La vita
Santi Romano nasce a Palermo il 31 gennaio 1875. Si laurea nell’università della sua città nel 1896 dedicandosi successivamente, in modo esclusivo, nei primi venti anni del secolo, alla ricerca e all’insegnamento presso le Università di Camerino (1899-1902), di Modena (1902-1908), di Pisa (1908-1924) e, infine, di Milano e anche di Roma, dove tenne per incarico l’insegnamento di diritto costituzionale nel periodo successivo, in cui svolgeva l’ufficio di presidente del Consiglio di Stato.
L’origine palermitana è certamente decisiva per la formazione di Romano. A Palermo operava Orlando, che proprio nell’ultimo decennio del secolo aveva avviato la creazione della grande scuola giuridica nazionale, chiamando i giuristi a un impegno diretto a sostegno dello Stato nazionale.
Romano aderì immediatamente al progetto, sulla scia del maestro, collaborando ai primi volumi del Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano con alcuni saggi che costituiscono vere e proprie monografie nelle quali egli dimostra una padronanza assoluta della letteratura scientifica internazionale e, nello stesso tempo, un’acuta sensibilità nei confronti delle trasformazioni dello Stato, chiamato a nuovi compiti dalla società in fermento. Tale sensibilità accompagna tutto lo svolgimento della sua opera scientifica e trova il suo manifesto nella nota prolusione pisana del 1909 dedicata a Lo Stato moderno e la sua crisi, in cui la parola-chiave è ormai divenuta in modo esplicito crisi, nel senso che si percepisce nella società l’incedere progressivo di trasformazioni tali da mettere in crisi lo stesso Stato moderno, nella versione, a Romano coeva, di Stato nazionale di diritto.
È entro questo quadro che deve essere collocata la sua opera più nota, il saggio su L’ordinamento giuridico, del 1918, che nasce proprio dal tentativo di superare le più tradizionali concezioni normativistiche al fine di tornare a reperire il diritto nella società, proprio in quella società che si andava articolando in modo sempre più complesso, sempre meno contenuto e rappresentato dallo Stato medesimo.
Carico di tali inquietudini, Romano, all’avvento del fascismo, si pone di fronte al mutamento di regime. Diciamo subito che Romano non fu un giurista del regime, non predicò cioè mai il primato dei principi politici del regime. Si mantenne sempre fedele alla sua identità di giuspubblicista. Nello stesso tempo, proprio come giurista, ritenne possibile operare entro il regime fascista. Con una formula riassuntiva, potremmo dire che non fu giurista del regime, ma piuttosto giurista nel regime. In tale veste, operò come presidente del Consiglio di Stato, svolgendo un ruolo di primo piano sulla scena istituzionale, tra le alte cariche dello Stato. Nel profondo, agiva in lui, come in molti altri giuristi del suo tempo storico, la convinzione che lo Stato possedesse una sorta di ‘natura’, o anche ‘personalità’, intrinsecamente giuridica, che era compito – o forse addirittura ‘missione’ – della scienza giuridica custodire e preservare, nei confronti di ogni regime politico, indipendentemente dalla sua configurazione sul piano ideologico. Questa è anche la linea che lo stesso Romano seguì nel difendersi dalle accuse che gli furono rivolte dall’Alto commissariato dopo la caduta del regime: di aver sempre mantenuto una posizione di sostanziale indipendenza e di aver conseguentemente tutelato l’indipendenza della stessa istituzione che presiedeva. Romano fece appena in tempo ad assistere al dipanarsi del percorso che avrebbe condotto alla Costituzione repubblicana. Morì infatti il 3 novembre del 1947.
Lo Stato di diritto
Come ben si vede, l’impegno teorico di Santi Romano si distende in una pluralità di direzioni. Ma è come se in ciascuna di esse fosse contenuto un tassello di un mosaico da comporre. Lo si percepisce bene nel 1918, quando Romano pubblica la sua opera più impegnativa sul piano teorico, L’ordinamento giuridico. Lì è contenuta la sintesi, e il mosaico si completa. Lì finalmente c’è una nuova chiave di lettura che è data dal diritto come istituzione. L’istituzione è una realtà collettiva organizzata, entro cui una molteplicità di forze trova un ordine positivo, che è in sé diritto. La nuova chiave di lettura sostituisce per Romano quella vecchia, di stampo normativistico, che vede diritto solo in presenza di un rapporto giuridico tra due soggetti da regolare con una norma di condotta. Questa visione – che Romano considera di origine e stampo privatistico – non è più adeguata al nuovo tempo storico del Novecento, che non propone più solo, o tanto, rapporti tra individui, quanto, sempre più, soprattutto associazioni e organizzazioni, di uomini e di beni. Vi sono qui i partiti, le leghe, i sindacati, e anche le imprese. Queste sono le istituzioni, nella loro propria configurazione, per quanto subordinata alla macro-istituzione, ovvero allo Stato. Lì si deve cercare il diritto. Poi, la ricerca potrà dare diverso esito. Per Romano si trattava di perfezionare lo Stato liberale di diritto, di recuperare per quella forma di Stato una base più solida. Il discorso di Romano è interno al suo tempo storico e non ha nulla a che fare con il pluralismo che verrà, che sarà proprio del tempo successivo della democrazia e della Repubblica. Nel mezzo, tra l’età liberale e la democrazia, si pone il regime fascista che dell’immagine di una realtà concatenata e disciplinata di istituzioni tenterà di dare una versione totalitaria.