Italiani, andiamo. È tempo di votare.
Quanto sono belle le elezioni? I sondaggi, la campagna elettorale, le promesse, le pernacchie, i candidati, le manifestazioni, i manifesti elettorali, le alleanze, le tribune politiche, i duelli televisivi, gli sgambetti, le liste, le preferenze, le alleanze, le coalizioni, gli sbarramenti, i programmi, i capilista, gli impresentabili, il proporzionale, il maggioritario e la maggioranza (che non c’è)!
Si tratta sempre di un momento importante e appassionante, nonostante tutto, nonostante i politici e nonostante la politica. Votare è partecipare alla vita pubblica: scegliere, preferire, esprimere un’opinione – qualunque essa sia (quasi). Non nutro particolare simpatia per chi decide scientemente di non votare, di non scegliere, di non preferire, di non esprimere opinioni se non quella – che spesso sento dire – del “nessuno mi rappresenta!“. Eppure il “partito dell’astensione” sembra quasi essere quello prevalente.
Che peccato: la libertà di voto e il suffragio universale sono conquiste così recenti che dovremmo ancora esserne entusiasti.
Le prime libere elezioni politiche, dopo i lunghi anni del Regime in cui la vita politica era stata piegata agli interessi di un pensiero unico, si tennero nel 1948. Lo scenario rispetto ad appena due anni prima era radicalmente mutato.
Le elezioni del 2 giugno 1946, quando insieme al Referendum istituzionale si votò per eleggere la Costituente, erano state certamente competitive ma si erano svolte con spirito di collaborazione e l’obiettivo condiviso da tutti i partiti di lasciarsi definitivamente alle spalle il ventennio, la guerra civile e l’occupazione e dare il via a un nuovo corso storico, così come dimostrato dai lavori per l’approvazione della Costituzione.
Le elezioni del 18 aprile 1948, per eleggere il primo parlamento della Repubblica, si svolsero invece in un clima di tensione e violenta contrapposizione ideologica. Nel 1947, infatti, il Governo De Gasperi aveva approvato il Piano Marshall, avvicinando di fatto la neonata e gracile Repubblica all’influenza americana, con l’aperta opposizione dei partiti di sinistra, in particolare del PCI e del PSI, convinti che la Repubblica avrebbe dovuto seguire il corso storico della Russia di Stalin, che era persino stata immune alla crisi del ’29 e che aveva contribuito a sconfiggere i nazisti.
La cortina di ferro da Stettino a Trieste era già calata, e l’Italia si trovava geograficamente al confine, e con i due principali schieramenti apertamente l’uno filoamericano, l’altro filosovietico.
Nel ’46 le liste PCI e il PSI (anzi PSIUP) di Togliatti e Nenni avevano sfiorato – sommate – il 40% con 9 milioni di voti. I due partiti decisero quindi di correre insieme alle elezioni successive: nacque il Fronte Democratico Popolare, che come simbolo aveva nientepopodimenoche l’effige di Garibaldi. L’obiettivo era quello di battere la DC, svincolare l’Italia dalla Nato, e preparare la via italiana al socialismo, senza passare dalla rivoluzione. Le premesse tuttavia non erano state delle migliori, nel ’47 infatti vi era stata la scissione socialdemocratica di Saragat (ho sempre provato a studiare e contare tutte le scissioni della sinistra da Livorno in poi, ma veramente faccio fatica sia a ricordarle sia a giustificarle).
Dall’altra parte la Democrazia Cristiana, guidata da De Gasperi, che nel ’46 era arrivata al 35%.
Il “rischio” di una vittoria rossa era dunque più che concreto. L’agone fu infernale.
Furono quelle del ’48 le prime elezioni dove vi fu una vera e propria campagna elettorale, senza sconti. La propaganda di quegli anni è ancora presente nell’ideale collettivo.
