Siamo stati tutti un po’ Jim Hawkins, Indiana Jones o Zio Paperone inseguito dai Bassotti e Rockerduck.
Non esiste uomo che da bambino non abbia desiderato essere il protagonista di una avventurosissima caccia al tesoro. Di un tesoro vero, però! Quello che si scova nel forziere di legno dopo aver consultato mappe gialle e sgualcite, con la X bella pressata, il percorso tratteggiato in rosso, l’isola a forma di teschio e l’immancabile e inutile palma.
Si scavava ovunque, con paletta e altri mezzi di fortuna e con quelle nostre mappe immaginarie strette nel pugno: nei giardini, in campagna, nella sabbia al mare, persino nei vasi dei gerani appena innaffiati, ché la terra andava via prima. Per non parlare delle botole e dei passaggi segreti ovunque disseminati nel nostro percorso.

dov’è il tesoro?
Il più delle volte, si finiva alla fine con il rovistare nei cassetti dei mobili vecchi, o sotto la televisione, aprendo l’anta del mobile che sapeva di cognac e tuffandosi in fondo.
Il più delle volte i miei tesori erano conchiglie bucate, audiocassette o l’Almanacco del Calcio 1971 (sempre sorprendente). E chissà quali sono i tesori dei ragazzini di oggi.
Quello cui davamo la caccia era il brivido di sentirsi i primi a riscoprire qualcosa dimenticato da anni.
Si tratta proprio della stessa sensazione che provo io quando riscopro queste vecchissime sentenze. Ci soffio sopra per mandar via la polvere e ve le racconto.
Questa volta, si parla proprio di tesori!
Una storia bellissima che ha come protagonisti un povero pescatore, Antonio Morville, e niente meno che la Principessa Aldobrandini.
Anche questa sentenza, in certi passi sembra un vero racconto:
“Il regio ispettore degli scavi in Anzio con lettera del 30 dicembre 1887 partecipava al sindaco di Anzio che il mare battendo in breccia sulla riva di ponente aveva scoperto una statua di cui il pescatore Antonio Morville aveva potuto prendere la testa; che da visita da lui fatta aveva potuto rilevare che la statua aveva piegato e ceduto entro la propria nicchia su di un lato. In pari tempo invitava il sindaco, a tutela dei di ritti dell’arte e del privato sul cui terreno la detta statua fosse stata trovata, a farla sequestrare, e provvedere perché nessuno avesse potuto deturpare l’opera d’arte fino a che non fossero giunte disposizioni dal Ministero della pubblica istruzione“.
Poco dopo, si scoprì che il fondo dove era originariamente posta la statua apparteneva alla Principessa Aldobrandini che ne reclamò ed ottenne la restituzione.
Quasi venti anni dopo, gli eredi del pescatore (moglie e figli), tornarono sulla questione reclamando per sé la metà della proprietà di quel tesoro che era stato ritrovato. In base alla legge, infatti, chi trovasse un tesoro su un fondo altrui divideva la proprietà con il proprietario del fondo.
Gli eredi del pescatore fecero così causa alla principessa.
A distanza di tanti anni le parti raccontarono i fatti del giorno del ritrovamento, e ciascuna diede la sua versione.
Per la Principessa non vi era stata alcuna “scoperta”, perché “i Morville non avevano scoperto nulla; che nella notte dal 28 al 29 dicembre 1887 si scatenò una furiosa tempesta in quella località e la violenza delle onde produsse il franamento di una parte dei ruderi della villa di Nerone, i quali, precipitando nel mare, lasciarono allo scoperto dietro di loro parte di una sala con nicchia, entro una delle quali si trovava una statua di marmo: la tempesta smosse la statua da secoli ferma nella sua nicchia, la fece piegare sopra un lato, ciò che produsse la rottura della testa, la quale cadde verso il mare; che i Morville, pescatori, nella mattina successiva, calmata la burrasca, passando con la loro barca peschereccia rasente le rovine, videro la statua, e senza far motto ad alcuno, si appropriarono la testa per farne commercio”.
