Azzardo.
Il termine deriva dall’arabo az-zahr che vuol dire dado, in latino alea. È dunque al gioco dei dadi che si riconduce l’origine etimologica del concetto di scommessa, di puntata su un risultato incerto, rischioso.
Gli attenti frequentatori di queste pagine sanno che il tema è stato più volte affrontato. Si è parlato del gioco del lotto (e dei tentativi di falsificare le schedine), si è parlato della tombola (e del perché è lecito giocarvi in casa e illecito farlo in pubblica piazza), si è parlato anche del Casinò (quello di Venezia in particolare).
Questa volta tocca al Poker.
Particolarmente sintomatica delle tecniche adoperate per questo gioco è l’origine del suo nome (sì, sono fissato con l’etimologia). Poker deriverebbe dalla parola francese poque e dal tedesco pochen che dovrebbero voler dire inganno. Si fonda insomma sulla abilità che hanno i giocatori di gabbarsi tra loro.
Dal punto di vista storico, il gioco sarebbe nato in Medio Oriente e poi esportato nel Nuovo Mondo (ma tanti ipotizzano altre origini, compresa una teoria secondo cui il gioco sarebbe l’erede del gioco dello zarro in uso a Milano nel ‘500, e reso immortale dal dipinto I bari del Caravaggio) .
Ora, non mi è chiaro come marinai persiani siano riusciti a far nascere in America la passione per un gioco dal nome franco-tedesco. So solo che da lì (pare che la culla fosse New Orleans agli inizi dell’Ottocento) il gioco si è poi diffuso in tutto il mondo. All’inizio si giocava con sole 20 carte (le sole della scala reale), e “semplicemente” si puntava scommettendo sul giocatore che aveva la mano migliore.

antichi gentiluomini si dilettano nel giuoco del poker
Così veniva descritto il poker in uno studio delle conseguenze dannose del gioco del 1843 “An Exposure of the Arts and Miseries of Gambling” di J.H. Green, un famoso giocatore pentito (sotto traduzione mia):
“Sarebbe meglio che nessuno conoscesse questo gioco, ma quelli che già ne sanno qualcosa capiranno meglio la mia spiegazione e chi non lo conosce spero capirà la sua dannosità a tal punto da non provare mai a giocarvi (quando leggo queste cose il primo impulso è subito provare, n.d.r.)”
“Si tratta di un gioco estremamente distruttivo – forse più di ogni altro gioco di carte ora in uso […] Non ci sono limiti alle puntate, e spesso il gioco inizia con puntate da un quarto di dollaro e finisce con puntate anche di centinaia di dollari“.
“Inoltre la facilità di imbrogliare in questo gioco in molti modi, lo rende imprevedibile anche per i giocatori esperti”
E molte altre osservazioni sulla pericolosità sociale di questo gioco d’azzardo che se siete curiosi quanto me potete leggere qui in versione originale con l’aggiunta di tantissimi succulenti aneddoti.
Il gioco si diffuse anche nel nostro Paese.

Una scena tratta dal bellissimo film di Pupi Avati, Regalo di Natale, 1986
Una delle prime tracce giudiziarie del poker in Italia risale agli anni ’20.
Si prenda ad esempio la sentenza sotto riportata (breve, lo giuro) della Pretura di Carrara del 1924. Il pretore, a seguito della denuncia fatta dal PM per aver sorpreso due avventori di un bar a giocare a poker non commina alcuna condanna dichiarando chiaramente che il poker non è giuoco d’azzardo.
L’affermazione ci pare oggi assurda. Ma all’epoca le ragioni della decisione erano presto dette. Le regole del gioco erano considerate troppo complicate e in più anche l’alea delle carte era messa in discussione dal fatto che chiunque potesse vincere bluffando “restando così la vincita al giuocatore che ha puntato forte e che neppure obbligato a far vedere le proprie carte, diguisachè può vincere colui che abbia un punto inferiore a tutti i compagni di tavolo“.
Come si legge nella sentenza, a differenza di giochi come il sette e mezzo, nel poker “la vincita dipende quasi esclusivamente dall’abilità, conoscenza, pratica tecnica del giuoco, dall’impressionabilità che una puntata audace può fare sui compagni di giuoco, dall’abilità di studiare il volto e le movenze del compagno, onde de durre il punto che egli ha raggiunto. Ed i concetti sopra espressi trovano la loro conferma nel fatto che gli inglesi, che il poker hanno insegnato, pare siano soliti giuocare con il volto coperto da maschera“.
Non per questo però il giudice non ritiene il gioco pericoloso, e anzi descrive il poker come “il giuoco forse più immorale che possa aversi“, aggiungendo però anche che “se detto giuoco è moralmente, ed a ragione, condannabile, dev’essere combattuto con altre armi e non con quelle della legge penale“.
Ma la vera chicca della decisione riguarda le parole con cui il Pretore di (quasi) cent’anni fa descrive le regole di un gioco a noi ormai così familiare.
Lascio a voi il piacere della lettura, per questa volta… passo!

