La Breccia di Porta Pia del 1870 mise in discussione la sovranità del Papa in Italia, e con essa alcune prerogative come la nomina dei nobili. Negli anni Venti Vittorio Emanuele e il governo fascista ne approfittarono per tirare un’altra stoccata politica alla Santa Sede.
Il potere temporale del Vaticano è antico e ben consolidato in Italia, ma la presa di Roma del 1870 ha imposto al papato di deporre la spada sulla Penisola. Vittorio Emanuele III riuscì grazie ai suoi validissimi alleati a ridimensionare lo Stato Pontificio, ricacciandone i tentacoli a Roma. Tuttavia, negli anni ’20 del 1900, ben 50 anni dopo lo storico evento, la questione del potere politico del papa era ancora irrisolta.
In particolare, si pose il problema di regolare la facoltà del papa di nominare la nobiltà, funzione che i pontefici si erano arrogati nel tempo grazie alla conquista di territori come veri e propri sovrani, che necessitavano dunque di validi vassalli capaci di governare le porzioni di regno in loro nome.
A complicare le cose ci fu il Regio decreto del 20 marzo 1924 – n. 442, che vietava l’uso di titoli e attributi nobiliari per coloro che non fossero iscritti nei registri della Regia Consulta Araldica, ossia il collegio consultivo istituito dal Regno d’Italia nel 1869 per dare pareri al governo in materia di titoli nobiliari, stemmi e pubbliche onorificenze.
La Consulta Araldica – al tempo presieduta dal capo del governo Benito Mussolini – non includeva però quanti avessero ottenuto il titolo dal pontefice dopo il 1870, perciò veniva negata la validità del titolo nobiliare conferito dal papa nell’intero territorio italiano. La motivazione, riportata dal quotidiano Epoca e giunta a noi tramite un articolo de La Stampa, risiedeva nel fatto che lo Stato italiano non riconosceva la sovranità del Pontefice sul suolo della Penisola, e dunque egli non possedeva il diritto di nominare nuovi nobili. Una vera sfida politica, firmata proprio da Vittorio Emanuele.
Per il pontefice ci sarebbe stata una via di fuga alla complessa questione: la legge delle Guarentigie, che regolò i rapporti tra Stato italiano e Santa Sede dalla sua promulgazione, il 13 maggio 1871, fino al 1929, quando furono conclusi i Patti Lateranensi. Il nome stesso della legge avrebbe fornito alla Santa Sede la garanzia – guarantigia – del riconoscimento delle principali prerogative del papato. Gli articoli 1 e 2 riconoscevano al Sommo Pontefice una posizione analoga a quella del Sovrano, ma provvisto di una sovranità sui generis, non paragonabile a quella di Sovrano straniero. Pertanto, secondo i giuristi del tempo, spettava al governo italiano decidere sulla validità dell’assegnazione dei titoli nobiliari, in quanto organo provvisto della piena sovranità sull’Italia.
Tuttavia, il papa Pio IX era troppo offeso per la breccia di Porta Pia, e richiuso nei palazzi vaticani a meditare sul suo rancore, aveva dichiarato inaccettabile la legge delle Guarentigie. Seduto sulle sue poltrone di broccato, si dichiarò prigioniero politico, e affidò alla pena gli sfoghi della sua rabbia. Il risultato di quei fogli sparsi tra i marmi secolari venne rivelato al mondo il 15 maggio 1871, ovvero due giorni dopo l’approvazione della legge: si trattava dell’enciclica Ubi nos, con la quale veniva ribadito che il potere spirituale non poteva essere considerato disgiuntamente da quello temporale. Troppo comodo, non vi pare?
Si decise quindi che l’approvazione del titolo pontificio – con tutti i benefici che comportava – avrebbe necessitato un decreto del Presidente della Consulta Araldica. Per il rinnovo sarebbero state sufficienti invece le lettere patenti, ossia provvedimenti aventi forza di legge emanati dal sovrano o dal governo senza l’approvazione del Parlamento.
Infine, per i nobili furbetti che non si fossero regolarmente iscritti alla Consulta Araldica sarebbero scattate sanzioni, soprattutto pecuniarie… una bella stoccata politica del re al papato, non credete?
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