Per gli eredi Morville invece: “Antonio Morville ed il figlio esercitavano in Anzio l’arte del pescatore, e per sopperire alla scarsezza dei redditi, spesso anche quella sussidiaria di scavatori di arena. Nel dicembre 1887, appunto per estrarre l’arena, si dirigevano alla parte di ponente a metri circa trenta dal faro: e mentre il vento imperversava ed i flutti vi s’infrangevano, videro franarsi la terra che copriva i ruderi, e tra essi giacersi, già spezzata in due parti, un’antica statua marmorea. Il capo era rotolato sul basso, e l’intiero corpo caduto bocconi fuori della nicchia. I Morville non esitarono ad impossessarsi di quella testa ed a recarla nella propria abitazione. Ma come si divulgò la notizia, l’ispettore regio agli scavi domandò ed ottenne venisse sequestrata”.
Per la verità, le due ricostruzioni non mi sembrano particolarmente in conflitto.
Ciò su cui divergevano nettamente le parti era da un lato quale fosse la legge applicabile (se il nuovo “codice civile” o addirittura gli editti pontifici di inizio ottocento), dall’altro i requisiti di applicabilità della disciplina relativa al ritrovamento dei tesori.
La sentenza approfondisce soprattutto quest’ultimo punto, dimostrando come tanto in base alla legge italiana, quanto al diritto romano per esservi inventio thesauri era indispensabile l’atto dello scoprimento “tanto vero che chi fosse andato a ricercare la cosa, sapendo già del luogo ove essa giaceva, non acquistava nulla. Non basta aver visto, occorre aver messo in luce l’oggetto prezioso”.
Il tesoro insomma, bisogna sudarselo.
Per sapere come era andata a finire… buona lettura.

massima
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Il regio ispettore degli scavi in Anzio con lettera del 30 dicembre 1887 partecipava al sindaco di Anzio che il mare battendo in breccia sulla riva di ponente aveva scoperto una statua di cui il pescatore Antonio Morville aveva potuto prendere la testa; che da visita da lui fatta aveva potuto rilevare che la statua aveva piegato e ceduto entro la propria nicchia su di un lato. In pari tempo invitava il sindaco, a tutela dei di ritti dell’arte e del privato sul cui terreno la detta statua fosse stata trovata, a farla sequestrare, e provvedere perché nessuno avesse potuto deturpare l’opera d’arte fino a che non fossero giunte disposizioni dal Ministero della pubblica istruzione.
Il sindaco, in qualità di ufficiale di p.a., provvide all’immediato sequestro sia della testa presa dal Morville, che del tronco rimasto sul luogo ove fu rinvenuta la statua, e quindi dispose che la medesima fosse trasportata a Roma. Il Ministero la ritenne presso di sé per qualche tempo, fino a che nel giorno 13 marzo 1888 ne fece consegna alla principessa Francesca Aldobrandini, essendosi accertato, dietro i reclami della stessa, che il luogo dove era posta la statua, apparteneva in proprietà alla casa Aldobrandini.
Dopo parecchi anni Santarella d’Andrassi vedova del su nominato Antonio Morville, tanto in nome proprio che in rappresentanza della figlia minore Caterina Morville, nonché Ascanio, Germano e Maria Grazia Morville, in qualità di eredi dello Antonio, traevano innanzi al Tribunale di Roma la detta Francesca ed altri Aldobrandini esponendo:
Che sulla fine del 1887 lo Antonio Morville ed il figlio Ascanio rinvennero la statua muliebre marmorea, di cui sopra è parola, in Anzio, tra i ruderi della villa imperiale di Nerone, presso il lido del mare, a circa trenta metri dal faro, in cui giaceva sotterra; che tale statua si scopri per solo caso fortuito, e che, sebbene per gli spostamenti subiti abbia il capo separato, nondimeno era, ed è tuttora, di grandissimo pregio, e costituiva giuridicamente un tesoro; che i Morville s’impossessarono della testa di siffatta statua, che poi furono costretti a consegnare al Municipio; che la statua è tuttora posseduta dalla vedova ed eredi del principe Pietro Aldobrandini.
