Nacque a Brienza (in Basilicata) l’8 dicembre 1748, primogenito di Tommaso e di Maria Anna Pastore.
Poco più che bambino si trasferì a Napoli per proseguire gli studi sotto la direzione di uno zio prete. Apprese il greco e il latino attraverso l’insegnamento privato di Giovanni Spena. Guidato da Gherardo Degli Angeli, si accostò alla poesia e al pensiero di Giambattista Vico. Negli anni della formazione universitaria ebbe modo di frequentare le lezioni di Antonio Genovesi, che lo incoraggiò a coltivare l’inclinazione per le scienze morali.
Laureatosi in giurisprudenza, diede un prova della sua cultura giuridica, d’impronta neoumanistica, nel Politicum universae Romanorum nomothesiae examen (Napoli 1768): opera pregna di ideali illuministici, in cui la riflessione storico-filosofica sul diritto romano trascorreva nella critica del presente e si accendeva nelle istanze di riforma della legislazione e della pubblica educazione. Di lì a poco ottenne la nomina a lettore straordinario di etica presso l’Università di Napoli.
Negli anni successivi intraprese la via del foro, conseguendo notevole risonanza come avvocato penalista, e cominciò a frequentare i circoli culturali e massonici dell’illuminismo napoletano. Si avvicinò – tra gli altri – a Gaetano Filangieri, al quale dedicò l’opera teatrale Gli esuli tebani (1782), e cui rese omaggio, dopo la prematura morte, con un commosso epicedio (1788).
La produzione drammaturgica di Pagano, collegata a un’approfondita riflessione estetica e animata dalla fiducia nella funzione civico-pedagogica del teatro, si arricchì in seguito di altre due tragedie, Gerbino (1787) e Corradino (1789), di un monodramma lirico, Agamennone (1787), e di una commedia, L’Emilia (1792).
Nel 1785 ottenne la cattedra universitaria di diritto criminale, prima in qualità di sostituto, poi come professore interino. Quattro anni dopo, fu nominato avvocato dei poveri presso il tribunale dell’Ammiragliato e Consolato di mare. Documento dell’attività da lui espletata in tal veste è il Ragionamento sulla libertà del commercio del pesce in Napoli (1789), nelle cui pagine – cariche di tensione morale – trovano espressione le sue idee economiche e le sue aspirazioni di progresso civile ed equità sociale. Alla fine del 1794 passò dalle funzioni di avvocato alla carica di giudice del medesimo tribunale.
Nel corso del decennio precedente aveva pubblicato le sue due opere principali: i Saggi politici (1783-85) e le Considerazioni sul processo criminale (1787). Lasciò inediti invece – nonostante i propositi contrari più volte ribaditi – i lavori sul diritto penale sostanziale e sulla teoria delle prove, che – confluiti nelle lezioni del suo corso universitario – apparvero postumi all’inizio del XIX secolo, sotto i titoli Principj del codice penale (Milano 1803; Napoli 1806) e Logica de’ probabili (Milano 1806; Napoli 1806).
Sulla base di una dottrina giusnaturalistica dei diritti umani, Pagano sviluppava in queste opere una riflessione sul fondamento, i limiti e l’organizzazione del potere pubblico, che si articolava in una concezione dello Stato come strumento di protezione degli individui, in una teoria del diritto penale come tecnica di garanzia della vita e della libertà personale, in una visione repubblicana della convivenza civile e della giustizia sociale. Distante dall’ideologia dell’assolutismo illuminato, egli giungeva così a occupare le posizioni politicamente più avanzate (e conseguentemente più esposte) dell’illuminismo meridionale.
