Il 18 marzo 1986 fu pronunciata la condanna all’ergastolo per Michele Sindona e Robert Venetucci, rei dell’assassinio dell’avvocato milanese Giorgio Ambrosoli, ucciso nella notte dell’11 luglio 1979 con quattro colpi di pistola.
Cinque anni prima Ambrosoli, che si era laureato in Giurisprudenza a Milano e specializzato poi in diritto fallimentare, era stato nominato liquidatore della Banca Privata Italiana, trascinata irrimediabilmente al fallimento proprio da Michele Sindona, definito mago della finanza internazionale e legato, per origini e storia, a importanti esponenti della politica e della mafia siciliana.
Ambrosoli, però, incaricato di verificare le condizioni finanziarie della Banca, non scoprì solo del suo fallimento, ma portò anche a galla tutto ciò che gli si nascondeva dietro: conti falsati, operazioni occultate, riciclaggio di denaro sporco.
Caso – o forse no – volle che il giorno dopo la sua morte, il 12 luglio 1979, Ambrosoli avrebbe dovuto firmare la liquidazione della banca, attribuendone la responsabilità a Michele Sindona.
Di pressioni ne aveva ricevute parecchie. Alla moglie Anna scriveva “pagherò a molto caro prezzo l’incarico” sebbene lo rincuorasse la consapevolezza di poter per quella via “fare qualcosa per il Paese”.
La sera dell’11 luglio, dopo aver riaccompagnato degli amici a casa, mentre parcheggiava, un uomo si accostò, con un pretesto lo fece scendere dall’auto e gli sparò. Sotto casa sua, a Milano, in Via Morozzo della Rocca.
Era il mafioso italoamericano William Aricò, ingaggiato proprio da Michele Sindona.
Quattro giorni dopo la sentenza di condanna Sindona morirà in carcere per avvelenamento da cianuro bevendo un caffè. Cosa effettivamente successe è un segreto che si portò nella tomba.
La condanna di Venetucci invece venne confermata, in Appello prima e in Cassazione poi.