Esattamente sessant’anni fa Jurij Gagarin compiva il primo volo nello spazio. Erano gli anni della Guerra Fredda e l’URSS conquistava un enorme successo nella corsa verso la “nuova frontiera”. Una corsa che, di pari passo, interessò anche il diritto. Man mano che tra gli anni Sessanta e Settanta veniva esplorato sempre di più il cielo diventava urgente regolamentare le attività aerospaziali. E la sfida, ancora oggi, rimane aperta.
Dove comincia lo spazio?
Il diritto spaziale può essere definito come l’insieme di regole e principi volti a regolare lo spazio oltre la zona aerea, compresi gli oggetti, i corpi celesti e le attività correlate al suo interno.
Sarebbe quindi necessario prima identificare l’esatta delimitazione tra spazio aereo e spazio cosmico, cioè il confine tra l’atmosfera terrestre e lo spazio cosmico. Questa operazione però è tutt’altro che semplice: tanto che il Comitato delle Nazioni Unite per gli usi pacifici dello spazio esterno, un comitato creato nel 1958 – un anno dopo il lancio dello Sputnik, il primo satellite artificiale mandato in orbita attorno alla Terra dall’Unione Sovietica il 4 ottobre 1957 – non ha ancora concordato sul criterio più appropriato da adottare.
Dal momento in cui la tecnologia ha permesso all’uomo di penetrare nel “quarto ambiente”, sono stati suggeriti vari metodi che vanno dalla cosiddetta linea di giurisdizione primaria di Kármán (che prende il nome dall’ingegnere ungherese-americano che la sviluppò nel 1957 e la fissò a un’altitudine di 83,6 chilometri sul livello del mare) ad altri limiti individuati di volta in volta sulla base dell’altitudine massima raggiunta da un aereo, dell’attrazione gravitazionale e del perigeo più basso di un satellite artificiale. Questi criteri, volti alla delimitazione di questa sorta di “frontiera verticale”, possono essere ascritti sia a un approccio diretto, che cerca di distinguere due ambienti naturali, sia a un approccio indiretto, secondo il quale lo spazio esterno sarebbe definito per tramite dei dispositivi utilizzati.
Pertanto, la determinazione dell’esatta linea di confine pone già problemi che potrebbero innescare controversie internazionali, poiché la delimitazione dello spazio è essenziale per stabilire il preciso ambito di applicazione del regime giuridico volto a regolamentare le attività che si svolgono al suo interno e, di conseguenza, l’impatto sugli aspetti operativi della ricerca e dell’esplorazione spaziale.
D’altra parte, adottare un unico criterio trascurando gli altri potrebbe portare sia a difficoltà pratiche dovute all’incapacità di molti Paesi di osservare e controllare tale confine designato, sia a un ostacolo allo sviluppo della tecnologia spaziale, con l’effetto paradossale di finire per causare più problemi di quanti ne risolverebbe.
Così il limite giuridicamente rilevante ma non legalmente definito è attualmente legato, in modo piuttosto empirico, al fatto che gli aeromobili non sono in grado di superare l’altitudine di 25 km dal livello del mare mentre i veicoli spaziali e altri oggetti spaziali orbitano ad almeno 95 km dal livello del mare. Nella fascia intermedia (cioè tra 25 e 95 km dal livello del mare) non vi è attività di aeromobili né di veicoli spaziali (tranne la loro ascesa e discesa).
I trattati sullo spazio
La mancata individuazione di tale limite non ha impedito l’emergere di accordi internazionali volti a regolare lo spazio cosmico. Il perimetro legale può essere rappresentato come un pentagono i cui lati sono determinati da accordi presi tra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni ’70.
In un arco di tempo di soli dieci anni si sono susseguiti:
- il Trattato sulle attività degli Stati nel campo dell’esplorazione e dell’utilizzo dello spazio esterno, compresa la Luna e altri corpi celesti (1967);
- la Convenzione sui diritti degli astronauti e i diritti sugli oggetti in spazio esterno (1968);
- la Convenzione sulla responsabilità per danni causati da oggetti spaziali (1972);
- la Convenzione sulla registrazione di oggetti spaziali (1975);
- il Trattato sulla Luna e altri corpi celesti (1979).
