La vita
Mancini nacque il 17 marzo 1817 a Castel Baronia (Avellino) da Francesco Saverio e Maria Grazia Riola. Nel 1832 si trasferì a Napoli per studiare giurisprudenza, ma frequentò poco l’università, preferendo l’affollatissima scuola privata dell’abate Furiati ed entrando poi nello studio di Giuseppe e Carlo Poerio. Ancor prima della laurea, conseguita nel febbraio 1844, cominciò a esercitare l’avvocatura cui si dedicò ininterrottamente, con grande intensità ed eccezionale successo, fino ai suoi ultimi giorni.
Nel corso degli anni Quaranta Mancini fu tra i protagonisti del movimento liberale a Napoli, battendosi specialmente per la libertà di stampa e di commercio e per la riforma del sistema carcerario. Nominato nel 1847, per un breve periodo, professore sostituto di diritto di natura presso l’ateneo napoletano, fu eletto nel parlamento del 1848. La pesante repressione seguita alla breve parentesi costituzionale lo costrinse, nel settembre 1849, a riparare a Torino, dove fu subito accolto nei circoli intellettuali e politici più influenti. Già nel 1850 fu chiamato a far parte della commissione per la revisione della legislazione civile e penale e preparò per il ministero vari progetti di legge. Titolare della cattedra di diritto internazionale pubblico e privato e diritto marittimo nel 1851, tre anni dopo fu nominato relatore nella commissione per la statistica giudiziaria, presieduta da Federico Sclopis, e nel 1857 consigliere del ministero degli Esteri per gli affari diplomatici e il contenzioso diplomatico.
Il 1859 e il 1860 – gli anni cruciali dell’unificazione italiana – proiettarono Mancini sulla scena politica in posizioni di crescente rilievo e lo videro svolgere un ruolo importante nel processo di unificazione legislativa e amministrativa. Nelle elezioni del marzo 1860 fu eletto alla Camera, dove si collocò con crescente autorevolezza tra i moderati della sinistra di Urbano Rattazzi, del quale fu per due settimane ministro della Pubblica Istruzione nell’effimero Ministero del marzo 1862. Alla morte di lui, nel giugno 1873, fu candidato da Giovanni Nicotera per succedergli nel ruolo di capo dell’opposizione, che però andò ad Agostino Depretis. Con la caduta della destra e la «rivoluzione parlamentare», ebbe nel marzo 1875 il dicastero della Giustizia (che tenne fino al 1878) nel ministero guidato da Depretis. Nel 1881, nel quarto governo Depretis, ebbe il ministero degli Esteri che diresse fino al 1885.
Morì a Napoli il 26 dicembre 1888.
Scienza giuridica e costruzione dell’identità nazionale
Mancini, come amava ricordare lui stesso, fu e si sentì innanzitutto un avvocato. Della sua straordinaria attività forense rimangono, a stampa, i settantasei volumi di allegazioni conservati nell’Archivio del Museo del Risorgimento di Roma. Accanto all’esercizio della professione, durante l’intero arco della sua vita, Mancini dedicò grandi energie anche alle iniziative culturali ed editoriali.
In forma epistolare era apparve a Napoli nel 1841 l’opera che gli diede notorietà e prestigio in tutta la penisola, e che raggiunse le sei edizioni, con qualche modifica e ampliamento, fino all’ultima livornese del 1875, con il titolo definitivo Fondamenti della filosofia del diritto e singolarmente del diritto di punire. Nel tentativo di conciliare ordine morale e realtà empirica tramite il diritto e i suoi principi universali, egli respingeva le tesi tanto degli «idealisti», quanto degli «utilitaristi», poiché gli uni e gli altri «mutilarono la natura umana», trascurando di valutare appieno «l’armonia» degli elementi che la componevano. A suo avviso il proprio del diritto era appunto realizzare
«la felice alleanza della ragione e de’ sensi, del reale coll’ideale, delle conoscenze a priori e delle sperimentali, della virtù e della felicità; e tutto per lo scopo del bene della Personalità Umana, considerata come mista dell’elemento morale e del sensibile».
Pertanto, la scala penale doveva ispirarsi a entrambi gli «elementi regolatori», prevedendo solo le pene «che non oltraggino la Morale, e che siano di maggiore Utilità produttrici», ed escludendo la pena di morte, le pene perpetue e quelle che «non lasciano speranza di emendazione».
