Italiani, andiamo. È tempo di votare.
Quanto sono belle le elezioni? I sondaggi, la campagna elettorale, le promesse, le pernacchie, i candidati, le manifestazioni, i manifesti elettorali, le alleanze, le tribune politiche, i duelli televisivi, gli sgambetti, le liste, le preferenze, le alleanze, le coalizioni, gli sbarramenti, i programmi, i capilista, gli impresentabili, il proporzionale, il maggioritario e la maggioranza (che non c’è)!
Si tratta sempre di un momento importante e appassionante, nonostante tutto, nonostante i politici e nonostante la politica. Votare è partecipare alla vita pubblica: scegliere, preferire, esprimere un’opinione – qualunque essa sia (quasi). Non nutro particolare simpatia per chi decide scientemente di non votare, di non scegliere, di non preferire, di non esprimere opinioni se non quella – che spesso sento dire – del “nessuno mi rappresenta!“. Eppure il “partito dell’astensione” sembra quasi essere quello prevalente.
Che peccato: la libertà di voto e il suffragio universale sono conquiste così recenti che dovremmo ancora esserne entusiasti.
Le prime libere elezioni politiche, dopo i lunghi anni del Regime in cui la vita politica era stata piegata agli interessi di un pensiero unico, si tennero nel 1948. Lo scenario rispetto ad appena due anni prima era radicalmente mutato.
Le elezioni del 2 giugno 1946, quando insieme al Referendum istituzionale si votò per eleggere la Costituente, erano state certamente competitive ma si erano svolte con spirito di collaborazione e l’obiettivo condiviso da tutti i partiti di lasciarsi definitivamente alle spalle il ventennio, la guerra civile e l’occupazione e dare il via a un nuovo corso storico, così come dimostrato dai lavori per l’approvazione della Costituzione.
Le elezioni del 18 aprile 1948, per eleggere il primo parlamento della Repubblica, si svolsero invece in un clima di tensione e violenta contrapposizione ideologica. Nel 1947, infatti, il Governo De Gasperi aveva approvato il Piano Marshall, avvicinando di fatto la neonata e gracile Repubblica all’influenza americana, con l’aperta opposizione dei partiti di sinistra, in particolare del PCI e del PSI, convinti che la Repubblica avrebbe dovuto seguire il corso storico della Russia di Stalin, che era persino stata immune alla crisi del ’29 e che aveva contribuito a sconfiggere i nazisti.
La cortina di ferro da Stettino a Trieste era già calata, e l’Italia si trovava geograficamente al confine, e con i due principali schieramenti apertamente l’uno filoamericano, l’altro filosovietico.
Nel ’46 le liste PCI e il PSI (anzi PSIUP) di Togliatti e Nenni avevano sfiorato – sommate – il 40% con 9 milioni di voti. I due partiti decisero quindi di correre insieme alle elezioni successive: nacque il Fronte Democratico Popolare, che come simbolo aveva nientepopodimenoche l’effige di Garibaldi. L’obiettivo era quello di battere la DC, svincolare l’Italia dalla Nato, e preparare la via italiana al socialismo, senza passare dalla rivoluzione. Le premesse tuttavia non erano state delle migliori, nel ’47 infatti vi era stata la scissione socialdemocratica di Saragat (ho sempre provato a studiare e contare tutte le scissioni della sinistra da Livorno in poi, ma veramente faccio fatica sia a ricordarle sia a giustificarle).
Dall’altra parte la Democrazia Cristiana, guidata da De Gasperi, che nel ’46 era arrivata al 35%.
Il “rischio” di una vittoria rossa era dunque più che concreto. L’agone fu infernale.
Furono quelle del ’48 le prime elezioni dove vi fu una vera e propria campagna elettorale, senza sconti. La propaganda di quegli anni è ancora presente nell’ideale collettivo.
I democristiani avevano di fatto mobilitato il sentimento religioso. E come dar loro torto: nella Russia di Stalin non c’era spazio per la religione (ce lo hanno insegnato anche Peppone e Don Camillo). E sono celeberrime le illustrazione propagandistiche con cui si spiegava ai cattolici che “Nel segreto della cabina elettorale, Dio ti vede, Stalin no!” (questa proprio di Guareschi) e si mostrava che dietro la “maschera” di Garibaldi, si celava il “volto” di Stalin.
Dall’altra parte invece si demonizzavano gli Stati Uniti. E come dar torto ai comunisti che osteggiavano Truman, il capitalismo a stelle e strisce, e i politici italiani che ne avevano sposato le politiche, bollati come “provocatori di guerre” e “venduti allo straniero”
Come si sa, la Democrazia Cristiana stravinse le elezioni, arrivando da sola al 48,5% (più di 12 milioni di voti), in elezioni con affluenza superiore al 92% degli aventi diritto. La lista di comunisti e socialisti raggiunse appena il 30%. Da lì in avanti si inaugurò per la politica la stagione del centrismo, legame indossolubile con Stati Uniti, conventio ad escludendum dei comunisti al governo e DC come pietra angolare del sistema politico. Il primo premier nondemocristiano sarebbe stato Spadolini nel 1981 (in un Governo comunque appoggiato dalla DC, senza la quale non era possibile alcuna maggioranza).
Nonostante la schiacciante vittoria, però, il pericolo della rivoluzione comunista agli occhi dei cattolici filo-ccidentali non scomparve, anzi si temette che proprio la sconfitta alle elezioni e l’attentato a Togliatti del luglio di quello stesso anno potessero spostare il conflitto nelle piazze (e probabilmente fu grazie alla scelta del segretario comunista di fermare le proteste dopo l’attentato che il paese non sfociò nuovamente in una guerra civile).
Il 1° luglio 1949, ci mise il carico pesante la Congregazione del Sant’Uffizio del Vaticano (ora Congregazione per la dottrina della fede) che pubblicò un decreto che dichiarava apostasia l’iscrizione, l’adesione e il voto al Partito Comunista.
Il decreto fu stampato, pubblicato e distribuito presso tutte le parrocchie. Si chiese ai parroci di sensibilizzare – sotto aperta minaccia di scomunica – i credenti affinché non si lasciassero sedurre da scelte politiche contrarie alla fede cristiana.
E al primo appuntamento utile, le elezioni amministrative del 1951, il Decreto del Sant’Uffizio divenne ottimo materiale di propaganda.
Le elezioni le vinse – ancora – la DC, con una maggioranza schiacciante al consiglio comunale, ma Don Sola fu denunciato (chissà da chi?) e processato per essersi adoperato, abusando del proprio potere, a vincolare le preferenze elettorali dei cittadini.
Lascio a voi la lettura della sentenza del Tribunale di Padova del 27 ottobre 1952, ma mi si permetta di esternare una riflessione che mi attanaglia da tempo. Nell’agone politico il bene e il male sono relativi o oggettivi? Io, per dire, sono convinto di essere nel giusto, e che la mia scelta sia indubbiamente la migliore tanto per l’interesse mio personale, quanto per quello collettivo. Scommetto che la pensiamo tutti così, e che al contempo tanti non siano d’accordo con me.
Il dubbio rimane, ed è raccontato dall’illustrazione di Pakkinart, in cui bene e male si contendono la scheda elettorale, prima che finisca nell’urna.
Mi raccomando.
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