“La libertà è una chimera e chi ha il potere lo tiene a qualsiasi costo”
G. Rosa
Le idee visionarie e forse un po’ folli (ma solo col senno del poi) nascono da rivoluzionari. Non a caso l’ingegnere Giorgio Rosa (Bologna, 1925-2017) è stato paragonato a personaggi come Bakunin per aver non solo pensato ma anche provato a realizzare il suo sogno.
È ovvio che un po’ di follia serve per compiere un gesto a cui tutti abbiamo pensato almeno una volta nella vita (e chi lo nega mente sapendo di mentire): farsi un proprio Stato sovrano appena fuori dai confini dell’Italia.
È questo ciò che spinse Rosa, durante il periodo del boom italiano. Stanco di tutti i politici, che fossero democristiani o comunisti, dei preti, delle varie guerre e dello Stato repubblicano soffocante, dopo lunghe consultazioni con giuristi di diritto internazionale (su tutti il Professor Sereni) diede avvio al sogno di creare uno Stato indipendente a 11,612 km dalla costa riminese brevettandone il disegno (brevetto n. 1799/A/68).
Il progetto vide però trascorrere diversi anni prima della sua realizzazione. Nel 1967 fu trivellato il fondale fino a trovare l’acqua dolce, attività che probabilmente costituì la principale causa della rapida fine dell’isola, come vedremo.
Solamente nel 1968 l’isola era pronta e, sebbene la superficie fosse di soli 400 metri quadrati, il primo maggio proclamò la sua indipendenza dalla Repubblica Italiana.
Ma per essere un vero Stato sovrano l’ing. Rosa, anzi il Presidente Rosa, doveva introdurre quegli elementi tipici ed essenziali di una vera e propria nazione. Innanzitutto, fu scelta quale lingua ufficiale l’esperanto, lingua artificiale creata nel XIX secolo dall’oculista polacco Dudwik Lejzer Zamenhof (lingua peraltro non conosciuta dallo stesso Rosa).
Fu introdotta una valuta, il Mill, con cambio pari a 1:1 con la Lira, furono emessi francobolli e ovviamente fu realizzata una bandiera nazionale.
Ribattezzata da Rosa “Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose” (in lingua ufficiale “Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj”), la “nascita” di questa nazione suscitò molta curiosità, scatenando un via vai di barche dirette verso l’isola.
Tuttavia, la sua indipendenza durò ben poco. Il 25 giugno dello stesso anno, dopo un colloquio tra Rosa e il capitano Barnabà del S.I.D., le Forze dell’Ordine disposero il blocco navale dell’isola e successivamente la occuparono, anche per dare applicazione al decreto della Capitaneria di porto di Rimini n.2/1968 col quale si imponeva la demolizione della piattaforma e la riduzione in ripristino dello specchio d’acqua e fondale occupati.
Da quel momento si aprì la seconda parte della storia dell’isola, ossia quella giudiziaria.
Come primo atto di resistenza, Rosa scrisse al Presidente della Repubblica Saragat un messaggio di appello, al quale non arrivò mai una risposta.
Si rivolse anche a diversi parlamentari ma senza significativi riscontri, se non interpellanze al Governo circa la posizione da questo assunta sulla vicenda.
Rosa provò a chiedere l’appoggio anche dalla nazione di Malta, che però, molto diplomaticamente, lo negò in quanto la situazione era troppo complicata.
Arrivò invece un totale appoggio in ogni sede da padre Albino Ciccanti, presidente della Diffusione dell’Esperanto nel mondo.
Fu così che il 28 agosto presentò un ricorso al Consiglio di Stato (assegnato alla VI sezione, pratica n. 756/68) contro il decreto di demolizione, discusso il successivo 27 settembre, con esito negativo.
Ma vediamo nel dettaglio le ragioni della decisione.
Innanzitutto, Rosa ritenne censurabile la decisione di demolire la sua isola, in quanto la limitatissima zona in cui era stata eretta la piattaforma costituirebbe un res nullius, e quindi ai sensi dell’art. 922 Codice civile, ciò costituirebbe un valido motivo di acquisto della proprietà.
