Girgenti è uno degli antichi nomi della città di Agrigento, toponimo scelto dal fascismo nel 1927 per abiurare il passato normanno della città dei Templi.
Uno dei più celebri figli di Girgenti è Luigi Pirandello, che proprio dalle storie e dai personaggi della sua città ha tratto ispirazione per le sua produzione letteraria.
E la storia oggetto di questa vecchia sentenza del Tribunale di Girgenti del 1921 sembra proprio uscita dalla penna di Pirandello. Non solo per la prosa avvincente ed accurata, l’incede incalzante del racconto, la descrizione minuziosa dello scorrere del tempo, dei sentimenti, per l’espressione di giudizi morali sul contegno dei protagonisti, ma anche per l’evento in sé che non può non ricordare la storia de Il Fu Mattia Pascal, scritto da Pirandello solo pochi anni prima dei fatti narrati dal Tribunale. Una storia che instilla sentimenti avversi, e riguarda un avvenimento tragico che “solo la superficialità od il cinismo, cogliendone soltanto il lato comico, potrebbe riguardare con indulgenza e mitezza“.
In breve: nel 1917 Francesco Restivo, contadino della provincia di Girgenti, era caduto prigioniero degli austriaci dopo la sconfitta di Caporetto, ed era morto prigioniero, a migliaia di chilometri da casa, l’anno successivo. Solo una breve informativa raggiunse la sua famiglia, e sua moglie, la vedova Angela Licata. Dopo qualche tempo, si presentò in paese un tale, Giorgio Bellassai, che con uno stratagemma riuscì a farsi credere dalla povera vedova il redivivo marito Francesco Restivo, tornato con grande fatica dai teatri di guerra, dopo una lunga prigionia.
Ora, come descrive la sentenza, Giorgio Bellassai e Francesco Restivo non si somigliavano per niente. L’uno era alto, l’altro basso, l’uno analfabeta, l’altro capace di leggere e scrivere, l’uno con le mani callose tipiche dei contadini, l’altro dalle mani smunte di chi non aveva mai lavorato. Soprattutto il Bellassai aveva uno spiccato accento Ragusano, così diverso da quello parlato da Francesco Restivo.
Eppure la vedova, non appena vide il Bellassai presentarsi in casa sua, davanti alla rivelazione che l’uomo era in realtà suo marito, lo riconobbe immediatamente, o finse di riconoscerlo aggrappandosi a quei pochissimi e insignificanti tratti somatici comuni, come un dente scheggiato in bocca (si veda la scena raccontata in copertina dalla bellissima illustrazione di Pakkinart). Ma in realtà la donna era stata solo preda di quella assurda suggestione che può colpire e donare l’amara speranza di rivedere ancora in vita un caro defunto a chi non ha mai potuto nemmeno piangerne il corpo.
E così, dopo la moglie, altri famigliari credettero di riconoscere in quell’impostore il vero Francesco Restivo. E anche i tanti che invece in un primo momento rifiutarono il riconoscimento, dovettero cedere: “si finì col passare da equivoco in equivoco, da illusione in illusione, il potere di critica rimase in tutti annullato, qualunque inezia assunse un valore decisivo, l’inganno aveva trionfato“.
In pochi giorni, Giorgio Bellassai andò a vivere a casa di Angela Licata, proprio come fosse suo marito.
L’inganno continuò ancora e per sapere quali furono le conseguenze, quale fu l’epilogo di questa storia e quale il contegno delle parti nel processo, non vi resta che leggere questa bellissima sentenza, che se non l’avessi scovata su un libro di giurisprudenza assai polveroso, mai avrei detto che potesse esser vera.
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