I democristiani avevano di fatto mobilitato il sentimento religioso. E come dar loro torto: nella Russia di Stalin non c’era spazio per la religione (ce lo hanno insegnato anche Peppone e Don Camillo). E sono celeberrime le illustrazione propagandistiche con cui si spiegava ai cattolici che “Nel segreto della cabina elettorale, Dio ti vede, Stalin no!” (questa proprio di Guareschi) e si mostrava che dietro la “maschera” di Garibaldi, si celava il “volto” di Stalin.

manifesto propagandistico DC di Guareschi
Dall’altra parte invece si demonizzavano gli Stati Uniti. E come dar torto ai comunisti che osteggiavano Truman, il capitalismo a stelle e strisce, e i politici italiani che ne avevano sposato le politiche, bollati come “provocatori di guerre” e “venduti allo straniero”

manifesto propagandistico FDP elezioni ’48
Come si sa, la Democrazia Cristiana stravinse le elezioni, arrivando da sola al 48,5% (più di 12 milioni di voti), in elezioni con affluenza superiore al 92% degli aventi diritto. La lista di comunisti e socialisti raggiunse appena il 30%. Da lì in avanti si inaugurò per la politica la stagione del centrismo, legame indossolubile con Stati Uniti, conventio ad escludendum dei comunisti al governo e DC come pietra angolare del sistema politico. Il primo premier nondemocristiano sarebbe stato Spadolini nel 1981 (in un Governo comunque appoggiato dalla DC, senza la quale non era possibile alcuna maggioranza).
Nonostante la schiacciante vittoria, però, il pericolo della rivoluzione comunista agli occhi dei cattolici filo-ccidentali non scomparve, anzi si temette che proprio la sconfitta alle elezioni e l’attentato a Togliatti del luglio di quello stesso anno potessero spostare il conflitto nelle piazze (e probabilmente fu grazie alla scelta del segretario comunista di fermare le proteste dopo l’attentato che il paese non sfociò nuovamente in una guerra civile).
Il 1° luglio 1949, ci mise il carico pesante la Congregazione del Sant’Uffizio del Vaticano (ora Congregazione per la dottrina della fede) che pubblicò un decreto che dichiarava apostasia l’iscrizione, l’adesione e il voto al Partito Comunista.
Il decreto fu stampato, pubblicato e distribuito presso tutte le parrocchie. Si chiese ai parroci di sensibilizzare – sotto aperta minaccia di scomunica – i credenti affinché non si lasciassero sedurre da scelte politiche contrarie alla fede cristiana.
E al primo appuntamento utile, le elezioni amministrative del 1951, il Decreto del Sant’Uffizio divenne ottimo materiale di propaganda.

avviso sacro
Le elezioni le vinse – ancora – la DC, con una maggioranza schiacciante al consiglio comunale, ma Don Sola fu denunciato (chissà da chi?) e processato per essersi adoperato, abusando del proprio potere, a vincolare le preferenze elettorali dei cittadini.
Lascio a voi la lettura della sentenza del Tribunale di Padova del 27 ottobre 1952, ma mi si permetta di esternare una riflessione che mi attanaglia da tempo. Nell’agone politico il bene e il male sono relativi o oggettivi? Io, per dire, sono convinto di essere nel giusto, e che la mia scelta sia indubbiamente la migliore tanto per l’interesse mio personale, quanto per quello collettivo. Scommetto che la pensiamo tutti così, e che al contempo tanti non siano d’accordo con me.
Il dubbio rimane, ed è raccontato dall’illustrazione di Pakkinart, in cui bene e male si contendono la scheda elettorale, prima che finisca nell’urna.
Mi raccomando.

massima
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Il Tribunale, ecc. — L’articolo risulta pubblicato nel bollettino parrocchiale della chiesa di S. Nicolò del maggio 1951. Esso è costituito da un titolo, da un sottotitolo, da una premessa e da quattro paragrafi di “norme”. Il titolo è questo: “Nelle elezioni”. Il sottotitolo è: “La voce della coscienza retta”. Nella premessa è detto dell’approssimarsi delle elezioni amministrative in Padova, fissate per il 27 dello stesso mese, e del diritto e dovere del parroco di istruire i fedeli sull’obbligo grave di coscienza di tutti gli elettori di portarsi a votare.
