Il 20 e il 21 settembre 2020 il corpo elettorale è chiamato ad esprimersi sul quesito referendario ex art. 138, comma 2 Costituzione, avente ad oggetto la riduzione del numero dei parlamentari dai complessivi 945 membri elettivi attuali ai 600 (400 per la Camera dei deputati e 200 per il Senato della Repubblica).
Trattandosi di referendum costituzionale, non è previsto un quorum strutturale per i votanti. Il corpo elettorale partecipa, quindi, esprimendo una eventuale conferma su di una decisione parlamentare, avutasi con due letture per ciascuna Camera (una lettura implica un’approvazione identica di un testo di riforma sia della Camera e sia del Senato) con un intervallo non minore di tre mesi tra le due e con la necessaria approvazione della maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda lettura. Dal 7 febbraio al 12 ottobre 2019 il Parlamento ha completato le due letture entro i tempi e i quorum stabiliti dalla Costituzione e non essendosi materializzata in seconda lettura l’approvazione da parte della maggioranza qualificata dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera, si è potuto procedere alla richiesta di referendum con la sottoscrizione di almeno 1/5 dei senatori.
Abbiamo deciso di dare il nostro contributo alla divulgazione scientifica e al dibattito sulle ragioni del Sì e del No al quesito referendario sulla riduzione del numero dei parlamentari. A tal proposito la redazione è lieta ed onorata di ospitare i contributi di due illustri ospiti: in ordine alfabetico il Prof. Andrea Morrone, ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università di Bologna, per il SI’ e il Prof. Salvatore Prisco, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università Federico II di Napoli, per il NO.
Abbiamo sottoposto loro un questionario con cinque domande identiche per ciascuno, che partono da un punto di vista, per così dire, “neutro” sui vari profili giuridici, inerenti e corollari alla riforma: da questo punto di partenza le risposte che si svilupperanno daranno conto delle idee e delle ragioni del SI’ e del NO. I Professori, che ringraziamo per la loro disponibilità hanno risposto alle nostre domande senza conoscere le rispettive risposte.
1. Sul piano storico quali obiettivi e quali motivazioni spinsero i Padri Costituenti prima e il legislatore costituzionale nel 1963 poi (con i ritocchi del 2001 sulla cd. “circoscrizione estero”) nel decidere della composizione del nostro Parlamento? Possiamo ritenere ancora attuali le opzioni prescelte nel corso degli anni?
In Assemblea Costituente la decisione sul bicameralismo paritario e sulla composizione fu il risultato di un compromesso politico sofferto, raggiunto nonostante la distanza tra i partiti. La DC era per un Senato come camera delle professioni, le Sinistre (PSI e PCI) per il monocameralismo e, quindi, contrarie a qualsiasi ipotesi di frammentazione della rappresentanza politica in plurime assemblee (per lo stesso motivo erano avverse alle regioni come luoghi di rappresentanza e di governo). Dopo la rottura dell’unità antifascista e la nascita del IV Governo De Gasperi il 31 maggio 1947, senza i partiti di sinistra, le posizioni cambiarono in AC: il fatto politico nuovo spinse gli attori verso una soluzione che privilegiasse l’equilibrio e la garanzia reciproca tra le parti politiche, divenute, ormai, opposte e contrapposte (era nato anche in Italia un “muro invisibile di Berlino”). Per questo nacque il bicameralismo paritario (almeno nelle funzioni fondamentali di indirizzo politico e di legislazione), con la previsione che il Senato fosse “eletto a base regionale”, per stabilire un collegamento tra la seconda camera e le regioni che erano state alla fine istituite, ma senza particolare enfasi, e sicuramente senza nessuna storia e, quindi, senza quella forza politica necessaria a interagire con quella di cui erano dotati lo stato e le autonomie locali (con i quali le regioni entreranno più volte in contraddizione).
Il numero dei parlamentari era stato in origine fissato in proporzione alla popolazione (un deputato ogni 80.000 abitanti, e – in ciascuna regione – un senatore ogni 200.000, precisandosi che ogni regione ne avesse almeno sei, salvo la Valle d’Aosta per la quale era stabilito un solo senatore). Questa proposta si univa al fatto che nei lavori preparatori si decise di non prevedere in Costituzione la formula elettorale, rinviando alla legislazione ordinaria la scelta del sistema elettorale (che, però, con l’odg Giolitti venne allora stabilito come proporzionale). Come si sa, tuttavia, la legge elettorale proporzionale (apertamente per la camera e indirettamente per il senato) costituiva la vera posta in gioco: tanto che essa, anche se non formalmente positivizzata, era considerata parte della “costituzione materiale”.
