Giuseppe Garibaldi fu amato da molte donne.
Ma la figura femminile passata alla storia come la leggendaria compagna del generale è certamente Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, o Anita come la chiamava lui.
Quella di Anita e Giuseppe Garibaldi è una storia d’amore fantastica. Leggenda vuole che Garibaldì la scorse da lontano con il cannocchiale nel luglio del 1839, mentre con la sua nave stava per attraccare a Laguna, in Brasile, dove, in esilio per la condanna a morte per i moti del 1834, stava combattendo tra le fazioni repubblicane contro l’impero “brasiliano”. Se ne innamorò all’istante, prima ancora di scoprire che oltre a essere “alta, col volto ovale, i grandi occhi neri e i seni prosperosi” era anche una donna dal carattere combattivo, orgoglioso, forte, pronta alla battaglia e abile cavallerizza: perfetta per il generale.
Si sposarono il 26 marzo 1842 a Montevideo. Anita ha 21 anni, il generale 35. Vissero insieme poco più che dieci anni. Anita muore infatti il 4 agosto del 1849, dopo una vita straordinaria, mentre in preda alle febbri malariche sta puntando con il marito alla volta di Venezia.

P. Bouvier – Garibaldi e il maggiore Leggero trasportano in fuga Anita morente (1850 circa)
Dopo la morte di Anita e il fallimento dei moti della fine degli anni ’40, Garibaldi ripartì ancora alla volta di Gibilterra, poi Liverpool e infine New York, dove lavorò con Antonio Meucci, l’inventore del telefono. Ripartì ancora per il Sud America, e poi ancora Cina, Australia e di nuovo Stati Uniti. Solo nel 1854 rientra in Europa e poi in Italia, dove è protagonista della seconda guerra di indipendenza.
Giunto nella (non ancora per molto) austriaca Lombardia, il 1° giugno 1859 incontra a Robarello (credo un piccolo comune, oggi non più esistente con questo toponimo, nei pressi di Varese) una nuova donna.
Si tratta di Giuseppina Raimondi, ha appena diciott’anni ed è figlia naturale (riconosciuta ma non legittimata) del marchese Giorgio Raimondi Mentica Odescalchi. Garibaldi ha perso Anita da dieci anni, ma nel frattempo ha amato altre donne, avuto figli e chiesto invano la mano della scrittrice Elpis Melena.
Garibaldi si innamora di Giuseppina con la quale inizia un carteggio appassionato al quale la ragazza rispondeva con fredezza, rifiutando le avances del generale, salvo poi improvvisamente accettare di sposarlo.

Giuseppina Raimondi
È il secondo matrimonio di Garibaldi. Si celebra a Fino Mornasco, in provincia di Como, il 24 gennaio 1860, nell’anno della spedizione dei mille. Milano e la Lombardia sono da poco state annesse al Piemonte.
Poco dopo il matrimonio (alcuni dicono addirittura appena un’ora..), Garibaldi fu informato del fatto la Raimondi aveva a lungo intrattenuto una relazione con l’ufficiale Luigi Caroli, dal quale aveva avuto anche un bambino un paio di anni prima che però non sopravvisse al parto. A dare la ferale notizia fu il maggiore Rovelli, a sua volta già amante della ragazza, invidioso del fatto che ella gli aveva preferito prima Caroli e poi Garibaldi.
L’eroe dei due mondi, nemmeno a dirlo, andò su tutte le furie: abbandonò su due piedi Giuseppina, e non volle mai più rivederla.
Di fatto i due rimasero sposati per vent’anni, il doppio del tempo che Garibaldi visse a fianco di Anita. Ironia della sorte, non c’era verso di annullare quel matrimonio. Non esisteva il divorzio e la legge austriaca vigente all’epoca della celebrazione in quanto non ancora sostituita da quella italiana che sarebbe stata di là da venire, era molto severa.