Le “norme” sono le seguenti:
1) Ogni fedele iscritto nella lista è obbligato strettamente e gravemente ad andare a votare perché per la negligenza e trascuratezza dei buoni, non abbiano a salire al governo della cosa pubblica partiti o persone di principi anticristiani, per i pericoli ed i danni che potrebbero venire alla religione e al benessere pubblico; ne sarebbero responsabili davanti a Dio, alla Nazione e alla coscienza anche i negligenti.
2) È dovere grave di coscienza di dare il voto a quei candidati o a quelle liste di cui si ha la certezza che rispetteranno o difenderanno l’osservanza delle leggi divine, i diritti della religione e della Chiesa nella vita privata e in quella pubblica.
3) Quanto più il programma e l’azione pratica dei singoli candidati o di una lista di candidati renderanno giustificata e fondata quella certezza, con tanto maggiore tranquillità di coscienza i cattolici potranno votare in loro favore.
4) Chi dà il voto a comunisti o a liste di candidati comunisti incorre nelle sanzioni comminate dal decreto del Santo Ufficio del 1° luglio 1949, ossia non può essere ammesso ai SS. Sacramenti, anche se non è tesserato e non condivide le ideologie anticristiane.
L’imputato si è riconosciuto autore dell’articolo di che trattasi; ma ha tenuto a dire di non avere fatto nulla che egli considerasse in contrasto con gli obblighi imposti dalla legge elettorale, precisando che intese, come credette suo dovere pastorale oltre che suo diritto in virtù delle leggi concordatarie, di consigliare i fedeli circa la scelta dei candidati alle elezioni e di portare a loro conoscenza le disposizioni dell’autorità ecclesiastica in materia di voto.

lo scudo crociato della DC
I problemi principali sono due: a) se l’imputato, mediante la pubblicazione dell’articolo, abbia commesso, con coscienza e volontà, il fatto dell’adoperarsi a vincolare i suffragi degli elettori della parrocchia in pregiudizio della lista comunista; b) se l’abbia commesso ciò nell’esercizio delle attribuzioni di ministro del culto cattolico e abusando delle attribuzioni stesse. Ci può essere poi il problema sussidiario: c) se, posta la consumazione del reato contestato, non ricorra ipotesi di non punibibilità a mente del l’art. 51, sotto il profilo dell’adempimento di un ordine.
La soluzione del primo problema richiede una previa messa a punto in linea di diritto sia a proposito della necessità o non necessità, secondo l’art. 79, che il fatto di adoperarsi a vincolare i suffragi sia commesso con costringimento morale (vis compulsiva), sia a proposito del significato del termine “vincolare”.
Non è necessario il costringimento, perché la legge non lo richiede. L’art. 79 prevede tre distinte forme, secondo cui il reato può essere commesso. Può essere commesso: a) con l’adoperarsi a costringere a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati; b) con l’adoperarsi a vincolare i suffragi; c) con l’adoperarsi a indurre all’astensione; dove la materialità richiesta per la prima forma (adoperarsi a costringere) è diversa da quella richiesta per la seconda forma (adoperarsi a vincolare), che è quella nel caso concreto contestata; e dove la proposizione “adoperaresi a vincolare” esprime soltanto l’azione idonea a stringere i vincoli, prescindendo dai mezzi usati, i quali possono essere quindi anche la menzogna, il raggiro e perfino il semplice convincimento.