Il fil rouge a collegare questi accordi è l’idea – a volte esplicita, a volte no – che le attività nello spazio esterno e i benefici che ne derivano debbano essere finalizzati al benessere di tutti i membri della comunità internazionale e, in generale, dell’umanità, ponendo l’accento sulla promozione della cooperazione internazionale.
Prima di questi accordi di diritto spaziale, il Trattato sul divieto parziale dei test nucleari del 1963 aveva avuto un impatto significativo sulla legge cosmica nella misura in cui proibiva esperimenti nucleari nell’atmosfera e nello spazio, proprio perché, nel mezzo della Guerra Fredda, l’obiettivo primario era evitare che il cosmo diventasse un campo di battaglia tra superpotenze, dando forma concreta alla teoria della mutua distruzione assicurata.
- La Prima Festa della mamma (Milano, 8 maggio 1958)
- 4 maggio 1949: l’Italia nella NATO
- Estradizione: la dottrina nel 1900 e oggi
- Il matrimonio civile è empio: una sentenza dalla Puglia nel 1883
Trattato sullo spazio extra-atmosferico
Il punto di partenza della disciplina dello spazio deve però essere trovato nel Trattato sui principi che governano le attività degli Stati nell’esplorazione e nell’uso dello spazio esterno, inclusa la Luna e altri corpi celesti del 1967, che attualmente conta 110 Stati parti, e afferma, sin dal primo paragrafo dell’articolo 1, che l’esplorazione e l’utilizzazione dello spazio esterno devono essere condotte per il bene e nell’interesse di tutti i paesi, indipendentemente dal livello del loro sviluppo economico o scientifico, dal momento che il cosmo, la Luna e gli altri corpi celesti “sono territorio di tutta l’umanità”. Questo Trattato, normalmente denominato Trattato sullo spazio extra-atmosferico, costituisce una sorta di Magna Carta dello spazio e, oltre a riaffermare il divieto di collocare armi nucleari nel cosmo e di limitare l’uso della Luna e di altri corpi celesti solo per scopi pacifici, afferma anche come lo spazio esterno debba essere liberamente esplorato e utilizzato da tutti gli Stati e come non deve mai essere oggetto di occupazione o appropriazione esclusiva attraverso rivendicazioni di sovranità. Va sottolineato che il Trattato non vieta l’esercizio di attività nello spazio da parte di entità non governative, ma specifica che queste richiedono l’autorizzazione e la supervisione continua dello Stato Parte in cui si trova l’ente non governativo, in modo che vi sia la piena responsabilità dello Stato indipendentemente dal fatto che l’attività di esplorazione sia svolta da entità governative o non governative (articolo 6).
Nel decennio successivo sono stati aggiunti gli altri quattro trattati.
Accordo di salvataggio
Il primo è l’Accordo di salvataggio del 1968, o Accordo sul salvataggio degli astronauti, il ritorno degli astronauti e il ritorno di oggetti lanciati nello spazio, ora ratificato da 98 Stati. L’Accordo di salvataggio impone agli Stati l’obbligo di fornire assistenza agli astronauti in difficoltà e di cooperare per consentire il loro regolare ritorno sulla Terra, nonché di prendere le misure necessarie per recuperare gli oggetti spaziali caduti (un obbligo che ricade sul Paese di lancio se l’oggetto cade in un territorio non soggetto alla sovranità di alcuno Stato).
Convenzione sulla responsabilità spaziale
Successivamente è stata adottata la Convenzione sulla responsabilità internazionale per i danni causati da oggetti spaziali (1972). La cosiddetta Convenzione sulla responsabilità spaziale, ratificata da 98 Stati, delinea un regime di doppia responsabilità dello Stato di lancio: responsabilità oggettiva assoluta per i danni causati da oggetti lanciati in orbita sulla superficie terrestre o ad aeromobili in volo e una responsabilità per colpa per danni causati ad altri oggetti spaziali, comprese persone e/o proprietà a bordo di tale oggetto.
