Ore 17.00, 1 agosto 1944. Inizia l’insurrezione di Varsavia.
Con le armate sovietiche alle porte, l’Esercito Nazionale Polacco, guidato dal generale Komorowski, dà inizio a una disperata e terribile rivolta contro le truppe tedesche nel tentativo di liberare la città prima dell’arrivo dei russi.
Radio Kosciuszko, che trasmetteva dall’Unione Sovietica, il 29 luglio proclamava: “l’ora dell’azione è scoccata“, “la battaglia che porterà la liberazione è in corso”.
La disparità di forze si rese però ben presto evidente, il cibo piano piano iniziò a scarseggiare e la popolazione cominciò ad esser fatta oggetto di un massacro indiscriminato e continuo. Bambini, donne, uomini, senza distinzione. I cadaveri ammassati in pile.
Nonostante questo i rivoltosi resistettero per ben due mesi.
La rivolta tuttavia si rivelava giorno dopo giorno un bagno di sangue per la sua stessa città. Varsavia era un campo di battaglia e i polacchi si ritrovarono soli.
L’esercito sovietico schierato al di là della Vistola non potè infatti portare aiuto perché bloccato dalle Panzer-Divison tedesche. Allo stesso modo gli appelli del governo polacco in esilio a Londra restano inascoltati.
Fu così che di fronte ad una città ormai quasi del tutto priva della sua linfa vitale, il 2 ottobre Komorowski firmò la resa.
Gli insorti, divenuti “prigionieri di guerra”, vennero deportati.
La città ridotta a un cumulo di macerie su ordine di Hitler.
Alla storia rimane la celebre frase di Himmler, “Ogni abitante deve essere ucciso, senza fare prigionieri. Che la città sia rasa al suolo e resti come terribile esempio per l’intera Europa”.