Del resto la diversità si spiega con ciò che la libertà elettorale, con le sue conseguenze, gioca soprattutto nella dazione del suffragio, onde la necessità della più rigorosa protezione della legge. “Vincolare” significa, come si è detto, stringere con vincoli: stringere con vincoli in modo che il liberarsene costituisca un sacrificio. E non è la stessa cosa di “obbligare”, perché quest’ultimo termine richiama esclusivamente un vincolo giuridico, mentre “vincolare” richiama un vincolo di qualsiasi natura: può essere un vincolo morale, di convenienza, di onore, non escluso un vincolo religioso. Anzi, se un vincolo va considerato al di fuori della previsione del legislatore, esso deve identificarsi proprio nel vincolo giuridico, in quanto un vincolo siffatto, come contrario alla legge imperativa, sarebbe radicalmente nullo e quindi potrebbe avere rilevanza solo attingendo la necessitas al sentimento morale, alla convenienza, all’onore e alla religione.
È indifferente del pari la forma sotto cui si intende ottenere e si può ottenere il vincolo: è possibile un vincolo tacito, oltre che un vincolo dato con la promessa espressa. Invero non è necessaria la forma per dare sostanza al vincolo. Tanto più che i vincoli morali e religiosi sono vincoli che si assumono verso la propria coscienza morale e religiosa, di fronte al proprio “io” intimo e di fronte a Dio, cosicché la forma per essi non si spiegherebbe se non quelle rare volte che fosse necessario chiamare terzi a testimonianza. In fatto non può non affermarsi che l’azione commessa dal parroco di S. Nicolò con la pubblicazione dell’articolo sopra trascritto costituì un adoperarsi a vincolare i voti in pregiudizio della lista comunista, e che era idonea a raggiungere effetti in tale senso.
Circa il primo punto, risulta chiaro l’invito rivolto ai fedeli della parrocchia di dare i voti a quei candidati o liste di candidati di cui si avesse la certezza della intenzione di rispettare e difendere i diritti della religione e della Chiesa nella vita privata e pubblica; espressamente risulta detto che non bisogna dare il voto a comunisti o a liste di comunisti candidati.
Circa il secondo punto, si osserva come l’invito suddetto, il quale fu formulato per altro sotto nome e veste di “norma”, risulta accompagnato dal richiamo della sanzione che sarebbe stata applicata a coloro che, anche se non tesserati o non compartecipi delle ideologie anticristiane, avessero dato il voto a comunisti o a liste di comunisti candidati, e cioè della sanzione comminata dal decreto del S. Ufficio; richiamo a sua volta accompagnato dalla precisazione che la sanzione era la non ammissione ai SS. Sacramenti; onde l’invito assumeva la sostanza di una vera e propria diffida nei confronti dei fedeli, essendo indiscutibile la particolare forza persuasiva della sanzione menzionata. E mette conto aggiungere come, ai fini della indagine circa la idoneità della condotta del parroco a vincolare i suffragi, nulla rileva che quella sanzione non era di iniziativa di lui ed era stata invece decretata dalla superiore autorità della Chiesa in materia, in quanto ciò che interessa stabilire è l’attitudine che assumeva l’invito a produrre l’effetto del vincolo dei suffragi, e l’attitudine non mutava per il solo fatto che la sanzione emanava dal S. Ufficio. Il valore della sanzione, del resto, era sempre vivo ed attuale e non poteva considerarsi scontato con la prima notizia datane ai fedeli a suo tempo subito dopo che era stata decretata. La esistenza di quella sanzione fu ricordata in funzione dell’invito a non votare per i comunisti, in particolare fu ricordata, non solo quando i comizi erano già in corso, ma quando mancavano pochi giorni alla votazione; perciò l’invito non può non avere tratto forza da quel ricordo.

manifesto propagandistico PCI
Che il parroco di S. Nicolò – avesse la coscienza e volontà di compiere il fatto di che trattasi, e cioè la pubblicazione dell’articolo, non è dubbio; e tanto è sufficiente per ritenere la sussistenza del dolo necessario per il reato contestato, il quale è un dolo generico e non specifico, perché l’art. 79 non richiede che l’adoperarsi a vincolare i voti si compia per un fine determinato.