La revisione del 1963 è, anch’essa, il frutto di una proposta giustificata da ragioni politiche (come sempre politiche sono le motivazioni che spingono a porre e a modificare le regole fondamentali). La crisi del centrismo democristiano, sancito dalla fine della leadership di Alcide De Gasperi (scomparso nel 1953), e il successivo graduale percorso politico diretto a fare entrare nel governo il Partito socialista, grazie alla convergenza di Amintore Fanfani, Aldo Moro e Pietro Nenni (il primo governo Moro DC-PSI è del 4 dicembre 1963), è la principale ragione di sistema politico che ha giustificato l’innalzamento e la stabilizzazione del numero dei parlamentari, fissato negli attuali 945 (630 e 315). In fondo, l’innalzamento del numero – considerato allora e ancora oggi tra i più alti del mondo – e la sua determinazione in misura fissa servivano per assicurare le posizioni di forza a tutti i partiti allora egemoni: sia di quelli della maggioranza (nella quale era entrato il PSI superata la tradizionale sudditanza ai comunisti), sia dell’opposizione comunista, dato che tutte le forze politiche, grazie soprattutto alla formula elettorale proporzionale, avrebbero trovato nelle camere un numero di rappresentanti adeguato e sicuro. Insomma, si trattò di una decisione che anticipava il consociativismo, che sarà definitivamente celebrato con l’approvazione dei Regolamenti parlamentari del 1971, che fecero del Parlamento il “centro” del sistema politico ma, al contempo, il luogo della discussione senza decisione, essendo, quest’ultima, progressivamente spostatasi sul governo (non è un caso che proprio ai primi anni Settanta comincia a ri-prendere piede – dopo l’esperienza statutaria e fascista – l’abuso della decretazione d’urgenza) la cui politica generale e le cui scelte concrete erano in buona sostanza definite dalle segreterie dei partiti (sia di maggioranza che di opposizione specie comunista).
In definitiva, l’elevato numero dei parlamentari italiani, oltre ad allontanare il nostro Paese dalle democrazie europee nelle quali l’assemblea politica (la camera bassa) presenta in media un numero oscillante tra 350 e 700 rappresentanti, aveva lo scopo di portare alle estreme conseguenze la logica della rappresentanza proporzionale, facendo del Parlamento il luogo in cui qualsiasi partito avrebbe potuto accedere senza particolari difficoltà, ma, per questo, rendendolo di fatto incapace di svolgere pienamente le proprie funzioni di indirizzo e controllo nei confronti del governo. Una decisione assunta, quindi, in puro spirito partitocratico e consociativo. Forse, col senno di poi, è proprio in ragione di ciò che ancora oggi, nel dibattito sulle riforme costituzionali, si tende a sovrapporre la questione elettorale a quella costituzionale e a ritenere, in fondo, prioritaria la scelta della formula elettorale sui contenuti della stessa costituzione!
Anche la decisione di introdurre la circoscrizione estero è stata motivata da ragioni politiche: ha corrisposto alle radici nazionaliste e scioviniste della destra nazionale – allora alla guida del governo del Paese – di voler dare rappresentanza anche ai cd. italiani all’estero: non c’è da aggiungere molto a questa proposta priva di senso – come hanno dimostrato i fatti – ma voglio soltanto limitarmi a notare che il voto degli italiani all’estero dimentica il principio fondamentale del costituzionalismo che lega indissolubilmente rappresentanza e tassazione. Ma, come si sa, non sempre i principi orientano le scelte della politica (quella riforma, in fondo, fu accettata anche dai partiti di opposizione).
La lezione della storia è dunque la seguente: sono i rapporti di forza esistenti in un determinato momento e in certo luogo che dettano l’agenda e determinano il contenuto delle decisioni politico-istituzionali. Ogni proposta di modifica della legislazione (sia costituzionale sia ordinaria) dipende da precise scelte politiche, non sempre da ragioni ideali e, comunque, non da ideali sganciati dalla realtà o dagli interessi particolari. Nel nostro contesto, la riduzione del numero dei parlamentari è solo l’ultima di una lunga serie di proposte di modifica della Costituzione. Nella fattispecie, si tratta di una idea che è sempre stata presente nei progetti che si sono succeduti dagli anni Ottanta fino ai nostri giorni (come dimostra uno studio di Carlo Fusaro, cui rinvio). Essa, inoltre è il risultato di un processo storico complesso che ha due puntuali precedenti: il primo, il fallimento della cd. “grandi riforme” della costituzione, giustificato proprio in nome dell’opportunità (per alcuni della necessità) di procedere solo mediante puntuali e limitate modifiche della Carta; il secondo, il progressivo affievolirsi della spinta antipolitica e antiparlamentare portata avanti dal Movimento 5 Stelle che, non dimentichiamolo, aveva collegato la riduzione dei parlamentari a due, ben più eversive, modifiche, quali l’abolizione del divieto di mandato imperativo (per aumentare il potere di condizionamento dei partiti nei confronti della libertà del singolo parlamentare) e l’introduzione del referendum popolare propositivo (per creare un canale di legislazione popolare concorrente e in definitiva alternativo a quello del Parlamento).