Nel 1879 Garibaldi, assistito da Pasquale Stanislao Mancini, chiese l’annullamento del matrimonio al Tribunale di Roma, anche d’accordo con la Raimondi che aderì alla domanda. Il Tribunale respinse la richiesta e i due coniugi impugnarono la sentenza alla Corte d’Appello di Roma che con la sentenza sotto riportata il 14 gennaio 1880, affrontando il rapporto tra la legge austriaca, il diritto italiano e il diritto canonico, dichiarò nullo il matrimonio, perchè rato e non consumato.
Grazie a questa storica sentenza, il generale poté sposare pochi giorni dopo, e appena due anni prima di morire, la donna con cui viveva già da tempo e dalla quale aveva avuto tre figli: Francesca Armosino, l’ultima moglie del generale.
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La Corte, ecc. — Ritenuto che il 24 gennaio 1860, nella villa di Fino presso Como, il generale Giuseppe Garibaldi e la minorenne Giuseppina Raimondi, si legarono in matrimonio col rito ecclesiastico richiesto dalla legislazione austriaca, consentendo al matrimonio dalla parte della sposa anche il di lei padre naturale marchese Giorgio Raimondi nell’assunta qualità di tutore; Che però ben diverse dalle auspicate, furono le conseguenze che ne derivarono. Imperciocché dissociati gli animi, per causa di notizie inaspettatamente giunte al generale Garibaldi sul conto della sposa, alla celebrazione delle nozze fece immediatamente seguito la risoluzione da lui presa di abbandonare suocero e sposa, come difatti avvenne, né più si avvicinarono; Che dopo 19 anni da che durava tra essi codesta anormale situazione, il generale Garibaldi convenne la Raimondi avanti il Tribunale civile di Roma con atto di citazione del 10 giugno 1879 nel quale, enunciate le circostanze di fatto surriferite, domandava: in causa delle medesime dichiararsi nullo il matrimonio celebrato colla Raimondi, sia per violazione delle forme sostanziali, sia perchè fu matrimonio semplicemente rato e non consumato. Alla quale domanda si uniformò anche la Raimondi sostenendo che il suo consenso non venne legittimamente autorato dal tutore, siccome esigeva il codice civile austriaco, in quanto che non doveva farsi a tale effetto e con la detta qualità intervenire al contratto di matrimonio il di lei padre naturale marchese Giorgio Raimondi assolutamente incapace di esercitare tale ufficio; ma il tutore ordinario che le era stato assegnato dal Tribunale di Como fin dal 23 agosto 1852 in persona di Onofrio Martinez. Onde alla sua volta concludeva: “dichiararsi la nullità del matrimonio seguito fra essa ed il generale Garibaldi addi 24 gennaio 1860, per invalidità del consenso dalla medesima prestato, con ogni conseguente effetto di ragione e di legge”; Che avendo il Tribunale, in conformità alle conclusioni emesse dal pubblico ministero, respinta la proposta azione di nullità con sentenza emanata il dì 16 luglio 1879, il generale Giuseppe Garibaldi ha interposto appello alla Corte, ed al suo appello ha fatto adesione la Raimondi come dalle rispettive conclusioni in principio trascritte; Villa Raimondi a Fino Mornasco Considerato in diritto che la proposta azione di nullità riferendosi alla legislazione matrimoniale vigente in Lombardia all’epoca del celebrato matrimonio (24 gennaio 1860), ed emanante dal concordato stipulato dal l’imperatore d’Austria colla S. Sede il 5 novembre 1855, è a vedere in primo luogo se codesta azione di nullità per i due capi suddetti abbia in realtà fondamento nel sistema di quella legislazione, ed in guisa che abbia mantenuto il suo valore giuridico e la proponibilità in giudizio, malgrado i sopravvenuti mutamenti legislativi; in secondo luogo se possa, nel caso, l’azione medesima ammettersi in quanto risulti provata la nullità del matrimonio per uno o per amendue i surriferiti capi, vale a dire o per difetto di legalità nel consenso della