Nei primi viaggi transoceanici la presenza di missionari, accanto ai navigatori e ai conquistadores, era una costante. Tuttavia, se questi ultimi affrontavano i rischi della pericolosa traversata attirati dalla prospettiva delle favolose ricchezze del “nuovo mondo”, i missionari, per il voto di povertà, erano sostenuti esclusivamente dalla volontà di propagare il Vangelo fino ai confini della terra.
I funzionari civili giustificavano le proprie angherie dietro l’opinione (mendacemente attribuita al superiore domenicano del Messico, de Betanzos) secondo cui gli “indiani” non sarebbero stati dotati di anima ragionevole, considerandoli pertanto alla stregua di bruti.
Queste aberrazioni generarono una lotta diuturna dei religiosi, guidati dal Las Casas, contro la crudeltà degli sfruttatori, che culminò nelle lamentele inviate a Roma dai domenicani per il tramite del vescovo di Tlaxcala.
Paolo III, influenzato anche dalle opinioni del teologo domenicano Francisco de Vitoria, autore della Relectio de Indis (1532), in cui sosteneva che le popolazioni amerinde godessero del diritto nativo alla libertà, dignità, proprietà e, soprattutto, alla loro qualità di «uomini ragionevoli», rispose, proprio il 2 giugno 1537, con la bolla Sublimis Deus (nota anche come Veritas ipsa o Excelsus Deus), la quale seguiva di tre giorni un breve analogo, inviato all’Arcivescovo di Toledo Juan de Tavera.
Il Papa, dopo avere qualificato «menzogna satanica» l’opinione secondo cui una o più razze sarebbero state escluse dalla Redenzione, invitava piuttosto a favorire le conversioni tramite la predicazione e i «buoni costumi», vietando la riduzione in schiavitù e la depredazione non solo degli amerindi ma anche di quei popoli «che in avvenire potranno essere ancora scoperti».
A sanzione, il Pontefice comminava la nullità di ogni atto passato e futuro contrastante con il contenuto della Bolla e la scomunica “specialmente riservata” ai trasgressori, salvo pericolo di morte.
Seppure il provvedimento sortì scarsi risultati pratici, tanto che nella stessa Roma permaneva la prassi di tenere schiavi non cristiani, quello che ricordiamo oggi resta uno tra i contributi più importanti dell’ordinamento ecclesiale alla promozione dell’uomo e costituisce senza dubbio uno degli antecedenti dell’enucleazione di quel corpus di “diritti umani”, che ha trovato definitivo riconoscimento nel secolo scorso.

Sublimis Deus
Paolo (III) vescovo, servo dei servi di Dio, a tutti i fedeli in Cristo che leggeranno questa lettera, salute e benedizione apostolica.
Il Dio sublime così amò il genere umano, che creò l’uomo in maniera tale che non solamente potesse partecipare del bene come le altre creature, ma anche potesse raggiungere il sommo bene inaccessibile e invisibile, e potesse vederlo faccia a faccia; e per quanto l’uomo sia stato creato per raggiungere la vita e la beatitudine eterna, come testimonia la sacra scritture, che nessuno può conseguire, se non attraverso la confessione della fede in Nostro Signore Gesù Cristo, è necessario che possieda le doti naturali e la capacità perché possa ricevere la fede in Cristo, e chiunque di tali doti sia provvisto è capace di ricevere la stessa fede.
Né è credibile che esista alcuno con così poco intendimento da desiderare la fede e tuttavia essere privo delle facoltà necessarie per ottenerla.
Dunque la verità stessa (Gesù Cristo), che non ha mai errato né può errare, quando destinò i predicatori della fede al compito della predicazione, disse: Andate, ammaestrate tutte le genti (Mt 28,19).
Tutte, disse, senza eccezione, poiché tutti sono capaci di essere istruiti nella fede.
Questo vedendo e invidiando il nemico del genere umano, che avversa sempre le buone opere affinché periscano, escogitò un modo inaudito per impedire che la parola di Dio predicata alle genti le facesse salve, e incitò alcuni dei suoi accoliti, i quali volendo soddisfare il suo compiacimento, presumono di asserire che gli indiani occidentali e meridionali e le altre genti, di cui in questi tempi giunse a noi notizia, con il pretesto che ignorano la fede cattolica, devono essere sottoposti ai nostri ossequi come muti animali.
Noi dunque che, sebbene immeriti, esercitiamo sulla terra le veci di Nostro Signore, cerchiamo con ogni sforzo anche le pecore del suo gregge a noi affidate che sono fuori dal suo ovile, per ricondurle allo stesso ovile.
Consideriamo gli stessi indiani come veri uomini, non solo capaci di ricevere la fede cristiana, ma come ci hanno informato, prontissimi ad accorrere alla stessa fede.
E volendo a queste cose provvedere con congrui rimedi, (determiniamo e dichiariamo) che i suddetti indiani e tutte le altre genti delle quali giungerà notizia in futuro ai cristiani, anche se sono fuori della fede in Cristo, non siano privati della loro libertà e del dominio delle loro cose.
Di tali libertà e dominio, possono usare e possedere e godere, liberamente e lecitamente, e non devono essere ridotti in servitù. E se accade il contrario, sia invalido e nullo.
E i suddetti indiani e le altre genti devono essere invitati alla fede in Cristo con la predicazione della parola di Dio e l’esempio di una buona vita.
E la presente lettera sia trascritta a mano da qualche notaio pubblico sottoscrivente, e sia munita del sigillo di qualche persona costituita di dignità ecclesiastica, così da essere fornita della stessa fedeltà come se fosse fornita dall’originale, con la presente determiniamo e dichiariamo con autorità apostolica.
Nonostanti le cose suddette e contro chiunque agisce contrariamente.
Data in Roma nell’anno 1537, 2 giugno, nel terzo del nostro pontificato.