Archiviate queste due ultime proposte, quella di ridurre il numero dei parlamentari assume un tono tutt’altro che antiparlamentare. Dal mio punto di vista servirà per dare una nuova centralità al Parlamento. Nella selezione della classe parlamentare potrà essere valorizzato maggiormente il merito e la competenza, che solo numeri ridotti può consentire, limitando, per quanto possibile, lo strapotere delle segreterie di partito nel determinare gli eletti e nel condizionarne le scelte parlamentari. Un Parlamento con un numero più contenuto potrà svolgere con maggiore efficacia le proprie funzioni. Si potrebbe riprendere e messa in cantiere in proposito una proposta avanzata molti anni fa da Augusto Barbera che ipotizzava di valorizzare il parlamento in seduta comune proprio per superare – almeno fino al suo definitivo superamento – i limiti del bicameralismo paritario: davanti ai 600 parlamentari il governo potrebbe essere chiamato per la fiducia o, in ogni caso, per rispondere del proprio operato (evitando l’inutile rito del doppio passaggio davanti a ciascun ramo del parlamento). Il numero ridotto valorizza le competenze e la visibilità pubblica e quindi la responsabilità degli eletti.
Insomma, si gioca con questa proposta di modifica una partita seria nella direzione di una maggiore partecipazione del Parlamento al processo di decisione politica. Non tutto dipende da questa revisione, certamente: saranno necessarie altre modifiche e altre soluzioni giuridiche. È un primo importante passo nella giusta direzione
Riporto per chiarezza dal Dossier in tema degli uffici studî congiunti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, in data 7 ottobre 2019, pagina 5:
«A seguito della modifica costituzionale muta il numero medio di abitanti per ciascun parlamentare eletto. Per la Camera dei deputati tale rapporto aumenta da 96.006 a 151.210. Il numero medio di abitanti per ciascun senatore cresce, a sua volta, da 188.424 a 302.420 (assumendo il dato della popolazione quale reso da Eurostat). Si ricorda che la formulazione originaria del testo degli articoli 56 e 57 Cost., come approvati dall’Assemblea costituente, non prevedeva un numero fisso di parlamentari, bensì un rapporto numerico costante tra gli abitanti e gli eletti, in modo che il numero dei parlamentari potesse mutare con il variare della popolazione. In particolare, era previsto che fosse eletto un deputato ogni 80.000 abitanti o frazione superiore a 40.000 abitanti: al contempo, per ogni regione era eletto un senatore ogni 200.000 abitanti o frazione superiore a 100.000 abitanti, con un minimo di sei senatori, fatta eccezione per la Valle d’Aosta alla quale si attribuiva un unico seggio. Con la legge costituzionale n. 2 del 1963 il numero dei senatori elettivi è divenuto la metà di quelli della Camera, fissati in 630, a prescindere dalla variazione della popolazione; è stato altresì stabilito che nessuna regione potesse avere meno di sette senatori ad eccezione della Valle d’Aosta (uno) e del Molise (due)».
Per la mia parte, osservo che è irrazionale diminuire il numero dei rappresentanti, quando rispetto al 1963 è aumentato quello degli aventi diritto al voto, per effetto sia dell’abbassamento della maggiore età (che incide sui soli deputati, salvo quanto si dirà oltre per il Senato de jure condendo), sia ― come ricorda la domanda ― dell’allargamento dell’elettorato attivo e passivo a Italiani all’estero (prescindo qui dalla soluzione che mi appare in realtà preferibile, ossia quella di abrogare del tutto questa possibilità, mantenendo un diritto di elettorato attivo presso le sedi diplomatiche e consolari, con procedimenti elettronici che garantiscano personalità e segretezza nell’espressione del voto ai connazionali iscritti nelle nostre liste elettorali e solo temporaneamente fuori dal suolo patrio).
Non mi sembra obiezione da accogliere l’osservare che le occasioni di rappresentanza politica si sono dal 1963 moltiplicate, per l’insurrogabilità del ruolo delle Camere politiche nazionali da parte sia dei Consigli delle regioni ordinarie (a metà degli anni Sessanta inesistenti; del resto, nemmeno quanto a denominazione essi possono dirsi assemblee parlamentari: Corte Costituzionale, sentenze 106 e 306/ 2002), sia del Parlamento Europeo. Il raffronto con altre democrazie europee similari, quanto al numero dei rappresentanti, appare egualmente fuori fuoco: la scienza del diritto costituzionale comparato insegna che paralleli del genere sono di dubbio fondamento, dovendo ogni specifica soluzione spiegarsi e venire dimensionata alla luce di storie e contesti dei Paesi di volta in volta considerati.