Raimondi, o perchè concorrano gli estremi relativi allo scioglimento del matrimonio rato e non consumato; Considerato che sebbene all’epoca del celebrato matrimonio di cui si tratta, la Lombardia fosse stata già unita in forza del trattato di Zurigo al regno di Piemonte, ed in conseguenza avesse cessato di far parte dell’Impero austriaco, nulladimeno secondo i principi di gius pubblico universalmente osservati, la legislazione civile austriaca non cessò in Lombardia di essere obbligatoria fino alla pubblicazione della legislazione civile italiana che doveva surrogarla Onde, per ciò che riflette in particolare le disposizioni relative ai matrimoni dei cattolici sancite nella Patente imperiale 8 ottobre 1856 e sue appendici promulgate in seguito al Concordato, mentre è certo che il concordato medesimo per sè stesso come patto internazionale fu rotto dal cambiamento di sovranità, è nel tempo stesso indubitato che le suddette disposizioni, siccome facevano parte integrale della legislazione civile austriaca, così rimasero tuttavia in vita continuando ad avere in quella provincia forza di legge obbligatoria fino all’emana zione delle leggi nuove. Quindi non può non ammettersi che il valore giuridico del matrimonio celebrato tra il generale Garibaldi e Giuseppina Raimondi in Lombardia il 24 gennaio 1860 deve essere giudicato alla stregua delle disposizioni contenute nella citata Patente imperiale e relative appendici, che come legge continuarono a regolare l’intera materia matrimoniale e non cessarono di avere valore che posteriormente, cioè in forza della legge 28 ottobre 1860 votata dal Parlamento sardo, la quale abolì la Patente imperiale, e del codice civile italiano pubblicato nel 1865 che abolì il codice civile austriaco; Considerato che dal complesso delle disposizioni medesime risulta che il legislatore austriaco nell’ intendimento «di porre in armonia le disposizioni del codice civile coi precetti della Chiesa cattolica (Patente, proemio)» attribuì sanzione e carattere di legge civile alle prescrizioni del diritto canonico sul matrimonio, di guisa che, entrate a far parte integrale della legislazione austriaca, si combinassero colle analoghe disposizioni del codice civile; e dove fossevi inconciliabilità avessero esse la prevalenza sulle correlative disposizioni del codice, le quali venivano perciò abrogate: «col giorno in cui entra in vigore questa legge restano abolite, in quanto si trovino colla medesima in contraddizione, tutte le disposizioni del codice civile generale relative al matrimonio dei cattolici (Patente, art. 13)». Or per ciò che attiene al primo dei dedotti capi di nullità, tra il codice civile austriaco, ed il diritto canonico intercedeva radicale opposizione circa le condizioni della capacità dei minori a contrarre matrimonio. Imperciocché secondo il codice civile, colui il quale non avendo compiuto gli anni 24 trovavasi costituito in età minorile (§ 21), non aveva capacità a contrarre validamente matrimonio, se non a condizione che col suo consenso concorresse quello del padre legittimo e nel caso che questo non esistesse, il consenso del tutore e del giudice (§§ 49, 50); mentre per contrario il diritto canonico, seguendo piuttosto le norme della legge di natura, toglie a criterio della capacità a consentire l’età in cui si diventa puberi, cioè di 14 anni per i maschi, e di 12 per le femmine, ed ammette che il matrimonio sia valido (benché illecito) anche senza il consenso dei genitori. Stante quindi la detta opposizione, le suaccennate disposizioni del codice civile austriaco rimasero abrogate, ed in cambio divennero leggi civili le correlative prescrizioni canoniche, le quali si trovano infatti sancite nelle appendici della Patente imperiale 8 ottobre 1856 (§ 4, app. 1, §§ 12, 17, 68, app. 2). Senza che possa trarsi ragione di dubitare da ciò che è disposto