La vicenda della preparazione del Codice Civile fu assai lunga e complessa. Una prima fase ebbe per protagonista Vittorio Scialoja, al quale nel 1923 venne affidata la Presidenza della Commissione incaricata per la revisione del Codice, disposta con legge delega, rinnovata due anni più tardi. Scialoja intendeva riformare il Codice del 1865 senza modificarne l’impianto di base, ma perfezionandone la formulazione anche alla luce della dottrina più autorevole; era inoltre favorevole ad una normazione unitaria del diritto civile italiano e francese, in vista della quale nel 1927 era stato predisposto un progetto congiunto per la materia delle obbligazioni, con innovazioni importanti in tema di contratti, tra le quali l’introduzione di un’azione generale di lesione e di un’azione di risarcimento per abuso di diritto. Il Progetto però non ebbe seguito. Il progetto preliminare del Libro I del Codice (persone e famiglia) fu pubblicato nel 1930; ad esso avevano lavorato attivamente anche professori di diritto romano, oltre che civilisti. Seguirono i progetti del Libro delle successioni (1936) e del Libro delle proprietà e dei diritti reali (1937).
Alcune scelte di fondo erano ormai state compiute: tra esse la scelta di non introdurre nel Codice una parte generale, che invece il Codice Tedesco aveva adottato distaccandosi dal modello napoleonico; la sintetica disciplina delle persone giuridiche, integrata con la figura delle associazioni non riconosciute, destinata a divenire una preziosa valvoladi sicurezza dell’autonomia privata e uno strumento giuridico polivalente, utilizzato più tardi per partiti e sindacati; la reintroduzione del principio della reciprocità del diritto internazionale privato.
Il Codice migliorava la posizione successoria del coniuge superstite, che in presenza di figli restava tuttavia semplice usufruttuario (art. 581), e quella dei figli naturali; introduceva l’istituto dell’affiliazione; e potenziava il ruolo del giudice nella tutela dei minori. Quanto al diritto di proprietà venivano introdotti numerosi nuovi limiti per la tutela di interessi pubblici, ad esempio in tema di riordino delle proprietà fondiarie (art. 846), di espropriazione ai fini del rimboschimento (art. 867), di vincoli idrogeologici (art. 866), di tutela dei beni storici e artistici (art. 839), di immissioni (art. 844).
La formazione del Libro delle obbligazioni è avvenuta in più fasi: al Progetto italo-francese di un Codice delle obbligazioni e dei contratti, ripresentato nel 1936, seguì nel Maggio 1940 un Progetto ministeriale in 837 articoli peraltro ancora limitato alle sole obbligazioni civili, sostituito alla fine del medesimo anno 1940 da un nuovo Progetto in 1019 articoli nel quale era ormai inclusa la materia delle obbligazioni commerciali: da poche settimane era stata presa, per iniziativa di Filippo Vassalli e con l’attivo supporto del ministro della Giustizia Dino Grandi, la storica decisione di fondere in un unico codice i due rami del diritto privato, ripartendo la materia commercialistica tra il Libro IV (principi generali, contratti civili e commerciali, titoli di credito) e il Libro V (impresa, società, contratto di lavoro, invenzioni industriali, concorrenza).
Veniva a cadere la doppia disciplina dei contratti quali la vendita, il mandato, il mutuo, la società, la fideiussione, la transazione. Come Cesare Vivante aveva lucidamente auspicato cinquant’anni prima (ma più tardi aveva anch’egli mutato avviso), attraverso l’adozione di un codice unico delle obbligazioni le regole più efficaci e più funzionali ad un’economia di scambio, proprie del diritto commerciale, hanno in genere affermato la loro prevalenza rispetto a quelle tradizionali del diritto civile. La disciplina delle società venne staccata dalla materia delle obbligazioni e collocata nel Libro V, intitolato dapprima “dell’impresa e del lavoro” e alla fine semplicemente “del lavoro”. Quanto agli organi sociali, venivano riconosciute l’assemblea degli obbligazionisti (art. 2415) e le assemblee speciali (art. 2376); si modificava il regime di responsabilità degli amministratori, ora esclusa riguardo alle attribuzioni del comitato esecutivo e degli amministratori delegati (art. 2392.1); il collegio sindacale era disciplinato sulla base delle leggi di riforma del 1936-1937, con almeno un componente scelto tra i revisori ufficiali dei conti o gli iscritti agli albi professionali. Di particolare rilievo era la limitazione della competenza dell’assemblea, quanto alle gestione della società, alle some materie riservate dall’atto costitutivo o ad essa sottoposta dagli amministratori (art. 2364.4): questa norma, che segnava il tramonto della concezione della “democrazia” assembleare, era derivata dal Progetto Asquini del 1940, che a sua volta traeva dalla riforma del diritto societario tedesco del 1937.
Sul fronte del diritto del lavoro, la tipologia accolta nel Codice superava infine l’impostazione datata del Codice del 1865, che si poneva ancora nell’ottica della locatio operarum di ascendenza romanistica. Era un progresso innegabile, anche se la disciplina del contratto di lavoro subordinato – ispirata in parte alle teorie di Lodovico Barassi, in parte ai principi corporativi – assegnava poi al datore di lavoro un ruolo discrezionale amplissimo nel decidere la fine del rapporto contrattuale, in un contesto nel quale la disparità di posizioni tra datori di lavoro e lavoratori subordinati risultava macroscopica per il divieto (tra l’altro) del diritto di sciopero nel regime corporativo fascista.