Nel 1895, alcuni giovani avvocati di Anversa celebrarono un finto processo per raccontare come immaginavano sarebbe stata la giustizia del XXI secolo.
Sapete bene che su queste colonne parliamo di futuro solo quando si tratta di raccontare storie di negromanti, fattucchiere e ciarlatani, perché altrimenti ciò che è da venire non occupa granché i nostri interessi. Una volta avevo letto una strana storia sul divieto di predire il futuro, e allora iniziai a interessarmi anche io all’avvenire, ma con la naturale prospettiva del passato. Mi chiesi, ad esempio, cosa ne era stato delle migliaia di predizioni fatte dall’uomo fin dalla notte dei tempi.
Fu così che mi imbattei in quell’articolo del Corriere degli anni ’70 che profetizzava solenne che esattamente nel 2020 il divario tra il Sud e il Nord si sarebbe azzerato (quel frutto di una ricerca un po’ matta finì persino in una domanda di un quiz di Gerry Scotti).
Questa volta invece ho recuperato per voi qualcosa di ancor più affascinante.
Per festeggiare il venticinquesimo anniversario della “Conférence de jeune barreau”, fondata nel 1870 in Belgio (una specie di AIGA belga dell’Ottocento), i giovani avvocati di Anversa decisero di inscenare teatralmente un processo dal… futuro.
I giovani antichi colleghi immaginarono come sarebbe stato un processo nel 2000. Ora, noi il 2000 ce lo ricordiamo, e pure fin troppo bene. Ne è passato di tempo da allora, e la giustizia ha preso pieghe e strade inimmaginabili. Alzi la mano chi allora avrebbe mai pensato di fare una udienza al computer di casa. Ma nel 1895, che cosa pensavano sarebbe successo?
Anzitutto, l’ordinamento: un nuovo regime sociale, collettivista e anarchico al tempo stesso. E come biasimarli, d’altra parte, quei colleghi che già facevano il funerale allo stato liberale davanti ai primi vagiti del socialismo?
Inoltre, ritenevano che nel 2000 tutti i cittadini dall’età dei 30 anni compiuti avrebbero domandato spontaneamente di prendere moglie: nella società del 2000 non ci sarebbero stati più diritti, né obbligazioni, ma soltanto dei doveri.
L’imputato è un matto “il quale raggiunta l’età fatale si ostinava a voler rimanere celibe”, violando così la legge. Ma nel 2000 non sarebbe stato il pubblico ministero a promuovere l’azione penale. Gli stessi prevenuti avrebbero domandato il beneficio del trattamento legale. D’altronde, nel 2000 non ci sarebbero stati più delinquenti e nemmeno pene. I rei sarebbero solo malati che devono essere curati dalla società.
È così sulla richiesta del “delinquente” che si avvia il processo. Il collegio giudicante – e qui arriva il bello – è composto da: un magistrato automatico, che ha il solo compito di pronunciare le formule di rito a cui si affianca un calcolatore giurato, che sulla base di regole predeterminate calcola e determina la quantità della pena. Oltre ai due automi, vi è un gruppo di sette periti, che sembrano venuti fuori da un film di Jodorowsky: il fisiologo, il geneàlogo, il sociologo, l’ipnosofo, il psicologo, il mago e l’ananchista (una figura oscura rappresentante del fato, un missionario ombra del destino “che melancolincamente sospinge le turbe incoscienti”).
L’imputato è assente in aula, c’è solo il suo avvocato che siede insieme al p.m. tenendolo per mano. “Essi, infatti, non sono là per contraddirsi a vicenda, ma per posare nettamente la questione sotto differenti aspetti”. Dopo avere discusso, i periti rendono le dichiarazioni di voto. I loro voti non sono uguali, quelli che valgono di più sono quelli del mago e dell’ananchista.
Il calcolatore giurato a quel punto fa il suo computo, e il giudice automa pronuncia la sua formula sacramentale: “in nome di ciò che fu, di ciò che è e di ciò che sarà”.
Inutile dire che, per il momento, nulla di quanto pronosticato si è avverato.