Ad Errico Malatesta va doverosamente riconosciuto un ruolo fondamentale nella storia del movimento ed il pensiero anarchico italiano. Tanti sono i suoi scritti, tra cui quello forse più importante, il saggio “L’Anarchia”, scritto nel 1891.
Ripercorrendo la vita di Malatesta, vediamo che essa è costituita da innumerevoli avvenimenti tipici dell’anarchico, eternamente in lotta contro il sistema.
Egli nasce a Santa Maria Capua Vetere il 14 dicembre 1853, compie gli studi liceali nel collegio dei padri scolopi, si iscrive alla facoltà di medicina di Napoli ma lascia dopo tre anni.
La carriera da medico non fa per lui, ed infatti già da giovanissimo, grazie al suo carattere turbolento e alle sue convinzioni politiche, si fa arrestare per la prima volta nel 1868.
Nel 1872 partecipa in Svizzera al Congresso di Saint-Imier, dove incontra Bakunin stringendo anche un rapporto di amicizia e nello stesso anno fonda la sezione dell’Associazione internazionale dei lavoratori (insieme a personalità quali Andrea Costa).
L’anno successivo è nuovamente arrestato a Bologna, e ancora nel 1874 a Pesaro. Il processo che ne conseguì lo consacrò agli occhi del popolo quale rivoluzionario, e gli portò ampia notorietà.
Nel 1878 decide di abbandonare l’Italia, peregrinando tra Egitto, Siria, Romania ed infine rimanendo per un certo periodo in Svizzera.
Torna in Italia nel 1883 (stabilendosi a Firenze) per poi doversi dare alla fuga dopo una condanna a cinque anni di reclusione. Questa volta la sua direzione è lontana dall’Europa, optando per l’Argentina.
Torna in Italia nel 1884 per partecipare ai moti siciliani, ma viene scoperto dalla polizia e deve scappare a Londra, dove nel 1896 partecipa al Congresso Socialista Internazionale durante il quale è siglata la scissione tra anarchici e socialisti.
Nel 1897 torna in Italia e ad Ancona fonda la rivista “L’Agitazione” e (ovviamente) partecipa ai moti per il pane nelle Marche. Arrestato, questa volta deve scontare la pena di sette mesi di reclusione e cinque anni di domicilio coatto ad Ustica e poi Lampedusa, da dove nel 1899 riesce a scappare.
Sempre ad Ancona ha un ruolo fondamentale per quella che verrà dagli storici chiamata “Settimana rossa”.
Malatesta è infatti ricordato per esser stato uno dei promotori nonché agitatore dei fatti datati 7 – 14 giugno 1914, che per la prima e ultima volta portarono l’Italia sull’orlo della rivoluzione, con una serie di insurrezioni popolari che partirono da Ancona alla Toscana e alla Romagna.
Tra gli altri promotori non può non esser ricordato Benito Mussolini, la cui figura pochi anni dopo andò, indirettamente, ad intrecciarsi di nuovo con Malatesta.
Dopo la Settimana rossa, fuggì in esilio a Londra, per poi tornare definitivamente in Italia nel 1919 clandestinamente, dove partecipò al cosiddetto Biennio rosso.
La sua vita di rivoluzionario si interruppe con l’avvento del fascismo al potere.
Durante il ventennio fu tenuto in stretta osservazione dalla polizia, senza però esser confinato come altri leader antifascisti, forse in ragione della sua popolarità, la quale in caso di sua carcerazione avrebbe potuto scatenare proteste.
Morì a Roma il 22 luglio 1932.
L’Unità annunciò la sua morte, specificando però che già da diversi anni era “politicamente morto”, segno che i dissapori tra anarchici e comunisti non si era assopiti. Il Regime proibì la cremazione della salma, onde evitarne la trafugazione e l’esportazione all’estero come reliquia anarchica e rivoluzionaria.
Ma quale era il pensiero malatestiano?
Farne anche solamente un riassunto sarebbe impossibile, e quindi ci si limiterà solo a fornire qualche spunto e a riportare qualche passaggio tratto dal già ricordato saggio “L’Anarchia”.
Innanzitutto, che idea aveva del governo nazionale e come l’anarchia poteva insediarsi in un sistema come quello italiano?
Secondo Malatesta il governo era sempre e comunque un nemico per il popolo di lavoratori ed un ostacolo alla libertà, sempre al servizio dei potenti, che usa due strumenti per opprimere l’uomo:
“O direttamente colla forza bruta, colla violenza fisica; o indirettamente sottraendo loro i mezzi di sussistenza e riducendoli così a discrezione. Il primo modo è l’origine del potere, cioè del privilegio politico; il secondo è l’origine della proprietà, cioè del privilegio economico”.
Secondo Malatesta qualsiasi fosse il nome affibbiatogli, la sua funzione è sempre quella di opprimere le masse a vantaggio dei ricchi, dei potenti, dei borghesi.
Quale strada quindi è percorribile per Malatesta?
Solo una legge (intesa come norma fondamentale) esiste: la solidarietà.
L’unica forma di aggregazione che non toglie a nessuno la libertà è il mutuo appoggio e la cooperazione.
La solidarietà è l’armonia degli interessi e dei sentimenti, con la quale l’uomo può ambire al massimo benessere e che risolve ogni antagonismo.
A questo punto occorre domandarsi dove finisce l’amministrazione della giustizia, in assenza di una qualsiasi forma di governo. Malatesta risolve così:
“Noi proclamiamo la massima FA QUEL CHE VUOI, ed in essa quasi riassumiamo il nostro programma, perché – ci vuol poco a capirlo- riteniamo che in una società armonica, in una società senza governo e senza proprietà, ognuno VORRÁ QUEL CHE DOVRA’”.
Ma se poi qualcuno decideva di fare un danno ad altri, la reazione del popolo sarebbe stata quella di curare il fratello che ha sbagliato, senza l’uso di odio o repressione, e soprattutto senza costringerlo alla “difesa”. Il popolo è molto più giusto di tutti “i legislatori, i birri ed i giudici di mestiere”, che saprebbero usare solo la violenza e l’oppressione contro il popolo.
Sempre in merito all’assetto giuridico della società perfetta, nemmeno gli avvocati ne escono bene dal pensiero di Malatesta. Nella celebre opera pubblicata nel 1895 “Fra contadini – dialogo sull’Anarchia”, dove un giovane contadino anarchico convince delle sue idee uno scettico contadino più anziano, il primo dice:
“In quanto agli avvocati lasciateli star da parte, perché quella è una cancrena simile al prete, che la rivoluzione sociale farà sparire completamente”.
Nota conclusiva: nel 1898 Malatesta fu processato avanti il Tribunale di Ancona e fu difeso da uno dei più grandi avvocati e giuristi dell’epoca, Enrico Ferri. Tutto sommato, nonostante quanto scritto pochi anni prima, gli avvocati avevano ancora una loro utilità ed era meglio che non sparissero.