27 Maggio 1993 – Strage di via dei Georgofili
Era il 27 maggio solo da un’ora e 4 minuti quando un testimone vide dalla terrazza del piazzale Michelangelo due lampi bianchi seguiti da una fiammata innalzarsi nei pressi degli Uffizi. Uno scoppio in via dei Georgofili aveva raso al suolo la Torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili, che crollò su se stessa, disintegrandosi. Danni gravi subirono anche gli edifici adiacenti, tra i quali gli stessi Uffizi, che persero nell’esplosione alcuni capolavori, mentre altre opere d’arte vennero danneggiate – il museo sarebbe riuscito poi nell’incredibile impresa di riaprire le sue porte in meno di un mese. Si sparse nelle vie la voce che l’esplosione era stata dovuta a una fuga di gas e che non c’erano vittime, per fortuna, mentre gli inquilini si riversavano nelle strade in vestaglia e accorrevano i vigili del fuoco, le forze dell’ordine e gli esponenti dell’amministrazione cittadina. Le vittime, però, non tardarono ad arrivare, e alle 5.25 del mattino i soccorritori avevano estratto dalle macerie tutti i componenti della famiglia Nencioni: Angela Fiume, la custode dell’Accademia, suo marito Fabrizio Nencioni e le loro due bambine, Nadia, di neanche 9 anni, e Caterina, che aveva 50 giorni. Nell’incendio causato dallo scoppio perse la vita anche Dario Capolicchio, uno studente di architettura di 22 anni. Al mattino l’ipotesi dell’incidente aveva lasciato il posto a un forte sospetto, praticamente una certezza: l’esplosione era stata provocata dal deflagrare di una bomba. Alle 12.35 arrivò la rivendicazione della Falange Armata.
L’episodio si colloca nella serie di attentati mafiosi realizzati con ordigni tra il 1992 e il 1993 all’interno di “una sorta di stato di guerra” deliberato da Cosa Nostra contro l’Italia. E di guerra parlò il Presidente del Consiglio Ciampi nel commentare l’attentato: “tutta la forza dello Stato sarà mobilitata per stroncare un terrorismo che si manifesta così torbidamente contro la civiltà comune. Siamo in guerra come nel ’44. Combatteremo.” Obiettivo della guerra: costringere lo Stato a scendere a compromessi con la mafia, facendo innanzitutto un passo indietro sul regime carcerario ex art. 41 bis, introdotto dal decreto Scotti-Martelli dopo la strage di Capaci (di cui abbiamo parlato qui).
Quello che colpisce di questo attentato in particolare è la scelta dell’obiettivo. Per la prima volta il Paese, non nuovo a attentati di matrice mafiosa, conobbe una perdita ulteriore a quella straziante della vita umana: il 27 maggio 1993 furono anche l’arte, la storia, la bellezza a venire ferite, cuore pulsante dell’identità e dell’orgoglio nazionale. L’intuizione fu di un trafficante di opere d’arte, che suggerì di colpire il patrimonio culturale del Paese che, a differenza di un giudice o un poliziotto, non avrebbe potuto essere sostituito.
“Nell’Italia tante volte ridotta a bersaglio, nell’Italia dei cadaveri sull’asfalto, delle piazze sconvolte, dei treni esplosi, delle stazioni ferroviarie saltate in aria, delle auto-bomba, non era mai accaduto che venisse attaccato un luogo unico come gli Uffizi di Firenze, che tra le vittime ci fossero meravigliosi quadri insostituibili, libri antichi ed edifici irrimpiazzabili, statue difficilmente restaurabili. Una violenza che dà un dolore in più, un dolore nuovo” (scrisse Lietta Tornabuoni su La Stampa del 28 maggio 1993).