Il concetto di “rivolta” è oggi, almeno in area occidentale, generalmente associato ad istanze progressiste. Si protesta (più o meno pacificamente) per cercare di sensibilizzare l’opinione pubblica verso istanze sociali e ottenere così il riconoscimento di nuovi diritti. Eppure la storia presenta anche una moltitudine di “rivolte” realizzate non per promuovere un cambiamento nella società, ma anzi per conservare lo stato esistente delle cose. Basti pensare alle insorgenze registratesi diffusamente nei territori italiani (dal Piemonte alla Lombardia, sino allo Stato pontificio e ai territori dei Borbone) contro i nuovi governi istituiti in seguito alle campagne militari francesi tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX o ai conflitti civili della Vandea, scoppiati nella Francia rivoluzionaria e mai totalmente sopiti sino alla definitiva caduta di Napoleone.
Stupisce tuttavia che una sommossa di questo tipo (seppur con esiti decisamente meno drammatici) si sia registrata nel Regno di Sardegna addirittura negli anni ’50 dell’Ottocento, ovvero dopo la concessione dello Statuto albertino.

Ci si riferisce alla cosiddetta “rivolta degli zoccoli” avvenuta in Valle d’Aosta, episodio poco conosciuto e approfondito anche dagli storici locali e che coinvolse, negli ultimi tre giorni del 1853, migliaia di contadini e commercianti, turbando la politica di modernizzazione del regno di Sardegna che Cavour stava portando avanti rafforzato dal successo elettorale raggiunto nel medesimo anno e dall’alleanza stretta con Rattazzi.
Il primo focolaio dell’insurrezione si registrò a Champorcher (paese situato nella parte più meridionale della Valle d’Aosta) dove il 25 dicembre, in concomitanza con la pubblicazione nell’albo del paese di una nuova imposta patrimoniale personale, decine di paesani si riunirono davanti alla chiesa del paese al termine della funzione natalizia.

A ben vedere la pubblicazione della nuova imposta non fu che il casus belli: fin da subito i rivoltosi – malamente armati e disorganizzati – decisero di risalire la Valle marciando verso Aosta per chiedere oltre alla cancellazione della suddetta imposta anche l’abolizione dello Statuto (con il recupero da parte del sovrano di tutte le proprie prerogative) e il ripristino di alcune feste religiose che erano state appena soppresse dallo stesso pontefice (dettaglio ovviamente trascurabile per un folla inferocita…). Presto la rivolta scoppiata disordinatamente a Champorcher assunse quindi i connotati di lotta antigovernativa, volta ad abbattere le istituzioni costituzionali introdotte da Carlo Alberto con lo Statuto. Inoltre la politica anticlericale portata avanti in quegli anni dal Governo ebbe probabilmente l’effetto di suscitare in parte del clero valdostano una certa simpatia verso la turba che si stava radunando al grido di “Vive le Roi”, “Vive le Pape” e di “sopprimere i carbonari”. Lo stesso nome che il movimento insurrezionale assunse, ovvero “terza rivolta degli zoccoli” (les socques, dal nome della tipica calzatura indossata dalla maggioranza della popolazione rurale valdostana), voleva in qualche modo segnare una continuità ideale con le due sollevazioni “antigiacobine” che si registrarono ad inizio del XIX secolo, quando la Valle ed il Piemonte erano occupate dai francesi; è possibile che, in un certo qual modo, il “nuovo giacobinismo” che si voleva abbattere venisse identificato con le riforme cavouriane, a cui si imputava di voler stravolgere le inveterate tradizioni locali.
I pochi insorti, partiti da Champorcher, raggiunsero Pontbozet ed il 26 dicembre Donnaz, e poi Hône, Arnaz, Verrés, Monginevro e Châtillon, arrivando a vantare tra le proprie fila diverse centinaia di persone che si unirono ad essi durante il tragitto. L’obiettivo finale era Aosta, per convincere anche la popolazione dell’alta Valle a sollevarsi per poi marciare verso Torino e liberare il re Vittorio Emanuele II che si vociferava essere tenuto “prigioniero” da qualche non precisato nemico della religione cattolica e della monarchia sabauda.

