L’avvenimento che ricordiamo oggi è uno di quei casi, meno infrequenti di quanto si pensi, in cui il detto “chi entra papa in conclave, ne esce cardinale” è stato sfatato.
Giovanni Battista Montini, allora arcivescovo di Milano, era infatti il candidato al Soglio petrino che godeva alla vigilia dei favori del pronostico, non solo sulla stampa ma anche nei circoli ecclesiastici, che vedevano in lui l’unico in grado di dare continuità al magistero di Giovanni XXIII e, soprattutto, di portare a termine il Concilio ecumenico, in forza della sua nota capacità di mediazione tra estremi opposti.
L’elezione non fu comunque immediata, segno che si dovette superare l’opposizione di quella frangia del Sacro Collegio ostile agli sviluppi conciliari. Tuttavia, all’esito del quinto scrutinio, il cardinale Ottaviani, esponente di punta del gruppo “conservatore”, dovette dare l’annuncio dell’elevazione al pontificato del cardinale bresciano che, richiamandosi all’Apostolo delle genti, scelse il nome di Paolo VI.
«Accepto in nomine Domini», si dice sia stata la risposta alla domanda rituale se l’eletto accettasse l’elezione. E proprio in questo incipit, richiamo espresso al proprio motto, più volte citato anche nel testamento, sta tutto il pontificato paolino, improntato al servizio di Dio e, quindi, dell’Uomo. Non a caso il giorno successivo, annunciando la prosecuzione del Concilio e della riforma della codificazione canonica, il Papa si sarebbe rivolto per radio “all’intera famiglia umana”, invitata a procedere in pace «nel nome del Signore.»
Per Jean Guitton, filosofo e suo amico, Montini aveva infatti capito «che il cristianesimo non poteva isolarsi dalla realtà del mondo» e che il cattolicesimo fosse «dinamico, e non statico, orientato ugualmente alla propria riforma e a quella del mondo.»
Senza dubbio vero. Sarà però un critico del pontificato paolino, il teologo Romano Amerio, ad individuare, tra i tanti discorsi papali, quello da cui emerge la vera disposizione del Pontefice. Interrogandosi nove anni dopo sul perché il Signore lo avesse «chiamato a questo servizio», Paolo VI avrebbe risposto: «non già perché io vi abbia qualche attitudine, o perché governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa e sia chiaro che Egli, non altri, la guida e la salva.»
Questo spirito, così limpido e permeato di una fede potente, informerà tutte le grandi riforme paoline (dalla liturgia, alla creazione del sinodo dei vescovi, financo l’istituzione del ricorso contenzioso-amministrativo innanzi alla Segnatura), giustificando pienamente la recente canonizzazione.