Sul tema dei “risparmi sui costi della politica” consentito dal “taglio” devo dire che ― come impostato da certa propaganda ― esso costituisce una banale volgarità di cui non metterebbe conto occuparsi, se non fosse che fa indubbiamente presa sugli spiriti solo superficialmente riflessivi. Più serio è porsi il problema di disboscare enti pubblici di sottogoverno nazionale e autonomistico-territoriale e di finanziare l’attività dei partiti con sconti sui costi dei servizi di affissione di manifesti, collegamenti elettronici, uso di sedi e luoghi di riunione di proprietà pubblica, anche se il modello ― in reazione ai visibili abusi del passato ― sta trasformandosi, sotto questo profilo cruciale, passando a quello del finanziamento da parte dei sostenitori; questo è a mio parere rischioso, ma non posso qui aprire sul punto ― per motivi di spazio ― nemmeno un inciso. In ogni caso, il proposito di ricondurre la gestione della politica a sobrietà e trasparenza di risorse impiegate ad alimentarla (seppure fosse da ritenere realistico) implica azioni dispiegate su più fronti e che possono produrre risultati in una strategia di lungo termine; ben altro, dunque, del proclama enfatico ― ad esempio ― per cui, grazie a un certo provvedimento governativo, «da oggi è abrogata la povertà».
2. La riforma approvata dal Parlamento nell’ottobre 2019 si incentra sulla composizione “numerica” delle Camere riducendo la Camera dei deputati da 630 a 400 deputati ed il Senato della Repubblica da 315 a 200 elettivi (fatti salvi i senatori a vita di nomina presidenziale). In caso di vittoria del SI’ come cambierà il tema della rappresentanza parlamentare nel rapporto tra eletti ed elettori?
Ridurre il numero dei parlamentari ha certamente l’effetto di ridurre il tasso di proporzionalità tra eletto ed elettore (e cittadino in senso largo). La rappresentanza o la rappresentatività riguardano la formula elettorale per scegliere gli eletti e, quindi, essa non dipende, se non indirettamente, dal numero dei seggi disponibili. Il calcolo è presto fatto: posto che i cittadini italiani sono 60.400.000, si passerà da 1 parlamentare ogni 63.900 abitanti a 1 ogni 100.666 (alla camera: da 1/95.873 a 1/151.000; al senato: da 1/191.746 a 1/302.000). La soluzione attualmente vigente (915) è nettamente al di sotto della soglia delle altre democrazie europee; quella dopo la riduzione (600), perfettamente nella media: in Germania, a fronte di 82.400.000 abitanti, il Bundestag ha attualmente 709 deputati, per cui il rapporto è di 1/116.220; in Francia, a fronte di 67.000.000 di abitanti, l’Assemblea nazionale ha 577 deputati, per cui il rapporto è 1/116.118; nel Regno Unito (66.800.000 abitanti), i Commons hanno 650 deputati per cui il rapporto è 1/102.769; in Spagna (47.000.000 abitanti), la Camera dei deputati ha 350 membri, per cui il rapporto è 1/84.230. Negli Usa, se si vuole avere anche questo dato, a fronte di 329.500.000, la Camera dei Rappresentanti è composta di 435 membri, per cui il rapporto è 1/616.888.
Se vincesse il sì, si dovrebbe in primo luogo mettere sotto attenta osservazione il seguito effettivo del risultato, giacché ritengo indimostrata la convinzione che Camere largamente “tagliate” nel numero dei componenti siano automaticamente di migliore qualità, quanto al personale politico, o funzionino meglio.
Mi attendo inoltre che le segreterie di partito (o quanto a tale organo equivale per il Movimento Cinque Stelle) e le lobbies esercitino, già dal momento della scelta dei candidati, una presa e un controllo ancora maggiori di oggi, anche perché le circoscrizioni sarebbero più ampie e/o i candidati dovrebbero raggiungere un numero maggiore di elettori, dunque le campagne elettorali costerebbero di più e questo certo non avverrebbe senza feedback occulti e facilmente ipotizzabili.
Segnalo un rischio non da poco per il pluralismo politico: quanto a me, per dirne una, ho sempre votato per partiti piccoli, ma indispensabili nei nostri strutturali governi di coalizione, ma il taglio li sacrificherà, per l’ovvia, prevedibile propensione degli elettori a concentrare i voti sui rappresentanti restanti dei partiti maggiori.
Temo, continuando, la sottorappresentazione delle aree territoriali deboli: Milano, Roma, Firenze, Bologna, Napoli, Bari, Palermo avranno comunque ― e avrebbero con qualunque legge elettorale ― rappresentanti, anche se ridotti di numero, ma l’Abruzzo, il Molise, le aree interne campane, tutte terre a me care, o altre simili?
Infine ― e questo è l’orizzonte complessivo del disegno che si è solo incominciato a perseguire con questo taglio così intenso ― sottolineo l’intento antiparlamentare della cultura costituzionale pentastellata, quale si evince da altre loro proposte agli atti delle Camere. Esse sovra-quotano la democrazia diretta attraverso l’iniziativa legislativa rafforzata e un successivo referendum di approvazione della proposta stessa, ove il Parlamento non provvedesse a farlo secondo l’intenzione dei promotori, come “bollinata” dalla Corte Costituzionale e prevedono limiti alla libertà di mandato parlamentare (si dice “in funzione anti-trasformistica”). In questo contesto, trovo poco meditato perfino il riconoscimento del diritto di voto ai diciottenni per il Senato, che da un lato contraddice sul punto la dichiarata volontà di differenziarlo dalla Camera dei Deputati, dall’alto chiama a votare per la Camera concepita dai Costituenti come “più saggia”, per l’età più matura di elettorato attivo e (tendenzialmente) passivo, classi di età che notoriamente contribuiscono in ampia misura al generalmente basso indice di vendita e lettura dei giornali nel nostro Paese e si affidano per informarsi anche sulla politica all’emotività superficiale troppo spesso veicolata dai social networks.