Convenzione di registrazione
Successivamente, nel 1974, fu redatta la Convenzione sulla registrazione degli oggetti lanciati nello spazio: la cosiddetta Convenzione di registrazione, alla quale aderiscono attualmente 69 Paesi, volta a redigere un registro degli oggetti spaziali, sia nello Stato di lancio che presso il Segretario generale delle Nazioni Unite.
Accordo sulla Luna
L’ultima convenzione è l’Accordo del 1979 che regola le attività degli Stati sulla Luna e altri corpi celesti, noto anche come Trattato o Accordo sulla Luna. Riaffermando il divieto di ogni uso militare di corpi celesti, compresi i test di armi o l’istituzione di basi militari, afferma che tali corpi celesti (a eccezione degli oggetti che entrano nell’atmosfera terrestre, come i meteoriti) costituiscono “patrimonio comune dell’umanità”.
Da questo principio derivano sia obblighi negativi – come il divieto di effettuare esplorazioni o utilizzare corpi celesti senza l’approvazione di tutti gli altri Stati, di alterare l’ambiente dei corpi celesti, di dichiarare la sovranità esclusiva su qualsiasi territorio di corpi celesti – sia obblighi positivi – come il dovere di notificare al Segretario Generale delle Nazioni Unite tutte le attività spaziali e le scoperte fatte a seguito di queste attività, l’obbligo di adottare misure adeguate per evitare contaminazioni accidentali dell’ambiente spaziale, il vincolo per gli Stati che prendono oggetti spaziali durante le attività di ricerca di renderne una parte disponibile a tutti i paesi e alla comunità scientifica.
Eppure, anche se l’Accordo sulla Luna è entrato in vigore nel 1984, a oggi è stato ratificato solo da 18 Paesi, nessuno dei quali è una potenza spaziale: questa riluttanza può essere ricondotta a due ragioni principali. In primo luogo, il Trattato afferma che gli Stati Parti hanno responsabilità internazionale per le attività nazionali, condotte da agenzie governative o da organismi non governativi, e devono anche garantire che le attività nazionali siano svolte in conformità con le disposizioni stabilite nel Trattato. In secondo luogo, il timore che, a causa del principio del “patrimonio comune dell’umanità” (elaborato principalmente nella Convenzione di Montego Bay in relazione ai fondi oceanici), quegli Stati che possiedono il know-how tecnologico e le risorse necessarie per raggiungere la Luna e altri corpi celesti avrebbero dovuto condividere i benefici da essi ottenuti con altri membri della comunità internazionale.
Patti e legislazione secondaria
A seguito dei suddetti trattati che tracciano il quadro giuridico per le attività spaziali, il regime internazionale del cosmo si arricchisce anche di altre regole, tra cui patti come l’Accordo intergovernativo della Stazione Spaziale Internazionale del 1998 tra Canada, Federazione Russa, Giappone, Stati Uniti Stati e altri dieci Stati membri dell’Agenzia spaziale europea, che smantella l’ideologia dei blocchi promuovendo la cooperazione.
Vi è poi della legislazione secondaria come i Regolamenti sulle radiocomunicazioni – vincolanti per i membri dell’Unione internazionale delle telecomunicazioni, agenzia specializzata delle Nazioni Unite – in base al quale gli Stati “devono tenere a mente” un uso delle frequenze “razionale, efficiente ed economico … in modo che paesi o gruppi di paesi possano avere un accesso equo a quelle orbite e frequenze, tenendo conto delle particolari esigenze dei PVS e della situazione geografica di alcuni Paesi”, così invertendo il principio primo arrivato, primo servito verso uno nuovo basato “sul principio dell’uguaglianza dei diritti di tutti i paesi, grandi o piccoli, per un accesso equo a queste bande”.
In questo quadro, vale la pena menzionare l’esistenza di norme non vincolanti su:
- televisione satellitare diretta (1982);
- telerilevamento (1986);
- uso di fonti di energia nucleare nello spazio (1992);
- cooperazione internazionale per l’esplorazione e l’uso dello spazio, con particolare riferimento alle esigenze dei paesi in via di sviluppo (1999).
