Molte cose sono cambiate nel mondo della giustizia penale italiana dalla seconda metà dell’800 ai nostri giorni.
Chi frequenta le aule dei Tribunali sa bene il clima caotico che regna, specie nei distretti più grandi. Le cause al ruolo esposte fuori dall’aula sono sempre lunghe, forse troppo lunghe.
Per quel che ora ci interessa (per il resto ci sarebbero da fare altri ragionamenti, ma non è questa la sede), ciò che tutto questo comporta è la conseguente necessità di rendere breve quella parte del procedimento penale considerata il fulcro dell’intero iter giudiziario, ossia, usando il termine del codice, la “discussione”. Salvo rari processi (soprattutto in Corte di Assise) sarebbe impensabile per ogni discussione trovare un avvocato parlare per ore, quando dopo quella causa ne sono chiamate altre decine!
Ma è sempre stato così? Ovviamente no.
Se torniamo indietro all’epoca sopra indicata troviamo un mondo completamente diverso, ove l’aula di Tribunale era quasi un palcoscenico (almeno per il pubblico presente).
Per altre Erudizioni Legali:
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- Curiosità giuridiche da ogni tempo e luogo
- Adele Pertici: la prima notaia
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- Il Codice di Hammurabi
I processi penali di particolare interesse collettivo (oggi diremo “di risalto mediatico”), per lo più omicidi particolarmente cruenti, erano seguiti udienza dopo udienza con grande interesse dal popolo, a prescindere dal ceto sociale.
Il momento più seguito era sicuramente quello della discussione finale dell’avvocato, che pronunciava quella che allora era chiamata “arringa conclusiva”, che spesso durava diverse ore.
Questo era il momento in cui il difensore doveva sfoderare tutta la sua capacità, e da ciò che proferiva ne sarebbe dipesa la sorte dell’assistito.
Non a caso le arringhe più celebri degli avvocati venivano poi stampate e vendute nelle apposite librerie (esistevano case editrici che si occupavano strettamente di queste pubblicazioni, come le Edizioni La Toga).

In questo contesto si inserisce una figura cardine dell’oratoria forense ed anche dell’intera categoria di appartenenza. Stiamo parlando dell’Avv. Genuzio Bentini, nato a Forlì il 27 giugno 1874 e morto a Lodi il 15 agosto 1943.
Le sue arringhe erano definite passionali, quasi come fosse sul palcoscenico di un teatro, però nello stesso tempo sempre lineari, organiche, ordinate.
Il trasporto emotivo che suscitava non doveva mai e poi mai essere fine a se stesso.
“Se parli in Romagna picchia forte nella grancassa” scriveva nella sua opera “Consigli ad un giovane avvocato”. Questa frase sintetizza la sua oratoria, o forse in generale l’oratoria della sua terra, ossia la Romagna, piena di vita, di passioni, di rabbie contro i soprusi.
Questo suo modo di vivere la professione viene oggi ricordato da una targa esposta a Forlì presso l’abitazione in cui egli nacque. La targa recita così:
QUI NACQUE
IL 27 GIUGNO 1874
GENUZIO BENTINI
CON L’ELOQUENZA DOMINATRICE
CON L’ESEMPIO
NELLE PIAZZE NEL FORO NEL PARLAMENTO
RISCHIARÒ
LE ORE TENEBROSE
DELL’UMANITÀ

Con questo intendiamo che ogni conoscenza giuridica ed ogni capacità argomentativa doveva sempre e comunque essere utilizzata in difesa della gente umile. La funzione sociale dell’avvocato riscuoteva necessariamente consensi, tanto che lo stesso Bentini fu anche eletto deputato nel 1904 per il Partito Socialista.
È inutile negarlo: Bentini era amato dal suo popolo, quello romagnolo, soprattutto quello più debole (spesso analfabeta come sappiamo) che vedeva in lui l’uomo colto ed istruito che usava quelle conoscenze per difenderli nelle aule di Tribunale.
Sarebbero tantissimi i processi da ricordare in cui vedere Bentini esercitare la sua arte oratoria. Ne ricorderemo qui uno, soprattutto per l’importanza storica che l’episodio ricopre nella sua terra di origine.
Stiamo parlando del processo per omicidio contro Battista Emaldi, socialista, sindaco di Fusignano (RA), ucciso da due squadristi (tali fratelli Ettore e Vincenzo Montanari) nel 1923. Egli assunse la difesa della famiglia del sindaco, qui costituita parte civile. Il processo si svolse presso la Corte di Assise di Ravenna, concludendosi con la condanna rispettivamente a dieci ed undici anni di reclusione per gli aguzzini di Emaldi (ma sarebbero usciti nel 1925 grazia all’amnistia).
Dalla lettura delle sue parole, qui riportate, si apprezza il suo modo di concepire il ruolo dell’avvocato, che sempre deve tenere a mente il pensiero umano e le sorti della persona patrocinata:
“Io parlo in nome di un uomo che è stato ucciso barbaramente, senza colpa, a 44 anni, parlo in nome di una vedova e di orfani che precipitarono in un attimo dalla gioia nella sventura e dalla agiatezza nel bisogno di tutto, del pane, dell’amore e nel consiglio. Ne rappresento, si o no, del danno e del dolore, in questa causa? Ebbene, in nome del danno e del dolore avrei ragione di chiedervi un verdetto di esemplare condanna; ma io ascolto in quest’ora più la voce della giustizia che le voci che sanno di pianto o di rampogna. Io vi chiedo più di quello che darei io, se fossi al vostro posto”.

Va detto che questo modo di esercitare la professione subì un arresto il giorno 28 maggio 1935, quando gli avvocati italiani dovettero sottostare alla nuova “linea guida” pronunciata da un conterraneo di Bentini, Benito Mussolini, il quale decise che anche lo stile forense dovesse piegarsi alle regole fasciste.
La “nuova” eloquenza doveva essere il più possibile spoglia di ogni qualsiasi elemento enfatico, ma solo con lo stretto necessario della causa in corso. Ovviamente va da sè che questa impostazione era del tutto contraddittoria al metodo usato dal Duce stesso per parlare alla folla.
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Bibliografia:
Laura Orlandini, BATTISTA EMALDI: L’ASSASSIONIO DI UN SINDACO, ed. La Mandragora 2019.
N. Graziani, GENUZIO BENTINI E L’ORATORIA FORENSE NELLA ROMAGNA DEL SUO TEMPO, ed. Forum.
Antonella Meniconi, LA MASCHIA AVVOCATURA, ed. Il Mulino 2006.