Nacque a Bologna, verosimilmente ai primi del ‘200, da Bonaccorso di Riccardo Denari.
D’estrazione popolare, la famiglia Denari era ricca e potente; Odofredo fu avviato agli studi giuridici, di cui abbiamo notizia indiretta per due acquisti, fatti dal padre e da lui stesso, nel 1226, di alcuni libri. Non pare fosse ancora addottorato due anni dopo, quando il testamento di suo zio Caravita ne menziona la moglie, Giuliana e un figlio, Riccardino. Scarsa la documentazione anche per gli anni successivi, nei quali debbono situarsi le esperienze, i soggiorni, i viaggi, che hanno lasciato nelle opere sue memorie numerose e talora pittoresche in riferimento a molti luoghi (Venezia, Padova, la Marca anconitana, Spoleto, Roma, Parigi).
Nel gennaio del 1232, col titolo di legum professor e in qualità di giudice, decise una controversia a favore del monastero di S. Vittoria presso Fermo; nel giugno del 1236 rese consiglio a favore di Gardionessa di Camposampiero e figli, contro il vescovo di Padova.
Il 13 ottobre 1238, a Bologna, Odofredo e altri celebri giuristi (tra essi Accursio e Bagarotto) precisavano termini e modalità delle condanne comminate in base all’arbitrium potestatis; è il primo d’una numerosa serie d’interventi che, come membro di diritto del Consiglio speciale, o in altre qualificatissime vesti, Odofredo opererà partecipando alla vita politica ed amministrativa della propria città.
Nel 1244 fece parte della commissione incaricata di dichiarare quali terre del contado erano esenti da certi tributi, cinque anni dopo di quella che compilava gli elenchi dei “fumanti” per gli estimi; in occasione della resa di Modena, dopo Fossalta, era tra i rappresentanti alla stipula del trattato e tra i testimoni del lodo degli arbitri parmensi per la vertenza sul Frignano (15 e 20 dicembre 1249); era degli Anziani, quando liberò dal bando gli Imolesi, nel 1250; tre anni dopo, a Ravenna, era teste della pace tra i Comuni ravennate e bolognese; nel 1254 era ambasciatore prima presso la Curia romana, poi a Modena; nel 1257 era designato come eventuale superarbitro nella questione delle rappresaglie tra Bologna e Ravenna.
Quanto all’insegnamento, lo stato della documentazione superstite relativa allo Studio bolognese non permette di ricostruire i ruoli dei maestri, né esistono fonti di cognizione indiretta; gli scrittori che lo dicono laureato nel 1228, e docente dall’anno successivo, non disponevano di maggiori informazioni di quelle attuali. Certo è che Odofredo considerava Iacopo Baldovini come suo principale maestro e che gli anni del discepolato sono anteriori al 1229-30 (il Baldovini fu allora podestà di Genova); soltanto dopo il periodo degli assessorati svolti lontano da Bologna si dovrà pensare che Odofredo abbia legato con stabilità il proprio nome allo Studio dove tenne lezione fino alla morte.
La linea scientifica è quella stessa inaugurata da Irnerio, e della tradizione scolastica bolognese caratterizzata e distinta dal genere letterario “glossa” le opere di Odofredo sono rappresentative sotto tre profili. In primo luogo, per quello, appariscente e curioso, dei tanti aneddoti riguardanti la storia dello Studio e dei libri di diritto, la biografia dei maestri, la vita universitaria nel suo complesso. In secondo luogo, per lo straripante numero di citazioni di auctores, a dimostrazione d’un cospicuo bagaglio di cultura generale e specifica: tra i classici, Cicerone e Seneca, Ovidio e Virgilio; tra i medievali Donato e Prisciano, Isidoro e Papia. Per quanto riguarda un terzo aspetto, infine, i lavori di Odofredo costituiscono la tangibile espressione di metodi e forme d’insegnamento che in tale ampia misura non sono altrimenti documentati: le lezioni sulle varie parti del Corpus iuris civilis furono raccolte in modo quasi completo, con le loro prolissità, ridondanze e addirittura con il caratteristico esordio in volgare “Or segnori”; e soprattutto, in esse, come nei tractatus, nelle repetitiones, nelle quaestiones che egli ci ha lasciato, si assiste ad un importantissimo sviluppo della didattica, che apre la strada alla scuola dei commentatori, e che è in qualche misura correlato ad un cambiamento nelle strutture dello Studio bolognese.
Il problema dell’attendibilità di tali notizie ha tratti comuni con quelli proposti da ogni autore medievale. Odofredo raramente sembra lavorare, almeno in questo campo, di prima mano; riprende glosse precedenti, amplificandole e deformandole in qualche misura; a sua volta è saccheggiato, inevitabilmente con fraintendimenti.
Come altri civilisti, Odofredo guardava con una certa sufficienza alle discipline diverse dalla propria; ciò non toglie che abbia scritto di diritto feudale e glossato la pace di Costanza; che dimostri un’approfondita conoscenza della legislazione statutaria di Bologna e di altri luoghi, e abbia glossato gli statuti veneti; che trovino posto nella sua biblioteca, sia pur tardi (gli acquisti sono del 1256 e del 1257), due copie del Decretum, con e senza l’apparato; e che si sia servito con padronanza di molte delle forme letterarie in uso nella scuola.
La sua produzione letteraria passata, tutta improntata ai ritmi e alle esigenze dell’insegnamento, ha una perfetta corrispondenza nelle notizie biografiche che collegano il nome di Odofredo all’articolata vita dello Studio bolognese. Nessun altro professore ebbe maggior affluenza di studenti, e si procurò, con quest’attività, pari ricchezze; in effetti, le scholae di lui e quelle di Accursio erano le dominanti, e i figli dei due grandi maestri, cioè, rispettivamente, Alberto e Francesco, erediteranno, oltre che il mestiere, la potenza economica dei padri. Sappiamo con certezza che la scuola di Odofredo aveva anche una stanza destinata alla confezione dei libri, e probabilmente egli ebbe per un certo periodo come socio, per il commercio relativo, Ardizzone di Guido da Milano, il primo ad incarnare la figura di bidello generale dell’università. Spesso i doctores prestavano denaro agli studenti, talvolta, come scrive ironicamente lo stesso Odofredo, per riempire le aule; anche lui, tuttavia, ebbe fama di usuraio, e in veste di mutuante ce lo presentano due documenti spettanti all’ultimo periodo della sua vita (nel maggio del 1265 cede a un concreditore i diritti su una somma; nel novembre dello stesso anno, tramite il suo bidello Petrizolo, presta a diversi scolari stranieri 40 soldi di grossi veneti fino alla Pasqua successiva).
Morì a Bologna il 3 dicembre 1265, come ricorda l’iscrizione posta sul monumento costruitogli, come quello d’Accursio, dietro alla chiesa di S. Francesco. I legami con essa appaiono anche da un lascito di 75 lire, disposto per un testamento non altrimenti conosciuto, cui solo nel 1270 il figlio che ne continua l’attività e la progenie, Alberto, dà esecuzione. Le case della famiglia (in campagna erano poste nei territori di Medicina e di Arcoveggio, in città in via di Val d’Aposa, nella platea maior e in curia S. Ambrosii) avevano accolto, oltre a lui, il primogenito Riccardino e una femmina, Lazzarina: entrambi presero i voti francescani.