Per la nostra Massima di Natale torniamo alla fine anni ’50, quando la Alemagna Panettoni, difesa da nientemeno che Carnelutti in persona, va in tribunale per una questione apparentemente minuscola: come si applica sui pirottini la tassa di consumo?
La questione sale di grado di giudizio in grado di giudizio, fino ad arrivare nel febbraio del 1962 di fronte alla Cassazione. La Corte di Appello aveva stabilito che i pirottini sono «involucri di carta, destinati a contenere un qualche prodotto (normalmente dolci)». Verrebbe da domandarsi: cosa potrebbero contenere “non normalmente”?
La motivazione della sentenza Corte di Appello di Milano però non doveva essere scritta nel modo migliore, infatti la Cassazione aggiunge che «il Giudice di merito, ha affermato che detti involucri non sono destinati al consumo interno, ma utilizzabili esclusivamente per fini industriali, non potendo trovare altro uso al di fuori di quello di dar forma all’impasto che diventa panettone mediante la cottura». C’era molta confusione.
Non tutto però era da buttare via: la conclusione della sentenza del grado precedente era giusta, il problema era motivazione. Dunque la Suprema Corte decise di riscriverla. In ultima analisi, i pirottini erano da classificare come «sacchetti di carta senza pubblicità» e non come «lavori di carta», cosa domandata dalla Alemagna.
Cosa poi questo abbia significato per l’Alemagna non è dato sapersi, dato che comunque la Cassazione in conclusione ha ritenuto che i pirottini «non sono soggetti a tassa di consumo (in quanto) generi non destinati al consumo diretto, ma utilizzabili solo per fini industriali».
Ma perché ci interessa questa storia? Non tanto per la questione della tassa di consumo, ovviamente, ma perché cercavamo una scusa per parlare di panettoni.
L’origine rientra nella leggenda. Ci sono due storie popolari molto in voga.
La prima ci porta dal cuoco al servizio di Ludovico il Moro (seconda metà del XV secolo), duca di Milano, quando fu incaricato di preparare un pranzo di Natale per celebrare la potenza del suo signore di fronte agli altri nobili ospiti: ma il dolce, dimenticato per errore nel forno, si bruciò. Vista la disperazione del cuoco, Toni, uno sguattero, propose una soluzione: «Con quanto è rimasto in dispensa – un po’ di farina, burro, uova, della scorza di cedro e qualche uvetta – stamani ho cucinato questo dolce. Se non avete altro, potete portarlo in tavola». Tutti furono entusiasti e al duca, che voleva conoscere il nome di quella prelibatezza, il cuoco rivelò il segreto: «L’è ‘l pan del Toni».
La seconda storia ci parla del nobile Ulivo degli Atellani che abitava nella Contrada delle Grazie a Milano. Innamorato di Algisa, bellissima figlia di un fornaio, si fece assumere dal padre di lei come garzone e pensando che questi gli avrebbe concesso la mano della figlia con un aumento delle vendite, provò a inventare un dolce: impastò farina, uova, burro, miele e uva sultanina. Poi infornò. Fu un successo strabiliante, tutti vollero assaggiare il nuovo pane e qualche tempo dopo i due innamorati si sposarono e vissero felici e contenti.
Di queste due storie è difficile dire quale sia la meno incredibile: una parla di un garzone che ruba beni di lusso dalla credenza di un duca senza che nessuno gli dica nulla; l’altra di un nobile che nel medioevo vuole sposare la figlia di un fornaio e crede che in qualche modo ci riuscirà inventando un nuovo dolce.
Probabilmente queste storie sarebbero in grado di dirci, come le nostre massime, molto di più su chi le ha inventate e del suo tempo piuttosto che fornirci informazioni sull’invenzione del panettone stesso.
Ma alla fine è la Vigilia di Natale e ci fa bene pensare che Toni sia diventato una star della panificazione e che Ulivo abbia trovato l’amore. Buon Natale!
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