E, ciò premesso, chiedevano che il Tribunale dichiarasse che la proprietà della indicata statua spetta per metà agli scopritori Ascanio ed Antonio Morville, e per quest’ultimo, ai singoli suoi eredi e figli, attribuendola ai medesimi a forma di legge.
I convenuti dedussero: che i Morville non avevano scoperto nulla;
che nella notte dal 28 al 29 dicembre 1887 si scatenò una furiosa tempesta in quella località e la violenza delle onde produsse il franamento di una parte dei ruderi della villa di Nerone, i quali, precipitando nel mare, lasciarono allo scoperto dietro di loro parte di una sala con nicchia, entro una delle quali si trovava una statua di marmo: la tempesta smosse la statua da secoli ferma nella sua nicchia, la fece piegare sopra un lato, ciò che produsse la rottura della testa, la quale cadde verso il mare; che i Morville, pescatori, nella mattina successiva, calmata la burrasca, passando con la loro barca peschereccia rasente le rovine, videro la statua, e senza far motto ad alcuno, si appropriarono la testa per farne commercio. Mancando quindi la denuncia, essi non possono provare di essere stati i primi a vedere, anzi a scoprire la statua. Ammesso che fossero stati i primi a vedere la statua, non potrebbero giovarsi delle disposizioni di legge che invocano a loro favore, perchè in virtù degli editti Doria e Pacca, allora in vigore, gl’inventori che non denunciano l’oggetto scoperto perdono ogni diritto su di esso.
La statua, messa in evidenza dalla mareggiata, non è un tesoro di cui la metà possa spettare all’inventore.
Infatti, prescindendo dal valore pressoché nullo delle statue di decorazione, quella in questione, appunto perché statua di decorazione in una nicchia aperta nella parete di una sala, è un immobile per destinazione: ciò esclude il concetto del tesoro, sia per diritto romano che pel codice italiano; che inoltre essa aveva un proprietario legittimo e ben determinato, cioè il proprietario del fondo e degli avanzi della villa neroniana; il che importava, sotto un altro aspetto, l’esclusione del concetto del tesoro; che non valesse il dire che il colpo di mare aveva reso mobile l’immobile per destinazione, perché manca l’atto volontario del proprietario, che può solo liberare dalla immobilizzazione. La narrazione dei fatti contenuta in citazione, la scoperta, cioè, della statua nell’arena da cui era ricoperta, è smentita dai documenti stessi degli attori, giacché da essi risulta nel modo più evidente che la statua fu messa allo scoperto dal mare. I convenuti quindi conchiusero perché la domanda fosse rigettata.
Gli attori alla loro volta chiesero di essere ammessi a provare con testimoni i fatti dedotti nella loro comparsa.
II Tribunale, con sentenza del 9 maggio 1904, senza attendere le eccezioni dei convenuti, ammise la prova testimoniale sui cinque capitoli all’uopo formulati dagli attori. Avverso tale pronunziato produssero appello i convenuti Aldobrandini con atto del 27 aprile 1906 pei motivi nel medesimo dedotti e che qui in seguito saranno esaminati.
