Nel 63 a.C. nel Senato romano si dibatteva la questione della pena di morte. Facciamo un salto indietro nella storia con Sallustio e Cicerone, ritrovandoci ai tempi di Catilina. Durante i dibattiti a seguito della congiura Giulio Cesare, secoli in anticipo su Cesare Beccaria, sosteneva già la causa dell’abolizione della pena di morte.
Il professore catanese Mario De Mauro, definendosi «umile soldato militante sotto la stessa bandiera» di Francesco Carrara, sostenne l’ipotesi che il movimento abolizionista della pena di morte non sia un’«utopia degli umanitari moderni», bensì un retaggio della Roma del 63 a.C.
L’idea di De Mauro muoveva da un articolo di Carrara intitolato “Un abolizionista dimenticato” che intendeva dimostrare come il primo «slancio di abolizionismo» provenisse dall’Imperatore romano Costantino «nell’anno 325 dell’Era Cristiana».
Se il Maestro sottolineava la centralità del legislatore Costantino, De Mauro poneva invece l’attenzione sulla diffusione del movimento abolizionista presso l’opinione pubblica di quel periodo della storia romana, sostenendo che «il legislatore spesso non fa che ridurre in legge quel che è, dirò quasi, la manifestazione della coscienza nazionale». Infatti Costantino con la Costituzione Cruenta spectacula del 325 d.C. abolì nel suo Impero la pena di morte per i gladiatori, ma quell’atto era pienamente conforme alla morale del tempo (e fu salutata con favore soprattutto dagli ambienti cristiani). Ma questa pubblica opinione, aggiunge De Mauro, «non nacque bella e formata tutta una volta, come Pallade dal capo di Giove, ma si venne a poco a poco enucleando e costituendo lungo il corso di quattro secoli, e forse di più»! E scavando ancora di più nel passato risale al 63 a.C., anno in cui la questione della pena di morte fu fortemente dibattuta in Senato.
Può essere utile ricostruire storicamente il contesto nel quale il dibattitto avvenne. In quegli anni Roma era sconvolta dal tentativo di guerra civile passato alla storia sotto il nome di Congiura di Catilina. Così Sallustio nel De Catilinae coniuratione descrive Catilina: «Invaso da sfrenatissima voglia di soggettarsi la Repubblica, buono stimava ogni mezzo, purché regno gli procacciasse. Ogni giorno vieppiù si inferociva quell’animo, da povertà travagliato e dalla coscienza dei propri delitti […]. Lo incitavano inoltre i corrotti costumi di Roma, cui due pessime e contrarie pesti affliggevano: lusso e avarizia». Tale era lo scostumato Catilina, condottiero della congiura che «voleva montare in alto facendosi sgabello al piè delle rovine della patria». Senonché il console Cicerone scoprì la trama della congiura e fece arrestare diversi congiurati, ma non Catilina, essendosi allontanato da Roma. In questa occasione, riunito il Senato, una questione lampante appesantì gli animi dei senatori: «Quid de his fieri placeat, quid in custodiam traditi erant». Ovvero: che cosa fare di coloro che erano stati arrestati?
Due posizioni lacerarono il Senato: Silano e Catone sostenevano che i congiurati dovessero essere puniti con «l’estremo supplizio», Caio Cesare sosteneva la prigionia a vita. Sallustio ci riporta l’emblematico discorso di Cesare:
Della pena da te inflitta ai colpevoli, dirò quel che richiede la cosa: la morte è riposo, e non tormento, del dolore e degli infortuni; è la fine di ogni umana miseria, a cui né letizia vien dietro, né affanno. Ma, per gli Dei Immortali, perché alla tua sentenza (la pena di morte) non aggiungevi che i rei, prima di essere uccisi, fossero bastonati? Forse perché la legge Porzia lo vieta? Ma vi sono pure altre leggi, che, vietando di giustiziare i cittadini romani, benché colpevoli, li lasciano condannare soltanto all’esilio. Oppure, sono quelle bastonate un supplizio peggiore della morte? Or vi può esser mai un troppo aspro e crudele supplizio contro uomini condannati per un delitto così atroce? Se poi le bastonate sono una pena minore, a che scopo osservare le legge nelle piccole cose, quando ci si trova di fronte a ben più grandi?