Naturalmente, difendere la rappresentanza e il Parlamento come sede istituzionale di “compromesso” (non una brutta parola, se alto e intelligente) e mediazione non significa però ― quanto a me ― difendere l’indifendibile, ossia la bassa qualità della rappresentanza politica nell’attuale momento storico, ma siffatta malattia si cura intervenendo dove essa nasce, ossia rivitalizzando la partecipazione nei partiti e attorno a loro (non fuori o contro), perché in essi si formi e selezioni un ceto politico qualitativamente migliore, sotto il controllo ravvicinato di iscritti e militanti. Solo dopo il problema è del Parlamento e dei Consigli comunali e regionali, dove il ceto politico approda. Per usare un’immagine: se il male è nel sistema politico e la legge elettorale è (come il sangue per il corpo) il veicolo di nutrienti, ma anche di patologie, suo tramite si trasmetteranno agli organi tanto sostanze “buone”, indispensabili alla vita biologica, quanto guaste. Il male è insomma nel sistema politico-partitico, non nella Costituzione.
3. Il dibattito sulla composizione del Parlamento si legherebbe ad altri orizzonti di riforma, per così dire, “corollari” e di natura non costituzionale, ossia legge elettorale e regolamenti parlamentari. Quali le opzioni di ritocco in caso di vittoria del NO e/o di riforma complessiva, se vincesse il SI’, potrebbero arrivare sul tavolo dei parlamentari?
Solo se vincerà il SÍ potranno essere credibilmente perseguite riforme immediate a corredo della riduzione. Innanzitutto, la tanto auspicata e mai concretamente fatta (dal 1971) riforma complessiva dei regolamenti parlamentari: a differenza di quanto sostengono alcuni, la modifica dei regolamenti parlamentari deve seguire non anticipare la riforma della costituzione (ammettere questa seconda soluzione sarebbe, sul piano strettamente giuridico, come rovesciare il rapporto gerarchico tra Costituzione e fonti derivate; dal punto di vista logico è un puro non sense: l’organizzazione dell’attività parlamentare non può che corrispondere e, perciò, seguire la definizione del numero degli eletti).
In secondo luogo, la vittoria del SÍ imporrà il cambio della formula elettorale. In fondo, se le cose restano così come sono, si potrà anche votare un’altra volta con l’attuale legge elettorale (il Rosatellum). Mentre il numero ridotto costringerà a un ripensamento. Il punto cruciale, però, è che la scelta sulla riduzione non condiziona il tipo di formula elettorale, nel senso che i partiti sono e restano liberi di scegliere. È compatibile con 600 parlamentari sia una formula proporzionale (pura o corretta) sia una formula maggioritaria (collegio uninominale, doppio turno ecc.). La scelta della legge elettorale, in definitiva, dipende dagli equilibri politici del momento. E’ dalla formula elettorale che dipende la questione della rappresentanza e della rappresentatività degli eletti. In fondo dietro questa critica v’è la legittima pretesa dei piccoli partiti di vedersi rappresentati in parlamento (cui fa da contraltare l’altrettanto legittima pretesa dei grandi partiti a ridurre la rappresentanza e perciò il potere di condizionamento dei piccoli partiti nelle aule politiche). Ma gli interessi delle forze politiche potranno trovare risposta nella formula elettorale e non dal numero (quale sarebbe quello adeguato?) degli eleggibili.
In questi giorni si sta ricominciando a discutere in Parlamento di legge elettorale, come da patto stipulato in proposito tra Movimento Cinque Stelle e Partito Democratico all’atto della formazione del secondo Governo Conte e già questo è rischioso, perché una mera discussione non equivale a una legge approvata, oltretutto si confermano le liste bloccate. In ogni caso, nulla si dice dei necessari interventi sui regolamenti parlamentari ― per esperienza “vischiosi” e dunque non facili da modificare ― né del rapporto tra rappresentanti regionali e parlamentari nell’elezione del Presidente della Repubblica e dei quorum specifici per talune votazioni, modificazioni che richiederebbero una legge costituzionale. Senza tali mutamenti di garanzia, basterebbero rispettivamente l’accordo di pochissimi ad approvare in sede deliberante una legge ordinaria e non troppi voti per modificare la stessa Costituzione.