nel § 5 dell’appendice prima – ivi – «I minorenni ed anche i maggiori di età che da sè soli sono incapaci di obbligarsi giuridicamente non possono contrarre matrimonio senza il consenso del loro padre legittimo. Se il padre è morto od incapace di rappresentare i figli si esige per essi la dichiarazione del tutore o curatore ordinario, ed il consenso del giudice». Imperciocché nel sistema della Patente imperiale cosiffatta disposizione non stabilisce la incapacità del minorenne a contrarre matrimonio se manchi il consenso del padre o del tutore, né ha per sanzione la nullità del contratto nuziale, come l’avevamo le disposizioni del codice civile austriaco; ma importa semplicemente una prescrizione di forma, obbligatoria ben vero per i contraenti, ma senza altra sanzione che la penalità sancita nel § 32 della stessa appendice I : – ivi – «Se un minorenne contrae matrimonio senza avere ottenuto il necessario consenso del padre o del giudice, ambedue i genitori restano esonerati dall’obbligo di costituire la dote, o di contribuire per l’accasamento, ed il padre ha diritto di diseredarlo». Il che trovasi in perfetta analogia con quanto dispone il diritto canonico, che esigendo similmente il consenso dei genitori, annovera la mancanza di esso tra gl’ impedimenti soltanto impedienti, quelli cioè che non importano la nullità del matrimonio, ma semplicemente la violazione di un precetto della legge, punibile con pene disciplinari. Riesce pertanto affatto inutile e supervacanea la disquisizione: se possa per la validità del matrimonio celebrato fra il generale Garibaldi e Giuseppina Raimondi, ritenersi efficace il consenso prestato non dal tutore ordinario di costei Onofrio Martinez, secondo prescriveva il codice civile austriaco nei §§ 49 e 50, ma dal suo padre naturale marchese Giorgio Raimondi, che come tale non poteva aver sopra la medesima nè la patria potestà, nè l’autorità di tutore legittimo. Giacché avendo Giuseppina Raimondi, come consta dagli atti, raggiunta nel giorno del celebrato matrimonio col generale Garibaldi l’età di anni 18, è fuori di ogni dubbio che in forza delle disposizioni della Patente imperiale 8 ottobre 1856, abrogatorie delle disposizioni contenute nei citati paragrafi del codice civile, il matrimonio sotto tale rapporto dovrebbe ritenersi valido quand’anche non fosse affatto interceduto il consenso nè del padre, nè del tutore della medesima Giuseppina; Monumento equestre dedicato ad Anita Garibaldi al Gianicolo Considerato in ordine all’altro capo di nullità riflettente lo scioglimento del matrimonio, attesa la condizione di matrimonio rato e non consumato, ed il con corso delle giuste cause, che come trovasi questo rimedio a favore dei contraenti disposto nelle leggi canoniche, così fu dalla Patente imperiale adottato, e venne in conseguenza anche ad esso attribuito il carattere di legge civile (§ 21, app. 2). Nè ciò portò l’abrogazione di alcuna disposizione del codice civile austriaco. Imperciocché se la dispensa (che vale scioglimento) dal matrimonio rato e non consumato ben si concilia nel diritto canonico col principio giuridico e dommatico della indissolubilità del vincolo matrimoniale, non poteva non conciliarsi egualmente col sistema del codice civile austriaco, il quale non con tiene in proposito veruna contraria disposizione. La conformità anzi del detto titolo di annullamento colla legislazione civile del codice austriaco più apparisce manifesta, se si pone mente agli estremi dal di ritto canonico richiesti: cioè che il contratto matrimoniale (non il sacramento) sia rimasto fin dalla sua celebrazione incompleto, non integraliter perfectmn, per la mancata consumazione, e che siansi verificate le giuste cause, avendo in tale conto specialmente quelle circostanze di fatto che sono contrarie allo scopo del matrimonio. Imperciocché è evidente che questi