Attesoché nell’atto istitutivo del giudizio i Morville si esprimono nei seguenti termini: “Ritenuto che non si è dato agli scopritori della statua signori Morville la metà del tesoro, come è prescritto dal codice civile vigente, e tornò inutile qualsivoglia richiesta…”. Con la prima comparsa del 23 novembre 1903 gli attori reclamano l’applicazione del l’art. 714 detto codice, di cui trascrivono il tenore. Con la comparsa aggiunta del 7 marzo 1904, diretta specialmente a confutare le ragioni della difesa dei convenuti, deducono: “Che l’eccezione di carenza di azione elevata da costoro è inattendibile, mentre l’azione istessa ha un triplice fondamento. Lo ha nel diritto romano, poiché secondo le Istituzioni lib. II, de rer. divis., il dominio del tesoro si attribuisce metà all’inventore, metà al proprietario del fondo; lo ha secondo il codice civile vigente, e già pubblicato all’epoca della scoperta del tesoro, ossia della statua, poiché nell’art. 714 è prescritta una disposizione perfettamente identica; lo ha infine per gli editti Pacca e Doria, che la parte avversa predilige, poiché formalmente nell’art. 50 del menzionato editto Pacca si legge in ordine allo scoprimento di oggetti di antichità: “Nel caso fortuito l’inventore dovrà avere la metà del ritrovato, cedendo l’altra metà a vantaggio del proprietario del fondo”.
E dopo ciò conchiudono: “Per legge adunque compete ai Morville la proprietà del trovato”. Attesoché, per tal modo, risulta fino all’evidenza che, ad avviso degli attori, la legge che doveva regolare i loro diritti nei rapporti cogli Aldobrandini era il codice civile. Se nella comparsa aggiunta accennano all’editto Pacca, lo fanno solo in risposta alla parte avversa che tale editto invocava, ma soggiungono che questo non regola diversamente dal codice civile i diritti dell’inventore del tesoro. Attesoché, dopo ciò, non è agevole comprendere e perché i primi giudici, prendendo occasione dalla deduzione dei convenuti circa gli editti pontefici, fatta al limitato scopo della loro eccezione pregiudiziale, e senza por mente che l’applicazione del codice civile nella soggetta materia era reclamata da entrambe le parti, si propongano fin da principio di decidere la controversia ponendo quasi da banda il detto codice, ed esclusivamente in base alle disposizioni degli editti, sul non adeguato concetto che questi regolassero diversamente i diritti privati sugli oggetti scoperti.

L’isola del tesoro in versione paperopoli
Però, a dimostrare che essi non ben si apponevano, giova trascrivere integralmente tali disposizioni.
L’art. 47 dell’editto Pacca è così concepito:
“Coloro che scopriranno per caso gli oggetti d’arte e di antichità non potranno distrarli, e saranno sottoposti alle presenti disposizioni e a quelle ordinate dal chirografo sovrano del 1° ottobre 1802”.
Art. 48. “In pari modo lo saranno quelli che trovano antichità facendo scassati, fondamenti od altro, ed in particolar guisa i cavatori di pozzolana ed i lavoratori delle pubbliche strade”.
Art. 50. “Nel caso fortuito l’inventore dovrà avere la metà del ritrovato, cedendo l’altra a vantaggio del padrone del fondo. L’inventore salariato o giornaliero trova pel suo padrone. L’inventore che non adempie alle presenti disposizioni perde ogni diritto”.
Ora non può cadere dubbio che queste e le altre disposizioni degli editti sono coordinate ad un fine d’interesse pubblico ed altamente civile, quale è la tutela e conservazione delle opere d’arte antica che formano vanto e decoro di questa classica terra, che Eugenio Muntz (Histoire de l’art pendant la Renaissance, Paris, Hachette, 1890) chiama: “madre comune di ogni uomo pensante”.