Cesare ricorre poi a ricordare come la Repubblica, fattasi adulta e popolare, con la legge Porzia, e altre ad essa affini, provvede a condannare i cittadini romani non con la morte ma con l’esilio.
Conclude logicamente Cesare:
Dico io forse con questo, che i congiurati si liberino, e che così a Catilina si accresca l’esercito? Certo che no: ma che si confischino i loro beni; che inceppati si costudiscano nelle migliori fortezze d’Italia; che nessuno ardisca in Senato o nel foro nominarli; e chi ne parlasse, sia dichiarato reo di lesa Repubblica: questo è il parer mio.
Cicerone riferisce le stesse posizioni: «Vedo che, sinora, sono due le proposte avanzate. Decimo Silano sostiene che bisogna condannare a morte chi ha cercato di distruggere lo Stato. Caio Cesare, invece, respinge la pena di morte e propone tutta la durezza di ogni altro castigo. Entrambi, come conviene alla loro carica e alla gravità dei reati in causa, fanno appello al massimo rigore. Il primo ritiene che neppure per un istante devono vivere e respirare la nostra stessa aria individui che hanno cercato di eliminare tutti noi, di cancellare l’impero, di estinguere il nome del popolo romano e ricorda che questo tipo di pena fu spesso comminata, nel nostro Stato, a cittadini colpevoli. Il secondo è dell’opinione che gli dei immortali hanno creato la morte non perché fosse una punizione, ma una necessità naturale e una cessazione di travagli e miserie. Per questo i saggi l’hanno sempre affrontata senza rimpianto e i valorosi spesso con gioia. Il carcere, invece, in particolare l’ergastolo è stato istituito come pena eccezionale per i reati più empi. Cesare suggerisce che i colpevoli siano confinati in municipi diversi. Tale proposta comporta tuttavia un’ingiustizia, se la imponiamo ai municipi, e una difficoltà, se chiediamo il loro consenso. Ma qualora ne siate convinti, approvatela».
Del resto non c’è da meravigliarsi che nel Senato romano ci fossero degli avversari della pena di morte. Infatti, non tanto tempo prima, Caio Sempronio Gracco, tribuno della plebe, aveva fatto approvare una legge a suo nome (la Lex Sempronia), secondo cui era proibito togliere la vita a un cittadino romano se prima non fosse stato ascoltato dal popolo. Non solo, ricordiamo la celebre legge di Porcio Lecco, anch’egli tribuno della plebe, che vietava in modo assoluto a qualunque magistrato di far battere con le verghe o di far morire un cittadino romano, permettendo solamente di esiliare il colpevole macchiato di delitti capitali.
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De Mauro nota che erano sempre stati i principi di casta a prevalere in tutte queste leggi, come già era accaduto in India, «dove le leggi non punivano di morte il Bramino, qualunque si fosse l’indole, la natura e la gravezza del delitto, di cui si era macchiato». Eppure non era per ipocrisia che Caio Cesare sosteneva l’abolizione della pena capitale: si trattava piuttosto di ragioni fattuali, concrete, quali l’inutilità e l’inefficacia di una tale pena.
Con tono poetico De Mauro elogia le parole di Cesare: «E fu questa luce, allora fioca e languente, ma oggi più viva e smagliante del sole stesso, che lo fece votare contro la pena di morte, chiedendo ei solamente che i congiurati della Repubblica fossero condannati alla perpetua prigionia».
Chi l’avrebbe mai detto che dopo diciannove secoli la voce di Giulio Cesare avrebbe avuto una eco nel progetto del Codice Zanardelli, dopo che Cesare Beccaria aveva già risolto, sotto altre vedute e ragioni più fondamentali, lo stesso problema?
Conclude De Mauro: «La franca e leale parola del più grande capitano di Roma antica; parola, che da sé sola sarebbe stata sufficiente a tramandare ai più tardi posteri il nome di lui; dappoichè egli devesi assolutamente considerare l’antesignano e il precursore dell’immortale Cesare Beccaria».
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