estremi della dispensa si adattano perfettamente al duplice rapporto onde il matrimonio nella legislazione civile, come contratto, appartiene al diritto privato che interessa i contraenti, e come fondamento dell’ordine di famiglia attiene al gius pubblico interno che interessa lo Stato. Né varrebbe l’obiettare che nella legislazione ecclesiastica la dispensa dal matrimonio rato e non consumato concedevasi a titolo di mera grazia, per il che non poteva assumere nella Patente imperiale la diversa natura di diritto e azione giuridica. Contro tale obiezione stanno in primo luogo gli esaminati estremi della dispensa, cioè l’incompletezza del contratto matrimoniale ed il concorso di giuste cause, ciascuno dei quali estremi ha per se stesso indole giuridica; in secondo luogo la solennità del procedimento che impegnava per l’esame della causa e per la definitiva concessione della dispensa i Tribunali ecclesia stici ed il più alto grado della gerarchia di giurisdizione; in terzo luogo le forme giudiziali con le quali 11 procedimento svolgevasi in contradittorio delle stesse parti, quando vi fosse dissenso, e sempre in contradittorio dell’ ufficiale investito dell’ ufficio di difensore del matrimonio; in quarto luogo finalmente la giurisprudenza canonica, la quale ritiene che concorrendo le giuste cause, la dispensa dal matrimonio rato e non consumato abbia luogo non già tanquam simplex gratia ex equitate, ma piuttosto tanquam prudens adminis tratio justitiae ex juris necessitate. Non può quindi dubitarsi che il rimedio del quale si tratta, in forza della Patente imperiale 8 ottobre 1856 e relative appendici, passò a far parte della legislazione civile austriaca con la sua natura di rimedio legale giuridicamente efficace e giudizialmente proponibile. Dal che viene che essendo stato il matrimonio del generale Garibaldi con la Giuseppina Raimondi celebrato sotto l’impero della detta legislazione, non può non competere a ciascuno di essi anche al presente la facoltà di eccitare in proposito la giurisdizione dei Tribunali col proporre in giudizio la domanda di scioglimento del matrimonio rato e non consumato. E quanto alla competenza dei Tribunali a conoscere e dirimere cotàli cause, non può certamente formare difficoltà l’essersi questa competenza dalla legislazione austriaca lasciata alle autorità ecclesiastiche; imperciocché è principio inconcusso di diritto transitorio che le leggi nuove, mentre rispettano i diritti quesiti sotto le passate legislazioni, operano immediatamente e spiegano la loro efficacia modificatrice in ordine a tutto ciò che riflette la competenza ed il procedimento giudiziario. Essendosi quindi nella vigente legislazione italiana regolata la materia matrimoniale come cosa di sua assoluta pertinenza, ed essendosi perciò esclusa dai cancelli del diritto civile ogni competenza ecclesiastica, venne necessariamente attribuita alla magistratura italiana la giurisdizione e l’obbligo di conoscere e decidere sulle azioni di nullità e scioglimento di matrimonio scatenti dalle abolite legislazioni, qualunque sotto le medesime fosse stata l’autorità ecclesiastica cui tale giurisdizione competeva, e qualunque il modo con cui la giurisdizione medesima veniva esercitata. Ed infatti la patria giurisprudenza si è già in questo senso affermata per altri casi di scioglimento di matrimonio rato e non consumato, sui quali hanno le Corti d’appello pronunziato applicando le passate legislazioni (Corte di Genova, sentenza 21 luglio 1874, causa Brambilla-Rocca; Corte di Napoli, sentenza 23 dicembre 1867, causa Miglio-Angelillo). Maggior sussistenza non avrebbe l’altro obietto col quale si volesse sostenere che sotto l’impero del vigente codice civile sia cessata l’azione di cui si tratta, e ciò in forza dei principi che regolano la retroattività delle leggi relative allo stato delle persone. Qualunque