Esse però non potevano, e, nel fatto, non derogarono ai principi di diritto privato tramandati dalla sapienza romana, e rimasti pressoché invariati, relativamente allo acquisto del tesoro per mezzo della occupazione. Basta metterle in confronto col citato art. 714 cod. civ., che cosi suona:
Il tesoro appartiene al proprietario del fondo in cui si trova. Se il tesoro è trovato nel fondo altrui, purché sia stato scoperto per solo effetto del caso, spetta per metà al proprietario del fondo ove fu trovato e per metà al ritrovatore. Tesoro è qualunque oggetto che sia nascosto o sotterrato, e del quale nessuno possa provare di essere padrone
Ora è a por mente che il testo degli editti non prescinde dal concetto della scoperta: coloro che scopriranno per caso, dice l’art. 47: con questo va messo in correlazione il successivo art. 50, il quale, se parla del ritrovato, non può riferirsi che al ritrovato in seguito a scoperta. L’atto materiale di vedere soltanto un oggetto non visto precedentemente da altri, quando però tutti erano nella possibilità di vederlo, non può legalmente equivalere alla scoperta. Questa consiste nel disvelare qualche cosa che la comune degli uomini non avrebbe potuto altrimenti conoscere. Lo dimostra in modo evidente l’art. 48 dello editto Pacca nella ipotesi che fa di oggetti che si rinvengono eseguendo scassati, fondamenti od altro, e che poggia sopra un duplice presupposto: che gli oggetti di arte e di antichità siano collocati al coperto nel suolo e non alla vista di tutti, e che vengano alla luce compiendosi dall’inventore un qualche lavoro. Adunque, se non esplicitamente, questa disposizione dell’editto implicitamente esige che l’oggetto d’arte e di antichità sia nascosto.
L’art. 50 poi non fa che disciplinare specificamente il diritto dell’inventore di oggetti d’arte e di antichità, e stabilisce la stessa proporzione rimunerativa della metà di cui al codice civile.
Il concetto della inventio thesauri, tanto per gli editti pontifici, che pel codice civile, è sempre quello del diritto classico.
“Thesauros quos quis in loco suo invenerit, divus Hadrianus, naturalem aequitatem sequutus, ei concessit qui eos invenerit. Idemque statuit, si quis in sacro aut religioso loco fortuito casu invenerit. At si quis in alieno loco, non data ad hoc opera, sed fortuitu, invenerit, di midium domino soli concessit et dimidium inventori (§ 3, Inst., de rer. divis.).
È chiaro che con le espressioni non data ad hoc opera si è inteso escludere soltanto lavoro diretto alla ricerca del tesoro, ma non si è derogato al concetto dello scoprimento, della esplicazione un’attività qualsiasi da parte dell’inventore: questi, che non compiendo un lavoro assolutamente materiale, deve però disvelare qualche cosa che prima non era conosciuta, perchè non alla vista di tutti, o nella possibilità di essere da tutti veduta; in breve, era nascosta.

L’isola del tesoro
L’idea dello scoprimento, che, come si è detto, non va confusa con quella del vedere per caso una cosa che da tutti poteva esser veduta, è confermata dalla legge unica Cod., de thes., di cui però gli appellati citano solo l’ultima parte, cioè: “…Quod si forte, vel arando vel alias terram alienam colendo, vel quocumque casu, non studio perscrutandi in alienis locis, thesaurum invenerit; id quod repertum fuerit, dimidia retenta, altera dimidia data, cum locorum domino partiatur”.
Ma per la retta interpretazione occorre porre in relazione questo brano con quanto viene dichiarato precedentemente dall’Imperatore Leone: ” …In suis quidern locis unicuique… thesaurum, id est condita ab ignotis dominis tempore vetustiori monilia quaerere, et invento uti liberam tribui mus facultatem; ne ulterius Dei beneficium invidiosa calumnia persequatur … In alienis vere terrulis nemo audeat invitti dominis opes abditas suo nomine perscrutar… Quod si ferte vel arando etc.” (segue l’ultima parte testé trascritta).