Giunti a Villafranca, gli insorti vennero intercettati dal consigliere comunale e provinciale, conte Edoardo Crotti di Costigliole, dall’Intendente di Aosta Racca e dal vescovo di Aosta monsignor André Jourdain, che erano scesi appositamente da Aosta per cercare di convincere i rivoltosi a desistere dai loro intenti. Fallito questo tentativo, le predette autorità decisero di mettersi in viaggio verso Aosta insieme alla folla nell’estremo tentativo di tenere sotto controllo la precaria situazione.
Una scelta ancora più di compromesso venne assunta il giorno successivo (il 29 dicembre) alle porte di Aosta, quando, per evitare una carneficina (ad Aosta infatti si erano barricati 500 uomini della Guardia Nazionale pronti ad aprire il fuoco al primo segnale di ostilità), l’Intendente Racca raggiunse un accordo con i rivoltosi (che nel frattempo avevano raggiunto il numero di circa 4000) promettendo una generale impunità a patto che venissero subito deposte le armi e che tutti entrassero ad Aosta pacificamente per poi fare ritorno il giorno successivo alle rispettive abitazioni.

Questa “resa” venne accettata, e la notte ad Aosta trascorse senza alcun disordine, ma il giorno dopo circa un migliaio di persone che erano ancora accampate ad Aosta vennero dapprima radunate con il pretesto di trovar per essi un ricovero e successivamente incarcerate. Su pressione del procuratore del Governo (violando così la promessa di impunità dell’Intendente Racca), venne messa in moto l’azione penale contro di essi, e un’ottantina fra i malcapitati vennero rinviati a giudizio.
Il processo che si celebrò in seguito agli avvenimenti del dicembre del 1853 si tenne dinnanzi alla Corte d’Appello di Torino.

L’accusa contestata agli imputati era gravissima: attentato contro la forma di Governo.
Il dibattimento di per se fu breve, appena tre mesi (dal gennaio a marzo del 1855), ma prima di arrivarci gli accusati vennero trattenuti in carcere per circa 14 mesi al forte di Bard, dal quale alcuni riuscirono anche ad evadere con una rocambolesca fuga.
Gli imputati furono 78 ma, sin dall’inizio del dibattimento, fu chiaro che ad essere alla sbarra non erano solo questi ultimi: come infatti aveva riferito alla Camera dei Deputati – a pochi giorni dalla fine del tumulto – il ministro degli Interni Di San Martino:
«V’ha un partito che io non voglio ancora accusare perché è aperto un processo, e non è missione d’un ministro il precorrere la sentenza dei giudici».
Si dava in sostanza per scontato che ad essere sotto processo fosse una classe politica intera, ovvero quel partito filo-clericale (e lo stesso clero valdostano) che era stato indicato come il vero istigatore e promotore della rivolta.
Per questa ragione l’attenzione dell’opinione pubblica si spostò immediatamente sulla sorte dei quattro sacerdoti che, a vario titolo, erano stati accusati di aver fomentato i rivoltosi, ovvero Nicola Marguerettaz, Alessandro Menabrea, Alessandro Belley e Giovanni Antonio Gorret. Il pubblico ministero nella sua requisitoria finale chiese per il Menabrea 10 anni di lavori forzati; per il Marguarettaz 5 anni di confino nella città di Biella; per il Gorret ed il Belley 5 anni di prigione e 1000 lire di multa.
La differente pena richiesta dipendeva ovviamente dalle diverse condotte che vennero contestate agli imputati. Secondo il pubblico ministero Marguerettaz avrebbe dovuto essere condannato per «aver eccitato lo sprezzo ed il mal contento contro il Governo» con pubblici discorsi contro lo Statuto e le imposte. Assai più grave fu la contestazione mossa contro Alessandro Menabrea il quale venne accusato di aver indossato abiti civili e di essersi unito agli insorti il 29 dicembre «prendendo tutte le munizioni che aveva». Per tal ragione Menabrea fu accusato di associazione criminale col fine di sovvertire l’ordine pubblico e la forma di governo. Gorret e Belley furono invece accusati di essere stati complici dell’attentato alla forma di governo (ma di non averne preso parte direttamente come Menabrea) per aver, il primo, pronunciato la frase «sia benedetta la sedizione, ma sia pura da qualunque violenza alle persone» e per aver, il secondo, benedetto una banda di insorti ad Anthey-Sant’André. La posta in gioco era quindi alta, e ciò spiega la partecipazione a questo processo dei più importanti avvocati penalisti dell’epoca, chiamati dal vescovo di Aosta Jourdain a difesa dei parroci accusati come Giuseppe Buniva, Raffaele Conforti, il barone Luigi Borsarelli e Virginio Tonso. Si trattava di accademici e uomini politici di spicco, non tutti tra l’altro di simpatie clericali (alcuni anzi negli anni successivi sostennero in qualità di parlamentari la legislazione anti ecclesiastica portata avanti nel regno di Sardegna e poi nel Regno d’Italia).