sia l’opinione che voglia in tema generale seguirsi sugli effetti della retroattività di queste leggi, considerato lo stato delle persone per se stesso, ovvero in rapporto ai diritti di famiglia, indubitata cosa è che non possono estendersi a mutare in alcuna guisa le condizioni di legalità e di validità colle quali lo stato personale ebbe originariamente a formarsi. Il quale principio essendo incontrovertibile, specialmente rispetto al matrimonio per la sua indole giuridica essenzialmente contrattuale, fa si che all’azione di scioglimento di matrimonio promossa nell’attuale giudizio dal generale Garibaldi e consentita dalla Raimondi, non possa affatto ostare la retroattività delle leggi ora vigenti nella soggetta materia. Né potrebbe valere come contrario argomento ciò che in ordine al divorzio comunemente si ritiene, cioè che la esclusione o l’ammissione di esso in una nuova legislazione, diversa rispetto a ciò dalla passata, si applichi anche ai matrimoni sotto questa contratti. Im perciocché tra lo scioglimento del matrimonio rato e non consumato, ed il divorzio, passa questa sostanziale differenza giuridica, che mentre il divorzio suppone un matrimonio completamente costituito, secondo il concetto del gius comune, invece lo scioglimento del matrimonio rato e non consumato esige che si tratti matrimonio rimasto nei termini di non integralmente perfetto, secondo il concetto del gius canonico; di più il divorzio habet causarti depraesenti solamente, quando invece lo scioglimento del matrimonio rato e non con sumato, oltre le giuste cause che possono essere eventuali, richiede la condizione della non seguita consumazione, che necessariamente si va a collegare col fatto della celebrazione del matrimonio, e perciò fa acquistare al detto rimedio le stesse conseguenze giuridiche dell’azione di nullità; Considerato sul merito della domanda che i due estremi, cioè: la non consumazione del matrimonio, e le giuste cause, risultano nella fattispecie pienamente provati. Circa il primo, non può di esso, secondo le massime seguite dalla giurisprudenza, dubitarsi, quando a prova di tal fatto, di sua natura occulto, confessione delle parti concorrono efficaci presunzioni congetture desunte dalla qualità delle persone, la quale esclude ogni sospetto di mendacio; dall’improvviso erompere della discordia immediatamente dopo la celebrazione delle nozze; dalla pubblica voce e fama. Or come la confessione emerge chiaramente dalle comparse conclusionali delle parti essendovi dedotta la non consumazione del matrimonio, rimasto semplicemente rato, come uno dei capi di nullità del matrimonio medesimo, così per quello che riguarda la veracità di siffatta confessione considerata relativamente alla qualità delle persone, rende inutile ogni altra con siderazione la tempra dell’animo di Giuseppe Garibaldi più unica che rara. Ma rispetto alla Raimondi importa eziandio osservare che la medesima non solo afferma la non consumazione del matrimonio, ma anche l’inefficacia del suo consenso alle nozze per la ragione che fu autorizzato dal suo padre naturale, cui la legislazione austriaca interdiceva la patria potestà e l’ufficio di tutore legittimo, e nulladimeno esercitò su di lei nella detta contingenza l’autorità tutoria. Imperciocché intorno a ciò, messa da parte la questione giuridica, appariscono dai prodotti documenti provati due fatti: cioè che Giuseppina Raimondi aveva fortemente impegnati verso altri i suoi affetti; e che il movente delle nozze era interamente nell’animo ambizioso del marchese Giorgio Raimondi, come è rivelato dalle stesse parole della dichiarazione da lui emessa avanti la Pretura urbana di Como il giorno 6 gennaio 1860 «dichiara di confermare la propria istanza e di reputarsi ben fortunato di prestare come presta il proprio consenso pel matrimonio che la di lui figlia Maria Carolina