Letterato di elevatissima foggia, il noto filosofo stoico Seneca fu esiliato dall’imperatore Claudio per contrasti politici. Non ottenendo giustizia, Seneca aspettò la morte del tiranno per processarlo e umiliarlo: lo leggiamo nell’Apokolokyntosis.
L’età imperiale per Roma fu matassa di turbolenze e contrasti politici: ad eccezione di Ottaviano Augusto, primo imperatore dell’Urbe, ogni sovrano fu osteggiato da questa o quella fazione del Parlamento, dei nobili, del popolo. Le motivazioni erano politiche, militari, economiche ma anche filosofiche: la corrente di pensiero degli stoici, di cui Seneca fu tra i maggiori esponenti, non accettava l’idea che il potere del Parlamento, il governo dei saggi, fosse drasticamente ridimensionato dallo strapotere di un singolo, l’imperatore.
Seneca fu tra i principali filosofi ad occuparsi del rapporto tra virtù, stato e diritto, e sebbene sostenesse la monarchia come miglior forma di governo di uno Stato, riteneva che l’imperatore Claudio fosse carente delle virtù politiche, intellettuali e umane per governare, a differenza del figliastro Nerone, di cui era tutore. Alla fine, Claudio decise di esiliare Seneca nel 41 d.C., in Corsica – mica male – perché sospettato di aver preso parte ad una congiura. Solo dopo la sua morte, nel 49 d.C., il filosofo riuscì a rientrare a Roma: non senza rancore.
Eh sì, perché Seneca si presentò con un’opera satirica a dir poco meravigliosa: l’Apokolokyntosis. Cosa significherà questa parola greca così complessa da pronunciare? Zucchificazione. Trasformazione in zucca.
Si tratta di una satira sottile quanto affilata, elegante quanto stravagante: ogni riga ci parla del processo che Seneca allestisce nell’aldilà per Claudio, e bisogna leggere tra le righe, domandarsi del significato di ogni parola ed espressione per captare a pieno l’odio e il risentimento del filosofo verso il tiranno. Perciò, cari lettori, se ritenete di essere dei tipi rancorosi, vediamo quanto potrete misurarvi con Seneca dopo che avremo parlato di quante ne combina all’anima di Claudio.
E partiamo proprio dall’anima: Seneca scrive che lo spirito del defunto non riusciva a lasciare il corpo, per questo in punto di morte egli soffriva terribilmente. In tutto quel marcio, l’anima non trovava la luce. Era il 13 ottobre del 54 d.C., III idus Octobris. Ma alla fine un buco venne individuato: Claudio non esalò l’ultimo respiro, ma perì liberando la sua anima dopo una gran scoreggia. Raccontano i testimoni che le ultime parole del princeps augusteo furono: “Povero me, mi sono cagato addosso“.
Nel mentre il dio messaggero, Mercurio, discuteva con una delle Parche:
Perché non gli consenti di morire in fretta? Perché vuoi male a lui e allo Stato?
Solo allora Cloto tagliò i fili stolidae tempora vitae, della sua insignificante vita. Venne quindi catapultato nell’aldilà. Giove, il signore degli dei, venne avvisato che un tale di brutte fattezze, canuto e zoppicante – proprio da lui deriverà il termine claudicante – si era presentato e nessuno riusciva a comprendere i suoi suoni mal articolati. Così il saggio dio inviò il prode Ercole a trattare con il brutto sgherro, e l’eroe si avviò verso la sua tredicesima fatica. A prima vista, poco aveva di uomo, scrive Seneca.
Ercole si rivolse a Claudio in greco, ed egli da gran letterato quale si era spacciato per tutta la sua vita, ripose di essere Cesare, e citò Omero: “Da Ilio portandomi il vento mi sospinse dai Ciconi” ma Seneca suggerisce che il verso più appropriato sarebbe stato:
Dove la città distrussi e gli abitanti annientai.