In coerenza logica con quanto osservavo nelle risposte alle domande precedenti, dovrebbero ― non so se potrebbero; questo dipenderà dall’intelligenza politica delle personalità influenti nelle Assemblee, che pure vi sono, ma l’esperienza mi induce ad essere cauto, se non addirittura pessimista, giacché fin qui molti anni di propositi riformatori hanno trovato il ceto politico sordo ai campanelli di allarme dell’insoddisfazione del popolo, comunque le sue frazioni si siano schierate e si schierino nei precedenti referendum costituzionali e oggi ― «arrivare sul tavolo dei parlamentari» una legge sulla disciplina della democrazia interna dei partiti, ex art. 49 Cost. e una sulla trasparenza dei gruppi di pressione.
Chiunque vinca in questa circostanza, cioè, si renderanno ineludibili altri interventi riformatori. L’importante è che essi siano coerenti tra loro e garantiscano sia la decisione politica, sia il suo carattere proceduralmente democratico e sostanzialmente rispettoso dei diritti fondamentali della persona.
4. Provando a ragionare prescindendo dal risultato finale, quali spazi residuerebbero per altri progetti di revisione costituzionale sia nel merito (parti della Costituzioni sulle quali intervenire) e sia nel metodo (dare corso a progetti di riforma “globale” come nel 2006 o nel 2016 o intervenire solo settorialmente come nell’attuale riforma)?
La politica è l’arte del possibile: non ci sono limiti a quel che può o potrà accadere. Dal punto di vista psicologico e nell’immediato, però, una vittoria del NO sarà l’ennesima conferma del testo vigente della Costituzione e la cristallizzazione della sua forma attuale. Il processo riformista sarà più difficile. Personalmente ritengo auspicabile riforme di ampio respiro, piuttosto che un percorso a tappe e a piccoli passi. Ma la soluzione quale che sia l’esito del referendum costituzionale dipende e dipenderà dalla volontà degli attori politici di farsene carico (e dalla capacità della società civile di fare sentire la propria voce in proposito).
Mi sembra comunque imprescindibile che si rivisiti, dopo il referendum costituzionale, il tema – peraltro complesso e non è un caso che la sua mancata soluzione soddisfacente abbia contribuito al naufragio di tutte le strategie riformatrici precedenti – del bicameralismo perfetto, che andrebbe superato. Trovo inoltre fondamentale anche riprendere, dalla riforma “Renzi – Boschi”, l’idea del regime di atti che il Governo consideri essenziali per il proprio indirizzo politico, cui assicurare una corsia preferenziale, ma con garanzie per le opposizioni. Tengo, ancora, particolarmente ad un punto, reso evidente durante la pandemia dalle discussioni sui (per molti troppi o addirittura illegittimi) decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, incidenti su diritti coperti da riserva di legge e sulle competenze regionali. Mi sembra cioè venuto il momento per mettere a tema con serenità il proposito di allargare con revisione costituzionale alle future emergenze ambientali e sanitarie (che purtroppo non sono solo prevedibili, ma certe) il modello dell’art. 78 per la gestione dello stato di guerra. Non si può continuare ad addossare alla sola decretazione d’urgenza la funzione di radicare la supremazia del Governo in tempi ordinari, per le patologie che questo modo di procedere ha evidenziato, specialmente nel combinato disposto tra legge di sua conversione e apposizione della questione di fiducia, né in tempi straordinarî. Sono disponibili al riguardo modelli a cui guardare in Paesi con la medesima nostra forma di governo ed analogamente con larghe autonomie territoriali (come Germania, Portogallo, Spagna, anche se (non mi contraddico dunque con quanto ho sostenuto in precedenza) bisogna tenere conto della storia costituzionale nazionale, in cui l’istituto dello “stato d’assedio” per gestire situazioni di crisi interna era stato impiegato in modo da prestarsi ad abusi, il che spiega perché l’unico strumento costituzionale per gestirli sia il decreto-legge, che durante la crisi pandemica è stato combinato con ‘impianto del testo unico della protezione civile (d. l.vo 1/ 2018). Come ho altrove scritto, allora, una legge costituzionale dovrebbe avere equilibrio, ossia il compito di identificare la catena di comando della gestione dell’emergenza, coinvolgendo la protezione civile, alla quale non addossare però più la croce del suo fronteggiamento in modo solitario, nonché rappresentanti della scienza, del mondo economico e sindacale, perfino delle confessioni religiose, in forma di un comitato ristretto che il Presidente del Consiglio dovrebbe consultare, ma senza venirne paralizzato ed essa dovrebbe precisare altresì in quale modo mantenere il raccordo col Parlamento (anche, in ipotesi, in forma di commissione mista tra i due rami), per quanto tempo massimo e con quale grado di compressione sopportabile dei diritti fondamentali coinvolti dall’evento.
Approfitto della domanda, peraltro, anche per chiarire un ulteriore senso ― forse la vera ragione di fondo ― del mio no dell’epoca e di quello attuale, non motivati tanto o soltanto da dissensi su specifici profili di revisione costituzionale, ma soprattutto dal fastidio per avere il Presidente del Consiglio, ieri e il partito più forte della maggioranza, oggi, fatto del tema della riforma costituzionale una risorsa di indirizzo politico; considero perciò un errore che il Partito Democratico abbia oggi accettato sul punto una trattativa, subendo una condizione impostagli per accedere al Governo che lo ha portato a mutare il suo costante orientamento negativo precedente.