Giuseppa intende contrarre col signor generale Giuseppe Garibaldi, il cui nome basta per dimostrare di quanta convenienza possa essere per la futura sorte della minorenne, sia per le qualità personali e morali del promesso sposo, quanto per la di lui posizione sociale, che per i meriti suoi verso l’intera nazione italiana formò di se stesso una vera gloria della patria». Le quali due circostanze ciascun vede quanto rendano maggiormente verosimile il fatto ingenuamente confessato eziandio dalla Raimondi, che cioè il matrimonio rimase nei termini di matrimonio rato e non consumato. Si aggiungono poi a comprova della stessa confessione da ambedue i coniugi emessa, e la presunzione che sorge dalla improvvisa discordia ed immediata loro separazione, e quella che viene dalla pubblica voce e fama; inquanto che dalle conformi dichiarazioni giurate di testimoni, superiori a qualunque eccezione, è provato: «che lo sposalizio fu celebrato nella Cappella privata di detta Villa (Fino), ma non appena uscito di chiesa il generale Garibaldi, sopravvennero fidati amici di lui a dargli comunicazione di gravi notizie a carico della sposa, le quali consistevano nel credersi che la medesima si trovasse da qualche tempo impegnata con passione verso un giovane signore, in seguito di che il generale Garibaldi partì immediata e dispettosamente dalla villa di Fino», che dopo quella improvvisa partenza «il generale Garibaldi e la famiglia Raimondi non si sono più riavvicinati e riveduti»; che tutto ciò «per voce pubblica diffusa notoriamente in Lombardia ed in altre parti d’Italia era generalmente conosciuto» Quindi è che, sia dalla confessione delle parti, sia dalle enunciate gravissime presunzioni, si ha nel caso la prova morale evidente della non seguita consumazione del matrimonio, la quale prova morale, secondo la canonica giurisprudenza, è sufficiente a ritenere il detto estremo pienamente provato (Sac. Cong. Cone, nelle cause Januen, 20 maii 1719, Gaudaven, 17 decem. 1843, Parisien, 26 junii 1858). Considerato quanto alla concorrenza delle giuste cause che queste debbono risultare dalla situazione di fatto creata ai coniugi dal complesso delle circostanze, dal quale apparisca che non siasi potuto tra essi stabilire il pacifico consorzio della vita coniugale, scopo precipuo del matrimonio, nè rimanga di ciò speranza nell’avvenire. Onde la massima ritenuta da tutti i canonisti che deve il rimedio di cui si tratta ammettersi «quando inter se ita essent, discordes conjuges ut in felices exitus absque remedii spe timeantur» (Sauchez De Matri. Disp. 16). Il che posto per indubitato, non può negarsi che le dette cause evidentemente concorrono a giustificare il domandato scioglimento del matrimonio del quale si tratta. Risulta infatti dalle surriferite circostanze che la discordia la quale eruppe tra il generale Garibaldi e Giuseppina Raimondi appena celebrate le nozze, quanto subitanea altrettanto fu completa e profonda, e tale costantemente si mantenne dal dì del celebrato matrimonio fino al presente, vale a dire per il corso di circa venti anni, di guisa che apparisce altresì in modo evidente che neppure alcuna speranza rimane che animi siffattamente discordi possano mai riconciliarsi. E a ciò si aggiunge che ambedue le parti non solo consentono allo scioglimento del matrimonio, ma concordemente lo implorano come rimedio alla loro pace e domestica felicità necessario La quale conforme intenzione dei coniugi è pure della giurisprudenza canonica apprezzata quando si unisce alle altre giuste cause che concorrono per lo scioglimento del matrimonio rato e non consumato; Per questi motivi, la Corte dichiara Giuseppe Garibaldi e Giuseppina Raimondi liberi dal vincolo del matrimonio celebrato in Como il 24 gennaio 1860; ed il matrimonio medesimo destituito di ogni conseguenza giuridica. (il Foro Italiano, 5, 1880, 161)