Esaurito il dibattimento la sentenza venne letta in pubblica udienza il 9 marzo 1855 e dei 78 imputati 14 vennero assolti (tra cui i 4 sacerdoti), 36 vennero dichiarati esenti da pena, 16 furono dichiarati sufficientemente puniti con il carcere sofferto in attesa di giudizio e solo 8 vennero condannati alla reclusione, oltretutto per pochi anni.
In sostanza questo processo, che voleva essere il redde rationem per il partito clericale valdostano, finì in un nulla di fatto. Dopo la lettura della sentenza, per i quattro sacerdoti arrivò solo un rimprovero “moralisticheggiante” da parte del presidente della Corte:
ricordatevi soprattutto di non immischiarvi più di politica. La vostra sola politica deve essere il Vangelo; e ce ne è forse una migliore, di più sublime? Instillate – signori curati – nell’intimo del cuore dei vostri parrocchiani i precetti di questa morale, che riassume in essa ogni virtù, e certamente voi avrete intorno a voi un popolo felice […] rifletteteci.
Chiaramente tale epilogo venne salutato dai giornali filo-clericali come una vittoria incondizionata. Il periodico romano Il vero amico del Popolo riportò in prima pagina un estratto del quotidiano torinese L’Armonia che esaltava la totale estraneità del clero valdostano nella vicenda, sancita da una sentenza che era ancor più significativa in quanto proveniente
«d’una Magistratura che, a dire il vero, non s’era per l’innanzi mostrata proclive al clero».
Una testimonianza privilegiata del processo, utile per capire come – udienza dopo udienza – il dramma si stesse trasformando in commedia, è quella di Domenico Giuriati che vi prese parte come giovanissimo avvocato.

Nelle sue Memorie di un vecchio avvocato, Giuriati evidenzia come il Governo (per il tramite della pubblica accusa) abbia commesso gravi errori fin dall’inizio della vicenda, decidendo di formare un processo «colossale» e costosissimo per le casse dell’erario contro decine di imputati, in tal modo perseguitando gli «innocenti e perdendo d’occhio i colpevoli». Così procedendo infatti:
Quando i settantotto accusati, dopo un intero anno di detenzione comparvero all’udienza, un sentimento di pietà e un impeto d’ilarità si contesero gli animi. Sino dal primo giorno la difesa formò il convincimento di aver vinto.
Era chiaro infatti che non potevano essere solo i “pochi” arrestati a pagare (con pene che potevano arrivare fino alla morte) per una rivolta che aveva coinvolto oltre 4000 persone e che in fondo era terminata del tutto pacificamente nonostante le premesse.
A ciò si aggiunga che la maggior parte degli arrestati avevano confidato, in buona fede, su quell’ “atto di resa” pattuito alle porte di Aosta con l’Intendente Racca, il vescovo di Aosta ed il conte Crotti: se era discutibile il valore giuridico di tale “capitolazione”, essa aveva un indubbio valore morale proveniendo da una pubblica autorità che in quel momento rappresentava, nella Valle, il Governo stesso.
Secondo Giuriati la scelta migliore sarebbe stata o processare i pochi effettivi capi della rivolta oppure arrestare (come fu effettivamente fatto) tutti i partecipanti reperibili ma amnistiarli dopo appena qualche mese di carcere.
La sentenza della Corte d’Appello di Torino confermò la correttezza delle valutazione degli avvocati difensori, segnando una sconfitta per il Governo che, da essa, apprese tuttavia una importante lezione ben ricordata dall’avvocato Giuriati nelle sue memorie:
Il Governo apprese a non costruire processi colossali in seguito a movimenti popolari; e dopo d’allora non se ne fece più. Il decreto di Saladino «Purché il reo non si salvi il giusto pera e l’innocente» è giustizia da turchi. La giustizia latina ne ha lasciato un altro da seguire, ed è questo: «Aequm est parcere multitudini peccanti», il che si traduce nel proverbio volgare: «dove molti peccano nessuno pecca».
E’ questa una lezione che, purtroppo, la magistratura italiana si troverà a dover applicare in numerose occasioni e non solo di fronte a movimenti popolari ma anche ai numerosi scandali corruttivi e finanziari che hanno caratterizzato la storia più o meno recente di questo Paese. Una lezione forse necessaria, come osserva Giuriati, ma che, in fondo, non ha mai appagato completamente l’esigenza di giustizia.
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