Quando apparve la prima edizione dei Saggi Pagano dovette difendersi pubblicamente dall’accusa di aver professato dottrine contrarie all’ortodossia religiosa e di «aver biasimato l’aristocratico e monarchico governo lodando soltanto la democrazia». In effetti, dalla sua teoria dei regimi politici prorompeva un’ideologia spiccatamente repubblicana. Nello specchio dei Saggi, il governo monarchico appariva spoglio di ogni connotato attrattivo. La repubblica democratica, per converso, era celebrata come dimensione politica dell’emancipazione umana: come spazio privilegiato del vivere civile, secondo virtù, giustizia e libertà.
Il repubblicanesimo di Pagano infiammava anche i versi de Gli Esuli tebani, il cui intreccio narrativo – culminante nella rivolta patriottica contro il tiranno Leontida – inscenava le polarità etico-politiche libertà/oppressione, arbitrio/giustizia, despota/cittadini. La superiorità della repubblica sul regime monarchico era poi ribadita nelle Considerazioni sul processo criminale, dove Pagano tornava a esaminare la storia dell’ordinamento politico romano nella sua involuzione dispotica e nella sua dimensione paradigmatica. Assimilando le monarchie contemporanee all’esecrato governo dei Cesari, si spingeva a sentenziare, con Rousseau, che «dai moderni lessici doveasi cancellare il nome di patria e di cittadino», vuoti di significato oltre i confini politici della civitas repubblicana.
Non meno eterodossa appare la dottrina del diritto pubblico, imperniata sul nesso tra difesa delle libertà individuali e limitazione del potere attraverso l’affermazione del principio di legalità. Rivendicando la titolarità dei diritti politici in capo a tutti i cittadini di condizione sociale e culturale adeguata alla gestione della cosa pubblica, Pagano contestava obliquamente il monopolio monarchico della sovranità. Inoltre, sotto l’evidente suggestione delle rivoluzioni contemporanee, affermava la necessità della codificazione costituzionale per assicurare i diritti degli individui e disciplinare i poteri dello Stato. Infine, affrontava il problema dell’effettiva normatività di una legge fondamentale così concepita, delineando la fisionomia di una nuova istituzione: un «tribunale supremo», eretto a «baluardo della costituzione», incaricato di sorvegliare la «linea, che non debbon oltrepassar coloro che esercitano le sovrane funzioni».
Sul versante processuale, Pagano sviluppava le sue Considerazioni richiamandosi ai modelli della Roma repubblicana e dell’Inghilterra contemporanea. La procedura penale continentale di matrice romano-canonica era oppugnata in ragione della sua inidoneità ad assicurare la protezione degli innocenti e la condanna dei colpevoli. La critica investiva tutti gli elementi connotativi del processo inquisitorio: dalla carcerazione preventiva alla segretezza e alla forma scritta dell’istruzione probatoria, dalla posizione di inferiorità della difesa rispetto all’accusa alla confusione tra organi requirenti e giudicanti. In radicale alternativa, Pagano prospettava un paradigma procedurale strutturato sulla presunzione di innocenza e la libertà personale dell’imputato, sulla pubblicità e l’oralità del rito, sulla parità e il contraddittorio tra le parti, sull’imparzialità e la collegialità dell’organo giudicante.
Dalla cattedra di diritto criminale, Pagano poté diffondere queste idee per un decennio: fino a quando, insieme con la docenza e la carica di giudice, perse la libertà. Venne travolto dalla macchina inquisitoria messa in moto dopo la scoperta della congiura antimonarchica del 1794. Inizialmente fu coinvolto nella Gran causa dei rei di Stato in qualità di avvocato difensore di alcuni imputati. Nel febbraio 1796, tuttavia, il suo ruolo cambiò tragicamente: denunciato come filogiacobino, fu incarcerato per ordine della Giunta di Stato.