Ercole si prese beffe del rozzo intellettuale, ma poi lo scortò dinanzi al concilio degli dei che era stato preparato per decidere il destino dell’anima nera. Parlarono molti illustri personaggi: il dio Giano ricordò la carriera politica di Claudio, l’ascesa ad imperatore e la pratica dell’apoteosi destinata ai soli discendenti di Augusto, concludendo con amarezza:
Un tempo diventare dio era una gran cosa, ora ne avete fatto il mimo della fava.
Tra i tanti, le parole determinanti furono quelle del divo Augusto, l’anima gloriosa di Ottaviano. Egli rivelò che a stento riusciva a trattenere la rabbia, il dolore e la vergogna di avere un tale discendente, lui che aveva unificato l’impero portando pace per vent’anni, era stato succeduto da un despota che “uccideva gli uomini con la stessa facilità con cui un cane si mette a sedere“. E furono elencati i nomi dei senatori uccisi sotto falso processo da Claudio, i nobili esiliati o fatti sparire per appropriarsi delle loro ricchezze, e persino i parenti: la moglie Messalina, il suocero Appio Silano, i generi Magno Pompeo e Lucio Silano, i parenti della figlia e così via.

Ascoltati i testimoni, Claudio fu trascinato via in attesa dell’ardua sentenza. Nel mentre, Ercole gli mostrò il procedere dei funerali sulla terra: il popolo romano seguiva il feretro sorridendo, i giuristi ritornavano per le strade, lentamente, pallidi ed esili ma finalmente liberi.
Ad attendere la sentenza vi erano i liberti, schiavi liberati, che in vita Claudio aveva preferito come consiglieri ai saggi cittadini romani. Non fu concesso all’imperatore di difendersi, e a lui non parve cosa nuova. Eaco, nobile romano, sentenziò:
Se tu subissi ciò che hai fatto sarebbe giusta sentenza
E allora dapprima si decise di condannarlo a giocare a dadi per l’eternità, vizioso com’era stato in vita – i dadi erano simbolo di immoralità e corruzione – ma con dadi il cui bossolo era sfondato. Poi venne concesso in schiavo a Gaio Cesare, che dopo averlo bruscamente frustato, lo regalò a Eaco. Il nobile allora lo relegò a segretario scribano nelle inchieste giudiziarie, chissà che qualcosa di diritto avrebbe potuto finalmente imparare.
I versi in cui il divo Claudio è trasformato in zucca purtroppo non ci sono pervenuti, sebbene ve ne sia traccia nel Satyricon di Petronio, ma quel che conta è l’umiliazione subita sulla sua memoria.
Il sagace Seneca non scelse a caso questa pratica: la parola greca apokolokyntosis richiama il termine apothéosis, divinizzazione, dunque il filosofo crea una variazione comica sostituendo il termine divinità, the, con zucca, kolokynta, così che Claudio invece di essere santificato, fu acclamato diremmo oggi come zuccone, con chiaro riferimento alla stupidità. Esiste poi una corrente della critica secondo cui il termine reale dell’opera sia apokolokenosis, ossia svuotamento del colon, in riferimento al trapasso dell’imperatore.
Quale che sia il vero nome dell’opera, poco importa: Seneca voleva criticare il male dell’imperatore, dare giustizia ai tanti che erano stati colpiti dalle malefatte di Claudio e che non avevano ricevuto giustizia perché non era possibile accusare, tanto meno processare, il princeps.
I fatti storici riportano che dopo il disastroso periodo di governo di Caligola, l’imperatore pazzo che svuotò le casse di Roma, Claudio regnò per vent’anni risanando il debito pubblico e garantendo stabilità politica. Mise a processo coloro che tentarono congiure contro la sua persona, come ogni sovrano, e in vecchiaia fu probabilmente vittima dei cattivi consiglieri. Non fu il peggiore imperatore della storia romana, ma quest’opera ci insegna una grande lezione:
quale che sia il tuo operato in vita, non inimicarti un grande filosofo, perché sarà il suo giudizio ad arrivare ai posteri.
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