massima
© Riproduzione Riservata
Il Pretore : — … Per aversi la contravvenzione all’art. 485 cod. pen. vi è di bisogno della sussistenza dei tre elementi integrativi del reato stesso, e questi sono: a) la pubblicità, del luogo in cui il giuoco avviene; b) la sorte dalla quale deve intieramente o quasi intieramente dipendere la vincita o la perdita e che caratterizza i giuochi d’azzardo; c) il fine di lucro. Che per il primo elemento non occorre spendere soverchie parole, poiché il bar Carrarese è indubbiamente luogo pubblico. Che poche argomentazioni sono necessarie anche per la dimostrazione della sussistenza del terzo elemento fine di lucro.
Si ha infatti, fine di lucro ogni qualvolta l’animus lucrandi predomina sul fine dell’onesta ricreazione per il noto principio del digesto: ubi pro virtute certamen non sit, non licet. Nè vale distinguere fra grosso o piccolo giuoco, poiché tale distinzione non altro può servire al giudice che perla misura della pena da infliggersi. Che il giuoco del poker, poi, è tale che non è neppur concepibile possa esser giuocato senza il fine di lucro.
Che resta quindi da esaminarsi se la vincita nel giuoco del poker dipenda intieramente, o quasi intieramente, dalla sorte, per dedurne se il medesimo possa classificarsi fra i giuochi d’azzardo.
Che si tratta quindi di un’indagine di fatto da dedursi dalla tecnica e dalle continuazioni del giuoco. E prima ancora di addentrarsi in tale indagine di fatto giova lievemente richiamare e svolgere il significato della parola «sorte». Sorte equivale a caso fortuito, cioè evento indipendente da leggi di causalità, ma perché detta causa è ignota all’uomo che non sa arrivarvi con i metodi del raziocinio e della logica comune. Nel giuoco d’azzardo per mezzo delle carte l’elemento sorte è dato dalia carta; la quale uscendo in favore del giuocatore di un dato numero o di un dato colore decide della vincita o della perdita, senzachè l’uomo possa con il suo criterio o con la sua abilità lecita influire o comunque premunirsi contro l’uscita di detta carta.
Giuoco d’azzardo, quindi, per eccellenza è il macao, poiché in detto giuoco vince chi, con le due carie che si dànno, raggiunga il punto nove, altro giuoco il sette e mezzo, a malgrado vi sia una sentenza della Cassazione penale (16 luglio 1887) in contrario, poiché ben poco il giuocatore può influire sulla uscita della carta a meno che non bari, nel qual caso dalla ipotesi del giuoco d’azzardo si scende nel reato ben più grave di truffa.
Ben diverso ritiene il giudice essere, invece, il giuoco del poker. Anzi tutto è da rilevarsi la grande varietà delle combinazioni del giuoco (coppia, doppia coppia, tre carte, scala, full, colore, poker, scala reale), varietà che richiede nel giuocatore una conoscenza perfetta e non facile e che fa raggiungere le diverse combinazioni dopo un lavoro mentale sulle varie probabilità di vincita o di perdita tutt’altro che trascurabile.