Scarcerato il 25 luglio 1798 per mancanza di prove a suo carico, Pagano cercò asilo a Roma, trovando buona accoglienza da parte della classe dirigente della neonata Repubblica Romana. Pubblicò un discorso Sulla relazione dell’agricoltura, delle arti e del commercio allo spirito pubblico, propugnando la regola della progressività delle imposte, e fu chiamato a insegnare presso il Collegio Romano su una cattedra di diritto pubblico creata appositamente per lui. Non ebbe il tempo, però, di assumere il nuovo incarico: il precipitare degli eventi bellici, lo costrinse nuovamente alla fuga. Rifugiatosi a Milano, vi soggiornò fin quando le truppe francesi non conquistarono il Regno di Napoli nel gennaio 1799.
Tornato in patria all’inizio di febbraio, visse da protagonista la breve – ma intensissima – esperienza della Repubblica Partenopea. Immediatamente nominato membro del Governo provvisorio, tenne per un periodo la presidenza del Comitato di legislazione e poi quella della Commissione legislativa.
Partecipò al dibattito sull’abolizione dei fedecommessi, affermando il principio di uguaglianza tra primogenito e figli cadetti come canone del diritto ereditario. Nella successiva, lacerante discussione sulla legge feudale, si distinse tanto dal fronte oltranzista dei radicali quanto dalle posizioni prudenti e compromissorie dei moderati, proponendo, da un lato, di abolire tutti i diritti personali, proibitivi, fiscali e giurisdizionali connessi al feudo, dall’altro, di verificare caso per caso la titolarità dei diritti patrimoniali sulle terre feudali.
Obiettivo di Pagano era la realizzazione di una profonda redistribuzione delle ricchezze, a partire da un’incisiva riforma perequativa degli assetti della proprietà terriera. In coerenza con l’ispirazione ideologica tendenzialmente egualitaria prorompente da tutta la sua opera di pensatore politico, egli intendeva ridurre le disparità economiche ereditate dal passato per dar vita a un’equa società repubblicana. Nelle sue proposte legislative trovavano rispecchiamento la sua dottrina giusnaturalistica del diritto alla terra come corollario del diritto alla vita e la sua visione della repubblica come regime politico fondato sulla piccola proprietà.
Messo in minoranza nei dibattiti sulla riforma del diritto successorio e sull’eversione della feudalità, influì invece, in maniera determinante, nell’elaborazione delle leggi sull’abolizione della tortura, sulle prove nel processo criminale e sull’organizzazione del potere giudiziario, nelle quali trovarono positivizzazione molte delle proposte riformatrici d’indirizzo garantistico propugnate nelle Considerazioni e nelle lezioni universitarie.
Il documento più rilevante della sua attività di legislatore resta il Progetto di Costituzione della Repubblica napoletana, presentato al Governo provvisorio dal Comitato di legislazione all’inizio di aprile 1799.
A differenza delle altre costituzioni degli Stati italiani conquistati dagli eserciti francesi, le quali ricalcano pressoché pedissequamente il modello termidoriano dell’anno III, il testo ispirato da Pagano se ne discosta sotto diversi profili, palesando tratti di indubbia originalità. La sua peculiare identità ideologico-politica si delinea attraverso le variazioni normative e le innovazioni istituzionali, integrate dalla Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo, del cittadino, del popolo e de’ suoi rappresentanti, dalle norme sulla «educazione pubblica», dall’introduzione del «tribunale di censura» e, soprattutto, dal titolo XIII relativo a La custodia della Costituzione. Di chiara impronta paganiana sono i 31 articoli di quest’ultimo, in cui sono fissate le competenze, le regole di funzionamento e la composizione del «corpo degli efori». Già prefigurato nella seconda edizione dei Saggi, tale «tribunale supremo», incaricato della «custodia della costituzione e della libertà».
Tra il maggio e il giugno 1799, Pagano tentò di difendere il periclitante regime repubblicano, prima con una serie di leggi emergenziali poi con le armi. Dopo la capitolazione dei patrioti, fu imprigionato dagli inglesi, consegnato ai borbonici e condannato a morte dalla Suprema Giunta di Stato.
La sentenza fu eseguita per impiccagione, sul patibolo di piazza del Mercato a Napoli, il 29 ottobre 1799.