Accompagnato dalla fama di valente avvocato e giurista, negli anni dell’esilio torinese Mancini non svolse solo incarichi di rilievo negli organi consultivi e ministeriali, ma, grazie al sostegno di Sclopis e Cesare Balbo e per decisione di Massimo D’Azeglio, ebbe la cattedra di diritto internazionale pubblico e privato e diritto marittimo. Iniziò i corsi nel gennaio 1851 con la celebre prolusione Della nazionalità come fondamento del Diritto delle genti alla quale principalmente è legata la sua fama in Italia e all’estero. Il testo, intriso di passione politica, traghettava nell’ambito del diritto «il domma della Indipendenza delle Nazioni», cardine delle ideologie politiche risorgimentali. Per Mancini la nazionalità consisteva in un complesso di elementi naturali e storici comuni a un popolo: il territorio, l’etnia, i costumi, le leggi e la religione e, soprattutto, la lingua. Ma l’elemento essenziale che in essa infondeva la vita era di carattere spirituale, era «la coscienza che ella acquista di sé medesima e che la rende capace di costituirsi al di dentro e di manifestarsi al di fuori» (Della nazionalità, cit., p. 35) ossia di darsi liberi ordinamenti e di assumere diritti e doveri sul piano internazionale.
All’interno di un discorso che esaltava la forza dei vincoli prodotti da una comune identità culturale, Mancini vedeva nella coscienza di essere parte di una nazione la legittimità dell’esercizio della sovranità statale nei confronti dei cittadini, e nella nazione il vero protagonista delle relazioni internazionali, la «monade razionale» della scienza del diritto internazionale. La nazione era un precedente logico dello Stato, la cui naturalità, necessità, storicità si contrapponeva all’artificialità e arbitrarietà di quest’ultimo. Lo Stato, tuttavia, non scomparve mai dal suo orizzonte. L’obiettivo di Mancini era infatti la costruzione di uno Stato nazionale, di uno Stato, cioè, che riuscisse a risolvere sia i conflitti politici sociali interni, rendendo inutile il ricorso a opzioni fondative di matrice illuminista, sia la relazione spesso conflittuale tra Stato/società e Stato/popolo, identificando la nazione con lo Stato. Lo Stato italiano era nazionale perché creazione della natura, ed era necessario ed eterno perché naturale. Tali concetti furono sviluppati in lezioni universitarie, discorsi parlamentari e altre prolusioni nell’arco di un ventennio.
La costruzione di un’identità nazionale presupponeva, tuttavia, anche l’unificazione legislativa e amministrativa. Della questione Mancini fu investito fin dall’autunno 1859: in ottobre ricevette da Rattazzi l’incarico di una missione segreta in Toscana per convincere il governo provvisorio ad adottare immediatamente i codici sardi (già estesi alla Lombardia), superando le resistenze autonomistiche che vi si opponevano. Sotto il nuovo ministero Cavour continuò a occuparsi delle trattative con Firenze e, ai primi di febbraio del 1860, fu inviato a Bologna dal ministro della Giustizia Giovanni Battista Cassinis per orientare l’attività della commissione legislativa emiliana. Quella per la riforma del codice civile, istituita nel frattempo a Torino, riuscì in breve, con il contributo determinante di Mancini, a fornire a Cassinis un progetto poi non approvato, ma che costituì la base dei successivi, sino a quello definitivo, promulgato nel 1865.
Sebbene fino allora avesse agito come deciso «centralizzatore», si schierò fra i critici della politica del governo nei riguardi del Mezzogiorno. Già in dicembre alla Camera, nel corso della sessione dedicata ai problemi del Sud, denunciò il profondo malessere delle province meridionali e la «lesione troppo estesa e profonda» provocata dalla «sistematica e non graduata demolizione» delle loro istituzioni (Discorsi parlamentari, 1° vol.,1893, pp. 39 e segg.). In sostanza restò sempre un esponente tipico del notabilato parlamentare di origine meridionale, benché nel suo caso ispirato a profondi convincimenti d’ordine costituzionale. Nella ferma difesa delle libertà individuali e delle garanzie statutarie, avversò la deriva autoritaria dei provvedimenti per l’ordine pubblico, le leggi speciali e la creazione nel Sud di una sorta di Stato d’eccezione. Nel 1863 attaccò duramente la legge Pica contro il brigantaggio e si espresse poi contro la sua proroga nel 1864. Nei numerosi, ripetuti interventi sui rapporti tra Stato e Chiesa – la questione romana, gli abusi dei ministri di culto, la legge sull’eversione dell’asse ecclesiastico (1867), la legge sulle guarentigie (1871) – si discostò risolutamente dalla linea già di Cavour e dei governi della destra, talvolta non senza punte anticlericali.