Proprietà privata nello spazio
Nei suoi brevi 17 articoli, Trattato sullo spazio esterno non menziona direttamente la questione dell’uso delle risorse spaziali da parte di privati, che appariva, al tempo della creazione del Trattato, uno scenario molto irrealistico.
All’ombra di un quadro giuridico così ambiguo e sfocato si trova il Commercial Space Launch Competitiveness Act degli Stati Uniti, firmato dal presidente Obama nel 2015. Secondo questa legge, gli Stati Uniti non solo autorizzano attività di estrazione spaziale privata, ma riconoscono anche il diritto di aziende private registrate nel loro territorio di appropriarsi e utilizzare a fini commerciali le risorse ottenute nello spazio.
La legislazione statunitense è stata fonte di ispirazione per il Lussemburgo, che nel 2017 ha emanato un legge che riconosceva alle aziende private il possesso delle risorse che trovano nello spazio, come i minerali contenuti negli asteroidi.
Opposte da Stati come il Belgio e la Federazione Russa, queste normative nazionali si basano su un’analogia giurisdizionale con la Convenzione di Montego Bay. Secondo tale convenzione, se da un lato nessuno Stato può rivendicare la propria sovranità su una qualsiasi parte dell’alto mare (in quanto è considerata res communis omnium, cioè una “cosa di dominio pubblico”), dall’altro consente attività di pesca e sfruttamento. Allo stesso modo, il divieto di cui all’art. 2 del Trattato sullo Spazio Esterno, per quanto riguarda l’appropriazione della Luna e dei corpi celesti, non implicherebbe un’estensione di tale divieto anche alle risorse in essi contenute.
La logica alla base di queste legislazioni è quella di delineare un quadro giuridico di riferimento che garantisca ai privati i diritti sulle risorse che estraggono dallo spazio, per evitare il rischio finale di delocalizzazione di queste società, spostandosi in Paesi che non fanno parte del Trattato sullo spazio extra-atmosferico. L’Ordine esecutivo sull’incoraggiamento del sostegno internazionale al recupero e all’uso delle risorse spaziali, promulgato il 6 aprile 2020 dal presidente Donald J. Trump, fa parte di questo quadro giuridico e conferma il sostegno della politica statunitense al pieno sfruttamento commerciale del risorse del cosmo.
In conclusione, il quadro giuridico che definisce la nuova Space Economy appare multiforme e governato da una vasta pluralità di elementi. Tra questi, la geometria variabile degli Stati che ratificano i numerosi accordi e strumenti internazionali; l’assenza di una chiara gerarchia di principi e trattati, in cui non è certo quale vecchia regola sia ancora valida o quale sia stata offuscata da una nuova; le linee sfumate dell’elemento economico/commerciale legato allo sfruttamento delle risorse dello spazio da parte di enti pubblici e privati; la mancanza di un apparato istituzionale come una Conferenza delle Parti o un Segretariato, organi normalmente richiesti nei più recenti trattati multilaterali.
Riassumendo questi aspetti, oggi il diritto spaziale mostra tutti i segni del tempo in cui si è sviluppata, risentendo di varie incertezze e fragilità legali che potrebbero essere affrontate sia attraverso pull factors per gli investimenti di società pionieristiche (come Blue Origin di Jeff Bezos, Virgin Galactic di Richard Branson o SpaceX di Elon Musk), o attraverso push factors, soprattutto alla luce della duplice natura delle applicazioni aerospaziali, entrambe applicabili, per natura, al settore militare e civile.
Proprio quest’ultimo punto – vale a dire il fatto che lo sviluppo di qualsiasi applicazione aerospaziale, anche di natura non commerciale, possa rappresentare una potenziale minaccia alla sicurezza – ha portato il presidente Donald J. Trump, nel dicembre 2019, a dichiarare lo spazio esterno un territorio di guerra e a costituire la United States Space Force, il sesto ramo indipendente delle forze armate statunitensi. Tale mossa viola chiaramente il Trattato sullo spazio extra-atmosferico, alla luce del divieto sancito nell’articolo 6 di collocare qualsiasi tipo di arma di distruzione di massa, di installare basi militari, di effettuare esperimenti per scopi militari, di eseguire manovre militari di qualsiasi tipo nello spazio esterno.
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