I Bari, Caravaggio, 1594
Altra peculiarità ancora del poker, è che lo differenzia da tutti gli altri, la mancanza assoluta di un punto o di una combinazione che costituisca vincita assoluta, perché la combinazione più rara, può urtare in una combinazione simile di maggior valore. Le molteplici combinazioni del giuoco sono affidate all’acume del giuocatore il quale, eseguito il primo scarto può concorrere, sembra la parola adatta, a raggiungere un punto anziché un altro e basandosi non tanto sulle proprie carte quanto sulle combinazioni che egli vede essere provocate dai compagni di tavolo, compagni dei quali egli si cura di esaminare lo scarto. Ed allo scopo è bene spiegare come il giuoco si svolga.
Dei giuocatori ognuno mette la sua posta e vengono distribuite cinque carte per giuocatore. Qualsiasi giuocatore che abbia una coppia (due carte simili) può invitare gli altri al giuoco puntando una somma. I giuocatori che accettano, e così pure colui che ha aperto il giuoco, possono scartare tutte le carte o quelle che credono più opportune per giungere ad una data combinazione. Date una seconda volta le carte il giuocatore che ha aperto il giuoco punta una somma, gli altri giuocatori o accettano la puntata oppure rialzano a loro volta la posta.
S’inizia cosi una specie di asta al maggior offerente, asta che ha cosi il suo epilogo quando uno dei giuocatori abbia fatto fuggire tutti gli altri, oppure quando accettato il giuoco si mettono le carte in tavola e si esaminano i punti raggiunti da ciascun giuocatore, e chi ha il punto migliore vince e prende il piatto. Può darsi però, ed è la generalità dei casi, che un giuocatore puntando molto forte, renda timorosi gli altri i quali abbandonano il giuoco restando così la vincita al giuocatore che ha puntato forte e che neppure obbligato a far vedere le proprie carte, diguisachè può vincere colui che abbia un punto inferiore a tutti i compagni di tavolo.
Come potrebbesi sostenere, quindi, che il poker sia giuoco d’azzardo se l’elemento sorte indubbiamente personificato nella carta non è la ragione che il giuocatore può andare, e più scaltro, può aggiudicarsi la vincita senza neppure mostrare le carte?
Vince, cioè, senza far vedere le carte, anche se per avventura la medesima fosse, ma non lo è, la causa della vincita. Che come si è sopra dimostrato, la vincita dipende quasi esclusivamente dall’abilità, conoscenza, pratica tecnica del giuoco, dall’impressionabilità che una puntata audace può fare sui compagni di giuoco, dall’abilità di studiare il volto e le movenze del compagno, onde de durre il punto che egli ha raggiunto. Ed i concetti sopra espressi trovano la loro conferma nel fatto che gli inglesi, che il poker hanno insegnato, pare siano soliti giuocare con il volto coperto da maschera.

Sarebbe bello, eh?
Il poker, quindi, non è giuoco d’azzardo ma di rischio, cioè combinato in modo da poter provocare forti perdite per coloro che lo giuochino, ma su queste perdite non influisce la sorte, circostanza questa dal legislatore richiesta perchè si abbia giuoco d’azzardo. Sotto questo profilo il poker è, e il giudice completamente lo ritiene e lo dichiara, il giuoco forse più immorale che possa aversi, ma se detto giuoco è moralmente, ed a ragione, condannabile, dev’essere combattuto con altre armi e non con quelle della legge penale per la quale nessun fatto può essere dichiarato reato se non sia compreso nei limiti tracciati dagli arti coli del codice punitivo.
Si potrebbe obbiettare che la funzione della norma penale è in armonia con la pubblica morale, d’accordo, ma com’è possibile applicare una norma, non esistente nel codice punitivo?
Spetta all’elaborazione scientifica, storica ed ambientale del diritto espressamente classificare fra i giuochi d’azzardo anche quelli che per ora non ne hanno le caratteristiche, oppure, e sarebbe più saggio consiglio, proibire ogni e qualsiasi giuoco, ma, come vedesi, tali questioni possono farsi de iure condendo, mentre invece il diritto positivo è quello che è con le sue lacune e le sue deficienze.
Che il giudice, del resto, deve necessariamente osservare che anche dal lato morale il giuoco non è con criterio univoco osteggiato dallo Stato, sintesi della coscienza morale e giuridica della nazione, poiché è proprio giuoco di Stato il giuoco nel lotto, il maggiore e più diffuso dei giuochi d’azzardo, è monopolio di Stato fabbricazione delle carte da giuoco, fabbricazione che potrebbe essere proibita con danno economico dello Stato, ma per vantaggio immenso per la repressione di tutti giuochi che sono, nella maggior parte dei casi, attributo degli oziosi, dei delinquenti.
Per questi motivi, ecc
Il Foro Italiano, Vol. 49, PARTE SECONDA: GIURISPRUDENZA PENALE (1924), pp.93/94-95/96