Inoltre, la posizione della stessa era collocata al di fuori dell’applicabilità del Codice della navigazione e della Convenzione di Ginevra del 1958 (che prevede il dovere dello Stato di contrastare chi impedisce il libero utilizzo da parte degli Stati ogni attività nel mare), per altro quest’ultima non applicabile proprio per le limitatissime dimensioni dell’isola che non costituirebbero una limitazione in via permanente degli usi comuni del mare.
Nemmeno, si legge dal ricorso presentato da Rosa, potrebbe esser invocata la Legge 613 del 1967, che all’art. 2 riserva allo Stato italiano il diritto di esplorare la piattaforma continentale di sfruttarne le sue risorse naturali. Ciò in ragione della assai modica quantità di acqua dolce trivellata dall’Isola delle Rose, talmente scarsa da non contrastare la finalità della legge.
Infine, la Capitaneria di porto di Rimini non aveva la competenza per adottare il provvedimento oggetto di impugnazione, in ragione di un accesso di poteri.
Venendo ai motivi del rigetto del ricorso, la VI Sezione del Consiglio di Stato sottolinea come secondo la Convenzione di Ginevra (anche se allora l’Italia non aveva aderito aveva comunque diretta applicabilità quale fonte internazionale) spetti allo Stato rivierasco il potere-dovere di garantire e assicurare che i cittadini o le persone giuridiche non svolgano sul mare libero attività suscettibili, indipendentemente dall’intensità o dalla potenzialità lesiva, di impedire o ostacolare il libero esercizio delle facoltà spettanti agli altri Stati.
Si obietterà: sì, ma l’isola si trova oltre il limite del mare territoriale.
Secondo il Consiglio di Stato, lo Stato italiano, nelle genericità dei poteri discrezionali conferiti dalla Convenzione, ha ritenuto che la costruzione, anche se al di fuori dei limiti per soli 300 m, e nonostante le ridottissime dimensioni, costituisse un limite all’uso del mare.
Non può ritenersi condivisibile la tesi secondo la quale non si sarebbe giunti a una sostanziale violazione dell’art. 2 Legge 613/167. La trivellazione del fondo marino e l’installazione non autorizzata dell’intero manufatto contrastano con le finalità della legge che riserva allo Stato la totalità dell’attività di esplorazione e sfruttamento della piattaforma continentale.
Riserva che, ai sensi della Legge 136 del 1953, vede una eccezione per la ricerca e coltivazione di giacimenti di idrocarburi unicamente all’Ente Nazionale Idrocarburi, altrimenti noto come ENI.
Infine, viene rigettata anche la questione di incompetenza della Capitaneria di Rimini, che invece ha agito dietro precise istruzioni del Ministero della marina mercantile.
Il Consiglio di Stato, che in camera di consiglio si sarebbe pronunciato con due voti contrari, dà quindi il via libera alla demolizione dell’Isola delle Rose.
Il giorno 11 febbraio 1969 l’isola fu minata con 75 kg di esplosivo per palo.
Non cedette.
Fu minata ancora, questa volta con 120 kg per palo.
Non cedette ancora.
Il 26 febbraio arrivò una burrasca, e questa volta fu il mare (e solo quello) a distruggere l’Isola delle Rose.
Da parte dell’Italia fu semplice dovere di far rispettare le regole o atto di prepotenza? Nel suo memoriale, Rosa non ha dubbi.
I motivi sarebbero da trovare negli interessi della potentissima ENI, che avrebbe manovrato finanche la stampa locale.
Inoltre, l’allora partito di governo, la Democrazia Cristiana, si sarebbe accanita per paura che là nascesse un casinò, ma anche, visto il periodo caratterizzato dalle rivolte studentesche, che ciò potesse costituire un ulteriore pericolo, magari con una reazione a catena.
In termini molto pessimisti, l’ing. Rosa scrive di essersi reso conto solo dopo che in Italia senza massoneria o mafia nulla si poteva fare.
Alla frequente domanda “cosa fu per lei l’Isola delle Rose?”, il nostro eroe ha sempre risposto “fu tutto”.
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Bibliografia
Giorgio Rosa, L’Isola delle Rose. La vera storia tra il fulmine e il temporale, Persiani Editore, Bologna 2020.