Quando il governatore Lord Glasgow il 19 settembre 1893 firmò una nuova legge elettorale, la Nuova Zelanda diventò il primo Paese autonomo al mondo in cui le donne avessero il diritto di votare alle elezioni parlamentari, guadagnandosi così la fama di laboratorio sociale all’avanguardia che ancora oggi accompagna, non a torto, il Paese. Nella maggior parte delle altre democrazie, infatti, le donne avrebbero ottenuto il diritto di voto solo dopo la prima guerra mondiale.
L’Electoral Bill del 1893 giungeva al culmine di numerosi anni di agitazione, in cui varie organizzazioni, tra cui spiccava la Women’s Christian Temperance Union (WCTU), si erano battute per l’estensione del diritto di voto alle donne. Già due tentativi di introduzione del Bill erano stati esperiti nel 1891 e nel 1892, entrambi falliti sotto le pressioni dei rappresentanti del settore dei liquori, spaventati che l’elettorato femminile potesse favorire i proibizionisti.
La terza volta fu quella buona: i tentativi di sabotaggio della legge, seppure sostenuti dal premier Richard Seddon, andarono a vuoto e l’8 settembre il progetto di legge fu approvato con 20 voti contro 18.
Più di 90.000 donne neozelandesi si recarono alle urne il 28 novembre 1893 per la prima volta. Nonostante gli avvertimenti degli oppositori, convinti che le donne potessero essere molestate alle cabine elettorali, il giorno delle elezioni l’atmosfera era rilassata, persino festosa.
La strada per l’uguaglianza politica era però ancora lunga. Le donne non avrebbero ottenuto il diritto di candidarsi al Parlamento fino al 1919 e la prima deputata fu eletta solo nel 1933. Nel frattempo, le donne italiane dovevano aspettare ancora 12 anni per ottenere il diritto di voto.