che ci si fosse di fronte a un atto di violenza: “nella specie non può sorgere dubbio che lo strappamento del chiodo e del filo costituisca di per sé violenza“. Il problema seguente dunque era: si doveva ricorrere all’Autorità per un chiodo?
La risposta: sì.
Per la Corte di Cassazione Concetta Meli poteva probabilmente vantare sul muro del vicino una servitus tigni immittendi, cioè il diritto di appoggiare una trave al muro confinante, “che poi obbiettavasi sovra una qualsivoglia delle svariate forme di appoggio o di immissione di un materiale qualsiasi”. Insomma, per la Suprema Corte quel chiodo forse poteva essere affisso. Come tutti i quesiti generali di diritto bisognava poi andare a verificare nel caso di concreto (un quesito di diritto ha sempre come risposta “dipende”), ma sicuramente qualcuno doveva effettuare quella verifica e quel qualcuno era un giudice.
Tommaso Spitaleri non poteva togliere quel chiodo dal suo muro senza prima aver interrogato l’Autorità se ci potesse stare o meno. Per la Cassazione è irrilevante che in oggetto ci fossero la tutela del diritto di proprietà e “un fatto di mera tolleranza rientrante in quei rapporti di buon vicinato che per la loro precarietà non possono trovare protezione nella legge civile”: Spitaleri doveva chiedere a un giudice se poteva rimuovere quel chiodo prima di farlo.
E dunque, per questi motivi, la Cassazione rigetta il ricorso di Tommaso e conferma le condanne dei due gradi precedenti.
© Riproduzione Riservata