Come fu allora sbagliato che alcuni votassero con l’intento di sostenere o colpire il Governo Renzi, così chi voterà oggi dovrebbe guardare al merito delle questioni (beninteso anche nel contesto di riforme costituzionali future, da taluno agitate), non attribuire al suo voto la funzione di sostenere o far cadere l’Esecutivo in carica. Il tempo della politica ordinaria e quello della Costituzione sono e devono restare sfalsati. Come diceva Calamandrei, in Parlamento, quando si discute di Costituzione, il banco del Governo dovrebbe rimanere vuoto.
Quanto alla strada per riformare eventualmente la Costituzione, quella di interventi organici si è rivelata ormai impraticabile e del resto e come noto un eventuale referendum oppositivo (non confermativo, come dicono oggi erronei, se non proprio truffaldini, spot informativi della Rai su questo) sarebbe ambiguo, per disomogeneità degli oggetti. Le riforme puntuali sono però egualmente rischiose, perché guardare a un albero fa perdere di vista la foresta e in ogni caso nulla garantisce che ad un passo gli altri promessi e necessariamente collegati seguano effettivamente. Qui la politica dovrebbe avere senso di responsabilità e mantenere una tensione all’obbiettivo, uno “spirito ricostituente”, se non un’impossibile riconvocazione di un’Assemblea Costituente (rimando sul punto, una volta di più, alla mia ultima risposta), ma considerati i precedenti e la sua mediocre qualità attuale non sono ottimista.
5. In “Massime dal Passato” trattiamo di argomenti ed eventi di natura giuridica per l’appunto passati, ma che possono trovare nel dibattito giuridico attuale una certa visibilità. Le riforme implicano una dialettica tra passato e presente, dove il giurista è chiamato ogni volta ad affrontarle con uno spirito particolare. Quale dovrebbe essere il giusto approccio sia per lo studioso e sia per il giurista del domani verso le riforme costituzionali?
Credo che l’approccio migliore sia quello di collocare il discorso riformista nel solco della storia e della tradizione del Paese, senza astrattismi e ideologismi. Il realismo, tuttavia, è merce rara: prevalgono, e non da oggi, usi strumentali della realtà e delle idee. Soprattutto in Italia.
Lo studio della storia è fondamentale per intendere bene il diritto. Con riferimento al tema su cui abbiamo dialogato, ad esempio, più o meno cent’anni fa il grande giurista Hans Kelsen già rilevava in un suo saggio le insoddisfazioni verso il funzionamento concreto del Parlamento ― del quale era peraltro un grande difensore ― e proponeva, per superare la disaffezione degli elettori verso di esso, misure come il referendum popolare sulle leggi, almeno consultivo (nella nostra Assemblea Costituente, del resto, Costantino Mortati puntò egli stesso – benché certo non kelseniano – su un uso intenso dello strumento, accolto invece nel testo finale con parsimonia), l’iniziativa legislativa popolare, la riduzione delle immunità di funzione degli eletti, sentite dal cittadino comune come privilegi. Il suo grande avversario nel dibattito dell’età della Repubblica di Weimar, Carl Schmitt, aveva da parte sua notato che un giorno si sarebbe potuto inventare un marchingegno per sondare le opinioni dei cittadini su ogni questione e farli decidere in merito, ma aggiungeva che questo non avrebbe comportato l’esaltazione della politica come decisione comune, bensì la somma algebrica degli individualismi. Stupefacenti entrambi per attualità, dunque. Del resto, i Maestri sono tali anche perché capaci di additare orizzonti a lungo termine, di vedere quello che altri non colgono.
La mia diffidenza sull’uso attuale della democrazia diretta, quanto agli strumenti che dovrebbero integrare quella rappresentativa, nasce dal constatare che i partiti (che storicamente hanno voluta e sorretto la seconda, almeno a partire da un certa fase storica) sono oggi debolissimi, a differenza di quanto accadeva ai tempi di Kelsen e poi di Mortati alla nostra Costituente, sicché, anche per la diffusione di Internet e dei social networks, essi tendono semmai a saltarla, a sostituirla. Altro che tagliare il numero dei parlamentari, perciò: parlando per paradosso, secondo me bisognerebbe aumentarlo, o anche diminuirlo, ma di poco, però qualificando assai di più gli eletti, assicurandone cioè la rappresentatività reale, l’autorevolezza, il prestigio. Questa sarebbe una carismaticità “buona”, ma invece ― per fare un esempio di attualità ― nelle elezioni regionali la figura del candidato alla carica di Presidente “mangia” e oscura il partito di sua provenienza. Si valorizza, insomma, un elemento plebiscitario già presente nel sistema costituzionale fin dalla legge 90 del 1993 di elezione diretta del sindaco e da quella che introdusse l’elezione in sostanza tale del presidente regionale, che per talune regioni è stato poi ulteriormente sottolineato dalle istanze di autonomia differenziata, ex art. 116. III comma, della Costituzione, che vivono nell’identificazione di una comunità territoriale che si riconosce in una figura simbolicamente “forte” di leader periferico tendenzialmente unificante.