Il secondo problema, per ciò che concerne la prima parte, ossia il quesito se il parroco, quando pubblicò l’articolo, fosse nell’esercizio delle sue attribuzioni, è di soluzione piana. Basta rilevare che si trattò di pubblicazione fatta nel Bollettino parrocchiale mensile, il quale è la voce scritta del parroco e contiene, oltre le notizie relative allo svolgimento del culto, tutti gli insegnamenti e le disposizioni che il parroco dà come tale.
Certamente la soluzione del problema non è lieve per ciò che concerne la seconda parte, ossia il quesito se, per la particolarità del contenuto dell’articolo il parroco, con la sua pubblicazione e la diffusione, abbia agito abusando delle proprie attribuzioni.
Anche a tale proposito c’è da fissare preliminarmente un punto. L’indagine circa l’abuso va fatto sul piano del diritto statuale e non già sul piano del diritto della Chiesa. Ciò è ovvio, ma bisogna tenerlo bene presente. Il ministro del culto, quando agisce nel territorio dello Stato italiano, è obbligato dalla legge statuale (art. 2 cod. pen.); e non occorre dimostrare che il diritto della Chiesa è un diritto estraneo allo Stato italiano; può divenire diritto statuale, ma diviene tale solo se la legge italiana lo richiama e lo riconosce; e beninteso, lo diviene nei limiti e per gli effetti per cui è riconosciuto.

il simbolo del PCI disegnato da Guttuso
Premesso ciò, si osserva che si ha abuso delle attribuzioni quando colui che è rivestito delle attribuzioni eserciti una potestà riservata dalla legge ad altri organi od assuma potestà non consentita, quando abusi del potere discrezionale, e quando ecceda i limiti della sua competenza o violi la legge sostanziale o formale.
Nel caso concreto ricorre proprio quest’ultima ipotesi. Le norme con valore di legge per lo Stato italiano, le quali stabiliscono in forma positiva le attribuzioni dei ministri del culto cattolico, sono quelle degli art. 1 e 2 del Concordato. L’art. 1 dice: “L’Italia … assicura alla Chiesa cattolica il libero esercizio del potere spirituale, il libero esercizio del culto, nonché la sua giurisdizione in materia ecclesiastica in conformità delle norme del presente Concordato”. E l’art. 2: “Tanto la Santa Sede che i Vescovi possono pubblicare liberamente ed an che affiggere nell’interno e alle porte esterne degli edifici destinate al culto o ad uffici del loro ministero, le istruzioni, ordinanze, lettere pastorali, bollettini diocesani ed altri atti, riguardanti il governo spirituale dei fedeli, che crederanno di emanare nell’ambito della loro competenza”.
Non intende questo Collegio ridurre in termini giuridici il problema di natura eminentemente filosofica e morale relativo alla definizione del “potere spirituale” e del “governo spirituale”. Per la soluzione del problema che interessa è sufficiente richiamare altre due norme le quali limitano il contenuto del “potere spirituale” esercitabile nello Stato, e più precisamente escludono dal “potere spirituale” esercitabile nello Stato certe particolari facoltà. Non si vuole dire che codeste facoltà non rientrino sostanzialmente nel “potere spirituale”; si vuole dire soltanto che non rientrano nel “potere spirituale” esercitabile nello Stato italiano alla stregua della legislazione italiana vigente.
La prima norma è quella dell’art. 43 dello stesso Concordato, con cui, oltre la prescrizione per l’azione cattolica di svolgere la sua attività al di fuori di ogni partito politico, è posto il divieto per tutti gli ecclesiastici e religiosi di iscriversi e militare in qualsiasi partito politico. La preoccupazione dello Stato espressa in tale articolo del Concordato è evidente: interdire, per i suoi fini, che il clero, al pari delle associazioni dipendenti, entrasse nel campo della politica. Ed essendo così, deve di certo ritenersi che l’intenzione dello Stato italiano fu lungi dal riconoscere che nelle facoltà del “potere spirituale” indicato nell’art. 1 e del “governo spirituale” indicato nell’arr. 2 rientrasse anche quella di svolgere attività politica. Se si ammettesse che il ministro del culto possa, nell’esercizio del suo potere spirituale, adoperarsi affinché i fedeli diano il voto all’uno o all’altro dei partiti politici, l’aspettativa dello Stato, per la quale lo Stato si intese garantire con l’art. 43, andrebbe delusa.
