A Milano questa notte ha grandinato fortissimo e ora c’è una pioggia misericordiosa. Però vi assicuro che siamo in piena estate. Ho le prove. Anzitutto è luglio, e questo di per sé dovrebbe sgomberare il campo da qualsiasi dubbio. Ma anche ove residuassero perplessità, ho documenti schiaccianti. Per esempio le camicie di questi giorni, che recano evidentissime le stimmate della bella stagione. Qui si suda da fermi, fa caldissimo e tutto è letteralmente insopportabile.
Ora io non è che adori proprio il mare, che per me è il regno del chaos, e non dico che me ne andrei in giro proprio in costume, ma forse – potessi – azzarderei una magliettina leggera abbinata a un comodo pantaloncino (a me piacciono quelli da pigiama). Ora se andassi in giro così, nessuno si scandalizzerebbe. Ma non sarebbe proprio l’agghindamento adatto per andare in quel forno a legna che è il Tribunale, quindi ci toccano camicie, cravatte e giacche – che se non altro hanno hanno il pregio separare il nostro corpo dalla vita esterna.
Ma a proposito di caldo, estate e costumi da bagno ho qui una storia che fa per voi, direttamente dai ruggentissimi anni ’10 del novecento.[/vc_column_text]

Costumi primi del ‘900
Storia di pudore e di parti invereconde.
Gli appassionati di moda e non conosceranno bene l’evoluzione dei costumi da donna: dagli indefinibili abiti di flanella di epoca vittoriana allo scandaloso bikini, passando per varie stagioni di assottigliamento del tessuto che retrocedeva per far spazio a lembi di pelle sempre più visibili.
I costumi da uomo invece hanno avuto forse una transizione più agevole e netta, dalle mute a strisce alla marinara alle forme più moderne.
Forse che il pudore sia sempre stato tutto femminile? In realtà no. Vi dicevo appunto di questa storia.
Nell’estate del 1911 a Savona gli amici Ettore Minetto (avvocato) e Marco Forni (ragioniere), insieme ad altri, lasciate le fatiche del lavoro e dopo una giornata in spiaggia si erano amabilmente recati in automobile in un caffè sul lungomare. Ivi giunti, gli altri avventori “ad una voce avevano gridato allo scandalo ed indignati avevano tosto reclamato l’intervento delle guardie“. Il motivo? Se ne erano andati bellamente in giro con la sola “maglia o costume da bagno“, il che comportava scandalo e oltraggio alla pubblica decenza.
Stiamo parlando proprio di quei costumi a tutto corpo, che lasciavano scoperte solo parte delle braccia e delle gambe, una specie di muta da sub, che però per quegli anni indossavano solo i più arditi, ma sempre e comunque in spiaggia, nel “luogo di bagno” e non certo nella pubblica via.
Invano i nostri amici provarono a difendersi, sostenendo – giustamente – che il loro abbigliamento non era scandaloso perché certo non lasciava intravedere alcuna “nudità invereconda“, e che non v’era differenza tra vestirsi in questo modo in spiaggia o per strada.
E ora ditemi quanta voglia avete di andare al mare?

massima
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La Corte: — Con sentenza 22 agosto 1911
il pretore di Savona condannò Minetto avv. Ettore, Forpi rag. Marco, Vigo Pierro ed altri all’ammenda di lire 50 per ciascuno, ordinando che della condanna non si faccia menzione nei rispettivi certificati penali, per avere offesa la pubblica decenza recandosi tutti in automobile vestiti della sola maglia da bagno davanti a un caffè di quella città.
I condannati deducono la violazione dell’art. 490 cod. pen., perchè non avevano mostrate nudità invereconde se erano in costume da bagno, e non avevano offesa la pubblica decenza se è a tutti permesso di esporsi nella pubblica spiaggia in quel costume, non potendosi ammettere che lo stesso fatto assuma carattere di contravvenzione a seconda dei luoghi pubblici in cui sia compiuto. Attesoché mentre da un lato non sempre e dovunque è moralmente e giuridicamente lecito ciò che per consuetudine o per necessità può ammettersi in determinate circostanze di tempo e di luogo, d’altro lato appartenga esclusivamente al giudice del merito di apprezzare se e quando un qualche atto sia o no lesivo della pubblica decenza in considerazione soprattutto del generale modo di sentire a cui ordinariamente s’ispirano le sette costumanze di vita civile.
Ora se per essersi presentati i ricorrenti tutti insieme coperti del solo costume da bagno delle vie della città, ritenne il pretore che essi avessero offesa la pubblica decenza, e ne diede dimostrazione ricordando le proteste dei cittadini che ad una voce avevano gridato allo scandalo ed indignati avevano tosto reclamato l’intervento delle guardie, questo è giudizio incensurabile di fatto; né esso trova ostacolo nel precetto della legge, che non fa solo consistere la contravvenzione prevista dall’art. 490 nel mostrare in pubblico nudità invereconde, il che per verità non venne affermato a carico dei ricorrenti, ma anche nell’offendere con altri atti la pubblica decenza, come appunto col comparire in luoghi centrali della città in costume proprio unicamente, ed anche quivi non certo con sconfinata licenza, del luogo di bagno.
Per questi motivi, rigetta ecc.
(foro italiano, 1912, 37, 95)