Il problema dei codici dell’Italia unita continuò a essere una delle sue preoccupazioni principali. In vesti diverse e con varia incidenza ne seguì passo passo la formazione. Lavorò a lungo, specie da guardasigilli, sulla questione del codice di commercio, che si concluse solo nel 1882. Riguardo al problema penale, intervenne provvisoriamente nel 1861 con un decreto luogotenenziale di parziale modifica per il Mezzogiorno del codice sardo. La battaglia per l’abolizione della pena di morte fu un impegno costante della sua vita, in unione con i penalisti italiani più influenti (Francesco Carrara, Tancredi Canonico, Pietro Ellero, Baldassarre Poli, Enrico Pessina, fra gli altri). Dopo vari tentativi infruttuosi, i suoi sforzi culminarono nel 1876 con i lavori preparatori al codice penale, che non ebbero l’esito sperato, ma che fornirono l’impianto ai successivi progetti, e che comunque gli permisero di ottenere la sospensione in tutto il regno dell’esecuzione di condanne a morte.
Isolato ormai dalla vita politica, fece in tempo a pronunciare alla Camera il 7 giugno 1888 un appassionato discorso in occasione della discussione generale sul nuovo codice penale (Discorsi parlamentari, 8° vol., 1897, pp. 590 e segg.) e a vedere approvato all’unanimità un ordine del giorno che aboliva definitivamente la pena di morte.
CRONACA
PASQUALE STANISLAO MANCINI – La figura di un grande giureconsulto è scomparsa nel 26 dicembre ’88 con la morte, a 71 anni, di quest’uomo insigne per la profondità e lucidezza della penetrazione, per la versatilità dell’ingegno, per la singolare potenza dell’eloquio.
Come in ogni altro ramo del diritto, in cui era egualmente maestro e donno, anche in quello del diritto penale lasciò tracce memorabili con l’opera sua nella cattedra, nel foro, nella tribuna parlamentare.
Grave è il lutto che ha colpito la scienza; né men grave è il rammarico ch’ei le sia stato perennemente conteso dalle molteplici e infinite cure professionali e politiche. Onde a quei gioielli che furono le sue lettere al Mamiani sul “fondamento del diritto di punire”, ben duole non abbia fatto seguire lavori degni della sua mente poderosa.
Ma una miniera inesauribile anche per la scienza saranno sempre le sue dotte orazioni forensi e parlamentari, ove soleva accumulare tanta copia di elementi e di studi, sviscerando da ogni lato i soggetti presi a trattare. E volle ventura che la sua lunga e luminosa carriera politica e scientifica si chiudesse col notevole discorso pronunciato nella tornata del 7 giugno ’88 in sostegno del nuovo Codice penale, quale presidente della Commissione della Camera. Purtroppo vi si presagiva prossimo il temuto tramonto; ma nella sua parola vibrava tuttora l’accento del leone, sebbene affranto, non domo. Egli, già tanto sofferente in salute, vi raccolse tutte le sue forze, e seppe trovar ancora dei momenti splendidi per i concetti e per l’eloquenza. Ed il più autorevole, tenace ed operoso avversario in Italia della pena di morte, poté avere il supremo conforto di provocare fra le acclamazioni dei colleghi, per la terza volta e definitivamente il voto abolizionista, egli che, come ministro, aveva inaugurato con tanto senno e fortuna l’abolizione di fatto del patibolo.
Al sovrano giureconsulto, all’amatissimo maestro, al sommo oratore, al nobilissimo campione delle riforme e dei progressi più generosi nelle sfere elevate della scienza, della Patria e dell’Umanità, la Rivista Penale, che egli onorò sempre della sua cortese benevolenza, invia costernata l’estremo vale.