Nel caso concreto il parroco di S. Nicolò si adoperò proprio nel senso indicato. Nell’articolo, occorre sottolinearlo, egli parlò ai fedeli “delle prossime” elezioni per la preoccupazione che “non avessero a salire al governo della cosa pubblica” determinati partiti, e precisò che, pena la accennata sanzione spirituale, il voto non doveva essere dato ai comunisti. Non è dubbio che in tale modo egli, a parte il fine religioso, scivolò nel campo della politica specifica.
La seconda norma è quella dell’art. 79 che se ne occupa, perché, a guardare a fondo la cosa, è lo stesso art. 79 che qualifica l’abuso, è tale articolo che indica come non consentito l’adoperarsi a vincolare i suffragi, e vieta ciò che a tale punto che punisce penalmente la condotta attraverso cui può sorgere il pericolo di lesione alla piena ad assoluta libertà del voto. Non è necessario ricavare aliunde gli estremi dell’abuso; si ricavano dalla stessa norma che prende in considerazione l’abuso, perché non è possibile che sia consentito quello che la norma penale condanna.
È di grande importanza rammentare quello che risulta dai lavori preparatori: essi infatti forniscono elementi a conferma del punto di diritto più sopra affermato; e tanto più i lavori preparatori hanno valore nella fattispecie, in quanto essi sono dell’anno 1946 e cioè molto recenti. Le norme in questione trovano parallelo nell’art. 70 della legge elettorale politica vigente. Gli articoli sono perfettamente identici e hanno come precedenti storici più vicini, anch’essi identici, l’art. 122 legge elettorale 1915 e l’art. 112 legge elettorale 1928. In sostanza si tratta di una disposizione che si è trasmessa da tempi passati di grado in grado e di legge elettorale in legge elettorale. Solo che prima del decreto sulla elezione della Costituente, l’articolo era formato di due comma: il primo comma riguardava i pubblici funzionari, il secondo riguardava specificamente i ministri del culto: e, beninteso, i ministri del culto presi in considerazione erano principalmente i ministri di culto cattolico, minimo essendo in Italia il numero dei ministri di altri culti.
In sede di discussione della legge elettorale per la Costituente, avvenuta alla Consulta nazionale in assemblea plenaria il 21 febbraio 1946, la Commissione ripresentò l’articolo formato nei due comma; ed è qui utile trascrivere il secondo: “Le stesse pene si applicano ai ministri di un culto che, con discorsi in luoghi destinati al culto o in riunione di carattere religioso o con minacce spirituali si adoperano a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidatura, a vincolare i voti degli elettori a favore o in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o ad indurli alla astensione”. All’articolo così formulato furono proposti tre emendamenti: uno da Lucifero, il quale riprese una proposta Merlin-Piccioni; il secondo da Cappa; ed il terzo da Di Pietro. L’emendamento Lucifero importava la soppressione del capoverso puramente e semplicemente, come non aderente alla mutata situazione dei tempi e perché il sacerdote fosse completamente libero di diffidare i fedeli contro quei movimenti politici o sociali che fossero in contrasto con la fede. L’emendamento Cappa era subordinato al non accoglimento del primo ed importava un capoverso che parlava unitamente del ministro del culto e di tutti quelli rivestiti di un pubblico militare, parlava altresì di abuso di attribuzioni: con esso si intendeva, secondo il proponente, indicazione a sospetto di tutto il clero riscontrabile nell’articolo. L’emendamento Di Pietro tendeva anche esso a togliere all’articolo quel senso di asprezza che poteva urtare la suscettibilità dei sacerdoti, ed importava, benvero, la soppressione del capoverso, ma importava nello stesso tempo la menzione del ministro del culto nel 1° comma insieme al pubblico ufficiale, ecc., salvo una inversione di termini (“si adoperi” prima di “abusando”), che non turbava sostanzialmente il contenuto dell’articolo. La discussione fu accanita, si fecero esempi; ed alla fine furono respinti tutti e tre gli emendamenti.
