Due deputati combattono per un sindaco somaro: succede a Cerano, in provincia di Novara, quando nel 1885 un asino rincorso da un ubriaco si affaccia dal balcone del Municipio e per poco non diventa sindaco. E dalla commedia alla querela per ingiuria il passo e breve.
Se ci siete affezionati conoscerete già la nostra rubrica dedicata alle Bestie delinquenti (se ancora non la conoscete vi perdoniamo e vi lasciamo qui l’ultima puntata, che parla di un avvocato difensore dei ratti). In realtà la storia che vi raccontiamo oggi non si trova nell’antologia di Carlo D’Addosio, ma siamo sicuri che se l’avesse conosciuta non avrebbe esitato a riportarla nel suo libro!
Infatti si tratta di un avvenimento degno della sua monografia, ma forse D’Addosio non era abbonato a Rivista Penale né leggeva quotidianamente il Corriere della Sera. Immaginate il nostro stupore, invece, quando durante le nostre ricerche ci siamo imbattuti nel racconto ben due volte: prima fra le colonne di Rivista Penale del 1885 e qualche mese dopo in quelle del Corriere dello stesso anno! Siamo sicuri che entrambe le redazioni siano riuscite a stento a trattenere le risate quando è pervenuta notizia di questa vicenda, esattamente come è successo nella nostra. Ma veniamo ai fatti.
Era l’11 maggio 1885, una domenica. Sulla piazza di Cerano, una città in provincia di Novara, stavano chiacchierando tutti gli sfaccendati del paese e, tra questi, in molti sentivano ancora gli effetti delle «libazioni» del giorno precedente. A un tratto un tale di nome Leone, mezzo brillo, di ritorno da Abbiategrasso per affari, passò per la piazza portando a guinzaglio un asinello.
A questo punto vi citiamo pari pari le parole del redattore del Corriere: «A vedere quell’animale uno scemo credette sbarrargli la via, ma gli asini in quella stagione non si lasciano impunemente provocare. Il somarello si mise a rincorrere lo scemo il quale, spaventato, fuggì cercando ricovero nel palazzo Comunale e dietro a lui l’asino, e a tutti e due il Leone».
In piazza si era formato un pubblico numeroso e tutti stavano iniziando a divertirsi, quando a un tratto un terzo uomo, per «dar sapore alla commedia» fece salire all’animale le scale del Municipio e poi lo fece affacciare al parapetto di fronte all’aula del consiglio, per permettergli di salutare tutta la folla. «Non è a dire quali fossero le risate dei Ceranesi ed i frizzi cui la burla dava luogo, tanto più che a Cerano manca il Sindaco, e gli spettatori lo salutarono nel somaro».
Anche i consiglieri comunali assistettero all’acclamazione del somaro e, manco a dirlo, si infuriarono. Dopo essersi riuniti d’urgenza, deliberarono di querelare per ingiuria l’asino, il suo padrone, e l’uomo che aveva dato il via allo scherzo. Il pretore di Trecate (una città vicina) non rinvenne nei fatti accaduti gli estremi di un reato, quindi decise di assolvere tutti e tre.
I consiglieri però si infuriarono ancor di più e non avevano intenzione di darla vinta all’asino, quindi si adoperarono per portare la causa in appello al Tribunale. La discussione venne fissata per il 16 settembre, e cioè il giorno precedente all’arrivo della notizia al Corriere della Sera.
Ebbene, come andò a finire questa storia?
L’avvocato Guala intervenne a sostenere le parti del Municipio, mentre gli avvocati De Maria e Taddini difesero gli imputati. Il giorno del dibattito il Tribunale straripava per il numero di persone che assistevano al processo. Uno dei due avvocati difensori, Taddini, ricordò a tutta la giuria che giusto qualche settimana prima Guala aveva ottenuto l’assoluzione per un suo collega che si era permesso di chiamare mascalzone e villano un Ispettore di Pubblica Sicurezza, adducendo che la parola mascalzone significa soltanto mal calzato, mentre villano vuol dire abitante in villa.
Il pubblico si fece grasse risate e, da quanto ci viene riportato, «nemmeno l’austero rappresentante della Legge riuscì a trattenere le risa».
Per il Tribunale si trattava infatti di una “ingiuria simbolica” ai sensi dell’art. 572 del Codice Penale Sardo ancora in vigore. Infatti era possibile ritenere che la condotta fosse ingiuriosa, come forma di espressione oltraggiosa, ma non conteneva “l’imputazione di un fatto preciso“. In particolare si doveva esaminare se l’ingiuria si fosse presentata in uno dei modi previsti dall’art. 571, in particolare come “una figura, immagine o emblema“. Non si poteva applicare la fattispecie dell’art. 583 perchè questo prevedeva sì una ingiuria realizzatasi in qualsiasi modo, ma in forma privata e non pubblica.
Il Tribunale trovò che gli imputati non avevano l’intenzione di oltraggiare l’Amministrazione Comunale e offrì una breve ricostruzione dei fatti: in sostanza tale Dossi, “mezzo scemo” si era messo a far dispetti all’asino, il quale infastidito si mise a rincorrerlo. Il Dossi, scappando, si era inizialmente ricoverato sotto il portone del Palazzo Comunale, da lì poi continuando l’inseguimento era finito sul balcone del Palazzo.
Certamente dei testimoni riportarono che qualcuno in piazza disse “Guarda là il sindaco” o “Hanno condotto là il sindaco“, ma nessuno sapeva chi avesse pronunciato quelle parole ed era impossibile stabilire che ci fosse un accordo con gli imputati.
La sentenza di assoluzione di primo grado venne riconfermata, ma all’ultimo momento arrivò notizia che il caso sarebbe passato presto alla Corte di Cassazione.
Purtroppo non sappiamo quale fu il destino di questo povero asino.
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