60. Scendere dal treno (1914)
Questa storia era assai sfiziosa e non potevo non raccontarvela.
In primo luogo perché è una sentenza della Corte d’Appello di Trani, terra di immensi Maestri. In secondo luogo perché si parla di treni e, dato che siamo in piena estate, la mente declina un solo verbo: partire.
Viaggiare, girare, tornare, fare qualsiasi cosa, stare fermi piuttosto, ma per favore.. BASTA.
ok, scusate lo sfogo personale…
I viaggi più belli, si sa, sono quelli fatti in treno. I viaggi di piacere, non quelli per andare al lavoro al mattino stretti come sardine. Quando si ha tempo (e un posto comodo con schienale reclinabile e preferibilmente nessuno che parla nei paraggi) il viaggio in treno è super. Per esempio, il mio viaggio in treno più bello l’ho fatto dieci anni fa. Un Interrail partendo da Napoli e arrivando fino a Brest, e poi giù a Guernica e poi ritorno (e poi un mese per riprendermi: amici che avevate condiviso con me quel viaggio e che siete in ascolto: vi voglio bene).
Il treno poi è un mezzo di trasporto estremamente romantico. Collega centri di città lontani chilometri e colma gli spazi tra di essi consentendo di riflettere sull’esistenza, sui perché della vita, di riconsiderare eventi importanti, di pianificare il futuro, di maturare il giusto distacco rispetto al passato, e soprattutto di chiedersi perché se sono le sei e dieci del mattino la gente parla ad alta voce come se fossero le sette di sera (insopportabili e insopprimibili…).
Al treno poi il diritto deve moltissimo. Ad esempio, allo sviluppo delle ferrovie, e anzi al loro tracollo nei primi folli anni della corsa al binario, dove tutte le compagnie si costruivano le loro strade ferrate, si deve lo sviluppo del moderno diritto fallimentare.
Ma non temete, non voglio parlarvi di faccende così noiose: la storia di questa Massima dal Passato è – si diceva – assai sfiziosa.
Siamo nel 1912, è il 21 gennaio. Non è propriamente estate, diciamo, ma fa niente. Alle 15,45 da Lecce parte il treno diretto alla volta di Brindisi. La tratta era stata inaugurata 50 anni primi sulla linea adriatica costruita dalla Società Italiana per le Strade Ferrate Meridionali e da pochi anni passata sotto il controllo dello Stato.
Il viaggio fino a Brindisi durava un’ora (ho trovato persino gli orari dell’epoca, pensa quanta roba sta su internet!). Un lusso sconfinato per quei tempi!
Il treno era composto da: locomotiva con serbatoio, due carri, posta e bagagli, due vetture di terza classe, una vettura letti, una vettura di seconda e una vettura di prima classe per la lunghezza complessiva di ben centosessanta metri. Una immensità per il 1912. Pensate che un moderno Frecciarossa e di poco più lungo (circa 200 metri).
Bene. La protagonista della nostra storia è Antonietta Colosso Massa. A dispetto di quanto potrebbe suggerire l’illustrazione di copertina, la Colosso Massa, diciamoci la verità, non era proprio giovincella. Era abbastanza in là con gli anni, ma non certo al punto da non riuscire a prendere il treno e viaggiare da sola. Doveva andare a Trepuzzi, bellissima cittadina una decina di chilometri a nord ovest di Lecce. Tempo di percorrenza, neanche mezzora. Dalla sentenza leggiamo che la Colosso Massa era partita perché in stato di grande costernazione per la nipote. Non sappiamo purtroppo cosa era successo di preciso.
Il treno arrivò puntuale, ma fosse stato quello il problema! Il fatto è che quel mastodontico millepiedi era troppo, troppo lungo per la minuscola stazione di Trepuzzi. Minuscola poi neanche tanto (a proposito se qualcuno ha una foto della stazione di quegli anni, sarebbe bellissimo vederla!), ma sicuramente non abbastanza per i 160 metri del treno. La banchina della stazione era lunga poco più della metà. E il problema era che quei geniacci della amministrazione ferroviaria avevano posto in corrispondenza della banchina l’arrivo non già dei vagoni per il trasporto passeggeri, ma di quelli posta o merci (però pure il treno poteva fermarsi un pochino dopo, che cavolo..).
E così, la Colosso Massa si era trovata alla stazione e all’atto della discesa aveva trovato sotto di sé uno scalino altissimo: 60 centimetri, praticamente il vuoto tra il treno e il terreno, che pure dissestato essendo praticamente cosparso di sola ghiaia. Io che soffro di vertigini e faccio fatica a scendere anche da un motorino, vi assicuro che sono comunque tanti.
Fortunatamente, ad attenderla alla stazione c’era il nipote, che giunse in soccorso, pronto a raccogliere la zia (o la nonna?), mentre questa scendeva. Ma le mani protese del giovanotto non furono sufficienti. Dice la sentenza: “la Colosso nello scendere, a cagione dell’altezza della banchina e pel suolo ineguale, malgrado fosse sorretta dal nipote, riportò tale un urto, che determinò la frattura e sarebbe caduta a terra se non fosse stata sorretta a tempo e con sveltezza. E prontamente soccorsa e ispezionata dai sanitari presenti fu accertata la frattura dell’arto“.
Insomma, caduta dal treno con il treno fermo, tra le braccia del nipote. Un disastro. E questo solo perché assurdamente il treno si fermava di fatto fuori dalla stazione. La signora fece causa alla amministrazione ferroviaria.
Per sapere come è andata a finire… basta scendere alla prossima fermata!
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