Il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha nominato Amy Coney Barrett come nuovo giudice della Corte suprema federale. Se confermata dal Senato, la Barrett – che succederebbe così a Ruth Bader Ginsburg – sarebbe la quinta donna nella storia alla più alta Corte americana, il più giovane giudice in carica (ha 48 anni, sarebbe il primo a essere nato negli anni ’70) e l’unico, dai tempi di John Paul Stevens, a non aver frequentato una delle università dell’Ivy League (ha studiato alla Notre Dame University).
Dopo la laurea, Barrett è stata tirocinante (clerk) di Laurence Silberman, alla Corte d’appello per il D.C. Circuit, e di Antonin Scalia (vedi il #giornopergiorno del 26 settembre), alla Corte suprema. Proprio da Scalia Barrett ha assorbito il metodo interpretativo noto come testualismo/originalismo, secondo cui i testi normativi (rispettivamente, le leggi ordinarie e la Costituzione) devono essere interpretati secondo il cosiddetto original public meaning, cioè il significato che un uomo medio avrebbe loro dato al tempo della promulgazione. Barrett ha indagato in modo esteso e approfondito le implicazioni di questo metodo durante la sua carriera accademica: particolarmente apprezzati sono i suoi studi sullo stare decis e, soprattutto, sui rapporti tra precedente e originalismo (vedi i suoi Statutory Stare Decisis in the Courts of Appeals, 73 Geo. Wash. L. Rev. 317 (2004-2005) e Originalism and Stare Decisis, 92 Notre Dame L. Rev. 1921 (2017)). Chi la conosce bene, la descrive come una giurista di straordinario calibro e come una persona dalle grandi qualità umane.
Nel 2017, Trump scelse Amy Coney Barrett come giudice d’appello per il Seventh Circuit. La sua nomina non sembrava destinata a suscitare clamori, visto il suo curriculum accademico, ma, durante il procedimento di conferma, venne alla luce un articolo che ella ha scritto, nel 1998, un paio di anni dopo essersi laureata, insieme al prof. John Hugh Garvey. Il testo affronta la difficoltà morale e etica che un giudice cattolico potrebbe incontrare là dove fosse tenuto a pronunciare una sentenza potenzialmente in conflitto con gli insegnamenti della propria fede (Catholic Judges in Capital Cases, 81 Marq. L. Rev. 303 (1997-1998)). Il caso preso in considerazione da Barrett e Garvey è quello della pena di morte, costituzionalmente ammessa negli Stati Uniti ma ritenuta immorale dal Catechismo della Chiesa cattolica: nel loro saggio, i due autori concludono che il giudice non dovrebbe permettere alle proprie personali idee di influenzare l’esito del giudizio, ma – onde evitare che questa influenza si manifesti comunque, sia pure in modo non evidente – sarebbe in ogni caso opportuno per lui ricusarsi dal caso.
Sembra che Barrett abbia rimeditato quella posizione, dal momento in cui, aderendo in modo più convinto alla judicial philosophy originalista-testualista, è ormai ferma nel ritenere che un giudice può evitare che i suoi valori personali si infiltrino nel processo decisionale vincolandosi a una interpretazione e applicazione delle leggi secondo il significato ragionevolmente emergente dal loro testo scritto. In altre parole, Barrett sembra ormai allineata alla famosa idea di Scalia, a sua volta giudice (e) cattolico, secondo cui «just as there is no Catholic way to cook a hamburger, so also there is no Catholic way to interpret a text, analyze a historical tradition, or discern the meaning and legitimacy of prior judicial decisions — except, of course, to do those things honestly and perfectly». Nondimeno, le controversie che infiammarono la sua nomination come giudice d’appello – in quella sede, la senatrice democratica Feinstein fece scalpore quando si rivolse alla Barrett affermando che «the dogma lives loudly within you» – sembrano destinate a ripresentarsi ancor più intense durante il procedimento di conferma come giudice della Corte suprema: i progressisti temono, in particolare, che Barrett possa fornire il voto decisivo per ribaltare la celebre sentenza Roe v. Wade (ma sarebbe più opportuno fare riferimento a Planned Parenthood v. Casey), sul riconoscimento del diritto di abortire come costituzionalmente protetto.
Nei suoi tre anni come giudice d’appello, Amy Coney Barrett ha scritto 107 opinions, tra majority opinions, concurrences, e dissents. Tra queste, alcune meritano particolare attenzione: in Cook County v. Wolf ha espresso diffidenza nei confronti della Chevron doctrine; in John Doe v. Purdue University, scrivendo per un collegio tutto al femminile, ha ribadito l’importanza del due process anche nel caso di indagini per molestie e violenze sessuali (una posizione condivisa, tra gli altri, da Justice Ginsburg); in Rainsberger v. Benner si è unita al coro crescente di chi dubita della costituzionalità della cosiddetta qualified immunity (su cui abbiamo più diffusamente scritto qui). Se confermata dal Senato, Amy Coney Barrett sposterà, probabilmente, gli equilibri della Corte suprema non verso la “destra” o la “sinistra” politica, che sono categorie improprie per classificare gli orientamenti giurisprudenziali, ma verso un impiego ancora più diffuso della metodologia testualista (che alla Corte è attualmente preferita non solo dai cinque giudici “conservatori”, ma anche dalla “liberal” Kagan) e originalista (associandosi a Thomas e Gorsuch, che sono attualmente i suoi fautori più riconoscibili), con ricadute importanti per tutti i giuristi americani: non solo avvocati, che dovranno certo selezionare con maggiore cura i propri argomenti quando si troveranno a patrocinare di fronte alla Corte suprema, ma anche professori e studenti. Questo esito, fra gli altri, merita di essere osservato attentamente, nel passaggio in fieri da RBG a ACB.
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