Devo fare qui, per onestà intellettuale, un’autocritica: da giovane (ai tempi del referendum sul divorzio e, in seguito, di quelli proposti inizialmente dall’on. Mario Segni sui sistemi elettorali delle Camere) mi ero lasciato sedurre anche io da una certa vulgata di moda e dalla cultura della “governabilità”, di cui si incominciò a parlare da noi con la traduzione nel 1977 (uscita da Franco Angeli e con una prefazione che appare scritta da Giovanni Agnelli) del volume di due anni prima di Crozier, Hungtinton e Watanuki La crisi della democrazia, Rapporto alla Commissione Trilaterale, vera pietra miliare per tutte le ricette di intervento istituzionale successive che ― onde dirigere al meglio le società umane ― invitano a deprimerne le istanze di emersione dei bisogni collettivi e le sedi e occasioni della loro rappresentanza, privilegiando strumenti tecnocratici per la risposta a quelli comunque filtrati dal sistema. Del resto, anche il segretario socialista Bettino Craxi aveva lanciato in quel periodo (precisamente nel 1979) il tema della Grande Riforma delle istituzioni, muovendosi nella medesima direzione. Fu questa per me una stagione di innamoramento breve, che ho da lungo tempo superata: per fortuna, giacché nasceva da errori di analisi superficiale della storia e della realtà dell’epoca. In questo processo di ripensamento, mi convinsi presto, melius re perpensa, che ad un assetto del sistema politico ancora iper-conflittuale non si adattino il sistema elettorale maggioritario e il bipartitismo. Oggi e da parecchi anni penso inoltre che il referendum popolare sia utile su questioni strettamente locali o per grandi opzioni di principio (ad esempio: monarchia o repubblica, divorzio sì o no; già se si interrogasse il popolo attivo su questioni di inizio e fine vita, come nel primo caso è peraltro avvenuto, mi ritrarrei, perché si tratta di temi che interpellano la coscienza individuale e non è opportuno politicizzarli, sicché legge e giustizia costituzionale dovrebbero approssimarvisi con estrema discrezione), altrimenti intossica il processo politico, come del resto fa un ruolo eccessivamente espansivo del combinato disposto tra giudice a quo e Corte Costituzionale: il mio interlocutore di oggi qui ha parlato felicemente e in modo critico, in proposito, di “suprematismo giudiziario”.
Ad ogni modo e più in generale, sono partito dall’essere vicino al costituzionalismo “alla francese” (il potere costituente non si esaurisce davvero mai, si sovrappone a quello di revisione, dunque si assiste spesso al suo manifestarsi e ogni generazione ha diritto di darsi la “sua” Costituzione ― negli USA lo sosteneva già Jefferson ai tempi in cui ci si diede lì il documento fondamentale ― e comunque il riformismo intenso e continuo va incoraggiato) e sono giunto ― da lungo tempo, lo ripeto ― ad apprezzare la posizione del costituzionalismo britannico, rispetto alla quale la vicenda della Brexit è un’eccezione, che chi vivrà vedrà se si ripeterà, per la quale le regole costituzionali essenziali di un Paese devono essere toccate il meno possibile e la loro permanente stabilità, che non esclude adattamenti per via interpretativa o anche specifici conflitti, riposa su una condivisione di fondo dei valori fondativi della convivenza.
In conclusione, credo che le Costituzioni debbano essere lasciate libere di consolidarsi nel sentire collettivo dei popoli le cui élites politiche le hanno espresse e magari scritte dopo una catastrofe, come una guerra sostanzialmente perduta e una crisi di regime, attraverso le generazioni. Le patologie contingenti appariranno allora per quello che sono davvero: deficit di cultura e prassi politiche, cui certo porre rimedio, ma senza toccare ogni volta l’edificio in cui si abita. Se un’automobile incomincia ad andare male, non è detto che debba per forza essere cambiata (magari passando a un modello completamente diverso e non all’ultimo, ma dello stesso tipo). A volte basta sostituire un pezzo con un suo ricambio, spesso bisogna solo correggere lo stile di guida. Si racconta che una volta chiesero a Chou En Lai, il ministro degli esteri di Mao Tse Tung ― comunista, ma discendente da una famiglia di mandarini―, che cosa ne pensasse della Rivoluzione Francese e lui replicò che un giudizio complessivo era prematuro, essendo passati solo due secoli e mezzo.
Nel ringraziare i Professori Morrone e Prisco per il loro contributo a questo dibattito virtuale, ci auguriamo, infine, che questa iniziativa possa rappresentare per i lettori uno spazio divulgativo importante e utile per un voto informato e consapevole.
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