54. K.O.! (1929)
Se proprio devo dire, gli sport come il pugilato, la lotta, le arti marziali non sono tra le mie passioni favorite.
Non mi sono mai spiegato cosa ci sia di bello nel guardare due uomini muscolosi nudi e sudati che si danno le botte, quando – per esempio – se ne possono vedere più di venti quasi in mutande correre dietro una palla. Partecipare poi a simili attività… per carità di Dio. Se mi cade un capello vado in pronto soccorso col codice rosso gridando a squarciagola: “Ho la bua!”. Quindi: no grazie.
Sì, sì, lo so che il pugilato è uno sport nobile, antichissimo e con una storia straordinaria che non sono degno di raccontare dunque nemmeno ci provo (ma che vi consiglio di approfondire). So anche della sconfinata passione che gli italiani hanno per questa disciplina già da tempi non sospetti.
Primo Carnera, tanto per fare un nome, ebbe così tanto successo negli anni ’30 che il Regime lo utilizzò a fini di propaganda. Era indicato come un modello da imitare: l’uomo ideale, l’invincibile gigante di due metri. Una volta, per dire, fu fatto affacciare anche al balcone di Porta Venezia in tenuta tutt’altro che sportiva. E, addirittura, una statua di Primo Carnera fu fatta posizionare sulle guglie del Duomo di Milano. Si trova ancora lì e l’ho vista con i miei occhi.
Naturalmente, durante il Ventennio, i giudici – con la prosopopea che immancabilmente contraddistingueva il tempo – ritenevano che
al pari degli altri sport violenti, il pugilato s’è venuto man mano trasformando ed evolvendo verso maggiori e più nobili scopi, con più corrette forme e con più stretta e cavalleresca disciplina, fino ad assurgere a dignità d’esercizio ginnastico, per la educazione fìsica e insieme morale della razza; scuola anch’esso di coraggio, di volontà, di resistenza e di spirito di sacrificio, che devono concorrere all’educazione della gioventù, in armoniosa proporzione con lo sviluppo e lo sforzo della mente, per la grandezza e la potenza della Nazione
Lo facevano, anche nei casi in cui erano tenuti a giudicare di omicidio colposo nel corso di incontri sponsorizzati dai G.U.F., i gruppi universitari fascisti. C’era il bisogno di giustificare una disciplina sportiva anche nei casi in cui vi erano incidenti di percorso. Una sorta di pugilato prima di tutto.
Io questa volta proprio non me la sento di riportare una storia specifica, perché moltissimi sono i casi in cui erano accaduti incidenti mortali sul ring (benché forse un giorno vi racconterò la storia del giovane Borgiani da cui è tratta la citazione sopra).
Preferisco che l’odierna Massima dal Passato sia invece un bel commento di un giurista che riteneva che il pugilato e tutti gli sport analoghi dovessero addirittura essere banditi dalla società. Si tratta dello stesso autore che riteneva vergognoso il bacio in pubblico. Questa volta – e siamo nel 1929 – se la prende pesantemente con gli sport “violenti”. Per vincere, sosteneva, occorre sopraffare l’avversario. Occorre cioè metterlo fuori combattimento, e a questo scopo dargli tanti pugni, senza che vi fosse nessun limite regolamentare al loro numero e alla loro intensità (e che pensava?). Riteneva uno scandalo che l’ordinamento giuridico permettesse questi combattimenti in cui addirittura si rischiava la morte, o come minimo la rottura dei denti. E biasimava l’opinione pubblica che elevava i pugilatori a eroi, come fossero artisti o scienziati.
Se siete appassionati di sport, e in particolare di pugilato, sarà per voi un piacere leggerlo. E non solo per come descrive le regole della disciplina usando le parole di cent’anni fa che tanto ci piacciono, ma soprattutto sapendo che poi una decina di anni dopo, proprio quando il Regime aveva elevato il pugilato a emblema nazionale, lo stesso autore avrebbe pensato che tutto sommato questo sport non era poi così male, anche se qualcuno ogni tanto ci rimaneva secco.
Da cazzotti in faccia davvero.
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