Adunque nelle diverse ipotesi che si fanno nella Costituzione di rinvenimento del tesoro, sia nel proprio, che nell’altrui fondo, permane sempre il concetto che il tesoro, di cui si dà la definizione riprodotta presso a poco nel codice civile, sia nascosto. L’espressione quocumque casu, che segue immediatamente alle altre arando vel colendo, le quali implicano operazioni materiali, non esclude l’idea del lavoro (non diretto, ben s’intende, alla ricerca del tesoro) siccome vogliono gli appellati.
Ma checché sia di ciò, è sempre necessario che l’inventore esplichi, giova ripeterlo, in qualche modo la sua attività per scoprire un oggetto mobile nascosto. Ed è esatta la nozione della inventio che viene riferita dagli appellanti sulla scorta della comune dottrina. È indispensabile che solo mediante l’atto dello scoprimento l’inventore venga a conoscere l’esistenza della cosa: tanto vero che chi fosse andato a ricercare la cosa, sapendo già del luogo ove essa giaceva, non acquistava nulla.
Non basta aver visto, occorre aver messo in luce l’oggetto prezioso.
Attesoché in tal guisa è dimostrato che le differenze rilevate dal Tribunale fra gli editti pontifici ed il codice civile circa i diritti dell’inventore del tesoro non sono di concetto; nulla hanno essi innovato in rapporto alla inventio thesauri del diritto civile. Vi potrà essere qualche differenza di parole, alle quali sembra che i primi giudici abbiano attribuito soverchia importanza.
Attesoché, alla stregua di questi principi, che era necessario far precedere per la retta decisione della controversia, è mestieri indagare se nel caso in esame ricorrano i requisiti della inventio thesauri.
Ora i Morville nella prima comparsa del 23 novembre 1903, così parlano dell’avvenimento:
“Antonio Morville ed il figlio esercitavano in Anzio l’arte del pescatore, e per sopperire alla scarsezza dei redditi, spesso anche quella sussidiaria di scavatori di arena. Nel dicembre 1887, appunto per estrarre l’arena, si dirigevano alla parte di ponente a metri circa trenta dal faro: e mentre il vento imperversava ed i flutti vi s’infrangevano, videro franarsi la terra che copriva i ruderi, e tra essi giacersi, già spezzata in due parti, un’antica statua marmorea. Il capo era rotolato sul basso, e l’intiero corpo caduto bocconi fuori della nicchia. I Morville non esitarono ad impossessarsi di quella testa ed a recarla nella propria abitazione. Ma come si divulgò la notizia, l’ispettore regio agli scavi domandò ed ottenne venisse sequestrata”.
Anche a ritenere per genuina codesta versione, mancherebbero nella specie i caratteri della inventio thesauri. I Morville avrebbero assistito occasionalmente allo scoprimento della statua avvenuto per effetto delle onde burrascose contro i ruderi della villa Neroniana; nulla avrebbero essi fatto per addivenire allo scoprimento della statua. Nel modo stesso che fu scorta da essi, poteva essere scorta da chiunque altro si fosse trovato in quei paraggi. Ma si è dimostrato che il semplice fatto di aver visto non costituisce lo scoprimento nel senso di legge per l’acquisto del tesoro.
Lo scoprire, in sostanza, si traduce nel vedere, e l’aver soltanto veduto, è d’uopo ripeterlo ancora, non basta per la inventio. In rapporto alla testa, è vero che i Morville compirono l’operazione materiale di raccoglierla e portarla a casa; ma essa, come si ricava dal terzo capitolo di prova, non era nascosta o sotterrata nell’arena, ma era rotolata sul lido del mare in modo visibile a tutti.
Attesoché, per le ragioni esposte, dovendo l’appello essere accolto, col conseguente rigetto della domanda dei Morville, non è il caso di scendere all’esame se concorressero, nella specie, gli altri requisiti richiesti dal citato art. 714 cod. civile.
Per questi motivi, ecc.
Foro Italiano, Vol. 31, PARTE PRIMA: GIURISPRUDENZA CIVILE E COMMERCIALE(1906), pp. 1331/1332-1337/13