Successivamente venne emanato il decreto luog. 10 marzo 1946 n. 74 sopramenzionato, nel cui art. 70 si ritenne utile accogliere l’emendamento Di Pietro, eccettuata quella certa inversione dei termini “si adoperi” e “abusando” e sostituendo alle parole “funzioni” l’altra “attribuzioni”. In conformità venne modificato l’art. 74 della legge elettorale comunale, il quale poi divenne l’art. 79.

manifesto propagandistico DC
Orbene, se questa è la storia dell’art. 79; se durante i lavori preparatori prevalse il concetto della maggioranza parlamentare e governativa intesa a tenere fermo il principio che fu esposto nella Assemblea plenaria della Consulta dal consultatore Di Pietro con queste parole: “A mio avviso, quando il sacerdote è chiamato ad esercitare le sue funzioni e come tale ha il diritto di parlare a nome della sua legge morale e religiosa, non ha affatto il bisogno e diritto di entrare nel campo di una competizione elettorale, e può insorgere per diritto contro il divorzio senza per questo scendere in una competizione per cui si dicesse: non votate per questa lista”; se il fatto di avere conglobato nel 1° comma il noto capoverso ebbe scopo di mutare la forma dell’articolo e di lasciare ferma la sostanza; se il capoverso puniva l’adoperarsi a vincolare i suffragi fatto… “con minacce spirituali”; se ciò è vero, tutto ciò costituisce una forte ragione a conferma dei punti di diritto sopra esposti.
Ricorre così anche l’abuso; epperò deve concludersi che la fattispecie concreta rientra nella fattispecie astratta prevista dall’art. 79 di che trattasi. Rimane a vedere se non ricorra la discriminante del l’adempimento di un ordine. In realtà il problema della discriminante suddetta non è stato neppure sollevato dalla difesa. Non può tuttavia questo Tribunale prescinderne, sia per ragioni di compiutezza dell’indagine, sia perché comunque la difesa ha creduto di produrre in giudizio copia del decreto del Sant’Ufficio 1° luglio 1949, copia della lettera pastorale dell’Episcopato Triveneto 27 luglio successivo, nonché il commento al decreto del Sant’Ufficio riportato negli atti vescovili del Bollettino della diocesi di Padova luglio-agosto 1949, il quale ultimo commento precisa che nel divieto di prestare appoggio (favorem praestare) del decreto del S. Ufficio è compreso anche quello di dare il “voto nelle elezioni”. Benvero la lettera pastorale e il commento suindicato contengono l’ordine di dare comunicazione e lettura del decreto, della pastorale e del commento stesso. E non è il caso di rilevare come gli atti suindicati, ed in particolare il commento, il quale è poi il solo a fare cenno del voto nelle elezioni, non dicono parola che la comunicazione e la lettura dovessero essere fatte proprio in occasione della campagna elettorale ed in funzione specifica delle elezioni. Interessa osservare invece che l’ordine suindicato non fu un ordine della pubblica autorità italiana, per cui ad esso non può essere riconosciuto valore giustificativo, né potrebbe giovare la possibile opinione che il parroco di S. Nicolò avesse circa la legittimità dell’ordine anche sul piano della legge italiana, perché tale opinione deriverebbe da ignoranza o errore di diritto, il quale, come è noto, non scusa se non quando cagiona un errore sul fatto costituente reato, il che nella fattispecie non ricorre di certo. (Omissis)
Per questi motivi, ecc.